Solo Del Sano Vecchio Blues E Rock’n’Roll. Reverend Peyton’s Big Damn Band – Dance Songs for Hard Times

Reverend Peyton’s Big Damn Band Dance Songs for Hard Times

Reverend Peyton’s Big Damn Band – Dance Songs for Hard Times – Family Owned Records/Thirty Tigers

Dovrebbe essere l’undicesimo disco per il trio dell’indiana, portatori sani di vintage R&R, blues e rockabilly: Josh Peyton e soci, detti anche The Reverend Peyton’s Big Damn Band, ovvero The Reverend Peyton, che canta e suona vari tipi di chitarra, preferibilmente creati negli anni della Depressione, fine anni ‘20, anni ‘30, benché spesso costruiti comunque anche nella nostra epoca, “Washboard” Breezy Peyton, la moglie, che è facile intuire cosa suoni, e Max Senteney, alle prese con un drum kit veramente minimale. Dopo il disco precedente https://discoclub.myblog.it/2018/11/17/toh-guarda-chi-si-rivede-se-siete-giovani-vecchi-reverend-peytons-big-damn-band-poor-until-payday/l o scorso anno per loro è stato difficile, al di là che non hanno potuto suonare le consuete 250/300 date all’anno, hanno avuto vari problemi, di salute ed economici: Breezy è stata affetta da una forma di Covid non diagnosticata, non asintomatica, visto che non stava per nulla bene, al padre di Josh è stato trovato un cancro, comunque per usare una terminologia anni ‘50 che tanto amano, entrambi l’hanno “sfangata”, e vista l’inattività ne hanno approfittato per comporre, e poi registrare una serie di nuovi brani (finanziati anche dai fans, visto che senza concerti soldi non ne entrano), ispirati dalla vita durante la pandemia, che hanno chiamato Dance Songs For Hard Times.

A produrre è stato chiamato Vance Powell, già collaboratore di Jack White e Chis Stapleton, che li ha aiutati a ricreare il classico suono analogico e vintage dei loro dischi, per l’occasione il Reverendo, oltre alle consuete chitarre acustiche, ha utilizzato anche chitarre elettriche, ispirate dal Chicago Blues di Howlin’ Wolf e Muddy Waters, quindi più a nord delle 12 battute classiche ed abituali di Charley Patton, Bukka White e altre icone del blues del delta, anche quello dei juke joints e della Fat Possum.

Undici canzoni in tutto che partendo da Ways And Means un gagliardo blues and roll, dove le chitarre ruggiscono, le batterie “battono”, la voce è minacciosa il giusto, ma Breezy alleggerisce con i suoi coretti, con Josh che va di slide, il tutto condito da un divertente video registrato in una lavanderia, che fa molto anni ‘50. Rattle Can è un altro frenetico festival del bottleneck, più primevo ma sempre rabbioso nel suo dipanarsi tra blues e rockabilly, Dirty Hustlin’ è quasi una “strana” ballata porta però nel solito stile sgangherato della band, con il vocione volutamente sgraziato del nostro, una specie di Captain Beefheart meno estremo.

 I’ll Pick You Up è una sorta di boogie raccolto, se mai un giorno gli ZZ Top decidessero di fare un disco unplugged, Too Cool To Dance, sempre molto fifties, tra rockabilly e blues, Stray Cats con steroidi o Chuck Berry in crisi di ispirazione, in ogni caso piacevole, No Tellin’ When, con Josh in solitaria, vira verso il blues primigenio delle origini, con svisate di slide a piacere, mentre Sad Songs potrebbe ricordare, magari non la voce sopra le righe, certe cavalcate elettriche del compianto John Campbell, specie quando Peyton comincia ad andare di bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qm60sSzH3bE , con l’autobiografica (?) Crime To Be Poor, un brano cadenzato, dove il Reverendo per l’occasione sfodera pure l’armonica per un altro dei suoi deliranti “attentati” alle 12 battute, sempre con slide acustica preminente nel suono. L’urlata ‘Til We Die deve più di qualcosa a Elmore james e a tutti i suoi discepoli che da anni animano con i loro “colli di bottiglia” le vie del blues più genuino e anche Nothing’s Easy But You And Me trasuda vecchi ardori blues con grinta ed amore per le vecchie sonorità dei padri fondatori delle 12 battute, prima del congedo affidato alla combattiva Come Down Angels. Se amate il genere e la band sapete cosa aspettarvi, quindi niente sorprese, per gli altri solo del sano vecchio blues e Rock’n’Roll.

Bruno Conti

Toh Guarda Chi Si Rivede: Se Siete “Giovani Vecchi”! Reverend Peyton’s Big Damn Band – Poor Until Payday

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Reverend Peyton’s Big Damn Band  – Poor Until Payday – Family Owned Records/Thirty Tigers

Mi ero occupato di loro recensendo l’album del 2011 https://discoclub.myblog.it/2011/10/18/giovani-vecchi-tradizionalisti-rev-peyton-s-big-damn-band-pe/ , ma poi nel frattempo non è che si fossero ritirati, tutt’altro, più o meno un album all’anno lo pubblicano con regolarità e quindi eccomi di nuovo a parlare di loro.

Album numero 10 (più qualche EP), in circa quindici anni di carriera, per il trio “revivalista” Reverend Peyton’s Big Damn Band: nel loro mondo musicale in cui la tecnologia utilizzata non dovrebbe essere più recente del 1959, tutto è registrato dal vivo in studio su nastro analogico, l’unica cosa che ogni tanto cambiava era il batterista. Ma la coppia Josh Peyton, chitarre Fingerstyle e slide, armonica e voce, nonché in questo Poor Until Payday autore di tutti i brani, e la moglie “Washboard Breezy”, un nome, una professione, sembra essersi affezionata al batterista e percussionista Maxwell Senteney, già “ben” al secondo disco con loro. Per il resto in quel mondo parallelo fatto di vecchie chitarre, amplificatori e microfoni dell’era pre-anni ’60, tra blues, rock’n’roll e sonorità vintage, poco o nulla cambia disco dopo disco, forse cresce la loro popolarità, grazie anche ad un contratto di distribuzione con la Thirty Tigers che consente una maggiore visibilità all’etichetta di famiglia, e magari per gradire giusto qualche pizzico di country, hillbilly, gospel e Americana nel loro menu sonoro.

Rodati da qualche centinaio (esageriamo, massimo trecento) di date on the road all’anno, il Reverendo e i suoi seguaci aprono i sermoni con l’arrembante gospel-country-blues corale di You Can’t Steal My Shine , tra slide guitar in fingerpickin’, percussioni in libertà e belle armonie vocali i tre confermano la loro bravura e stamina. Ma la Big Damn Band, come altri hanno ricordato, fa anche del blues come l’avrebbero suonato gli ZZ Top se fossero vissuti ai tempi di Charley Patton, sintomatico in questo senso il boogie blues di Dirty Swerve, con il call and response tra il vocione di Josh e quella più contenuta, ma ricca di grinta, di Breezy, mentre chitarre e percussioni ci danno dentro alla grande; Poor Until Payday, con il bottleneck in modalità Elmore James, è una sorta di inno per l’uomo comune dei nostri giorni, povero fino al giorno di paga ma orgoglioso, come sottolinea una armonica sinuosa. So Good, con una amplificazione più potente, avrebbero potuto suonarla George Thorogood, i Canned Heat o Johnny Winter, sempre con Breezy che “aizza” il marito dai lati e Senteney che picchia di gusto sul suo drumkit, piccolo ma sincero.

Church Clothes è un folk blues acustico dall’atmosfera raccolta, ricco di pathos e amore per i suoni del passato, solo voce e la solita slide insinuante di Peyton che cerca di far rivivere l’epopea di Patton e Robert Johnson. La vibrante Get The Family Together è più scatenata, energica e frenetica, con chitarre e batterie ovunque, tanto che alla fine della galoppata il buon Josh esclama “That Felt Pretty Hot”, Me And The Devil è della categoria figli illegittimi di Howlin’ Wolf e Robert Johnson, il massimo della elettricità a cui si spinge questa piccola grande band, con Frenchmen Street che ci porta a fare una capatina anche nelle strade e nei  vicoli più nascosti di New Orleans, quelli dove impera ancora la musica tradizionale pura e pimpante. I Suffer, I Get Tougher, un titolo e al tempo stesso una dichiarazione di intenti, è un altro esempio del loro blues “bastardizzato” da anni di contatti e ascolti del rock che è venuto dopo, ma che loro suonano con 30 watt scarsi di energia fregati da qualche vicino di casa, e per concludere un’altra abbondante dose di bottleneck boogie-blues and roll, se così possiamo definirlo, per una energica It Is Or It Ain’t che dovrebbe fare faville nei loro Live shows. Solo per “giovani vecchi”, o anche il contrario!

Bruno Conti