Torna Il Rocker Del Mississippi Con Uno Dei Dischi Più Divertenti Dell’Anno. Webb Wilder – Night Without Love

webb wilder night without love

Webb Wilder – Night Without Love – Landslide CD

L’ultima volta che mi sono occupato di Webb Wilder (che a dirla tutta era anche la prima) è stato quando due anni fa ho recensito il divertentissimo Powerful Stuff, che non era un album nuovo ma una collezione di outtakes registrate tra il 1985 ed il 1993 https://discoclub.myblog.it/2018/06/08/unora-di-divertimento-assicurato-webb-wilder-the-beatnecks-powerful-stuff/ . Oggi però Wilder torna davvero tra noi a cinque anni di distanza dal suo ultimo lavoro (Mississippi Moderne) con questo Night Without Love, che fin dal primo ascolto si afferma come uno dei dischi più godibili ed “entertaining” (termine inglese intraducibile – intrattenevole? – ma che rende benissimo l’idea) del 2020. Se non avete mai sentito nominare Wilder non preoccupatevi, in quanto è uno dei tanti “signor nessuno” del mondo della musica mondiale: esordiente nel 1986 con l’album It Came From Nashville, Webb ha sempre tirato dritto infischiandosene del fatto che i suoi lavori non vendevano una cippa, proponendo la sua miscela spesso irresistibile di rock’n’roll, country, boogie e power pop al fulmicotone, che lo faceva sembrare una via di mezzo tra Commander Cody ed i Blasters.

Night Without Love dovrebbe essere il decimo album di Wilder, e posso affermare senza tema di smentita che è uno dei suoi migliori di sempre, undici canzoni divise tra cover e brani originali che ci fanno ritrovare un rocker che ha sempre fatto musica “just for fun”, riuscendoci peraltro perfettamente. Il disco (la cui copertina è disegnata da James Flournoy Holmes, l’uomo dietro alle copertine di Eat A Peach degli Allman, Fire On The Mountain della Charlie Daniels Band e In The Right Place di Dr. John) vede Webb accompagnato dal suo abituale collaboratore George Bradfute, che suona qualsiasi tipo di strumento oltre a produrre il lavoro, ma anche da Rick Schell alla batteria, Bob Williams alla steel ed il noto chitarrista Richard Bennett in un brano. Trentasette minuti di musica, non un secondo da buttare. Si parte alla grande con Tell Me What’s Wrong, trascinante rock’n’roll dalla ritmica potente cantato dal nostro con una voce alla Johnny Cash, per proseguire sullo stesso livello con la title track (scritta da R.S. Field, produttore dei primi album del nostro), energica ballata sfiorata dal country con un mood anni sessanta e tanta grinta, e con il rockin’ country a tutto ritmo e chitarre Hit The Nail On The Head, vigorosa cover di un pezzo dei quasi dimenticati Amazing Rhythm Aces.

Holdin’ On To Myself, scritta da Chip Taylor, è uno scintillante honky-tonk dominato dalla steel, ma il capolavoro del disco secondo me arriva con il brano seguente: per il sottoscritto Be Still era già nella sua versione originale uno dei migliori brani dei Los Lobos (lo trovate su The Neighborhood, 1990), ma questa rilettura di Webb è strepitosa, in quanto fa ancora di più uscire la splendida melodia non cancellando le radici messicane ma aggiungendo una patina malinconica da vero balladeer. In poche parole, una goduria. A questo punto abbiamo cinque canzoni consecutive scritte da Wilder da solo o in compagnia: la deliziosa e coinvolgente rock song “californiana” Illusion Of You, con uno stile che ricorda parecchio gli Heartbreakers di Tom Petty, la splendida Buried Our Love, country-rock bello come se ne sentono pochi, la squisita Sweetheart Deal, ballata guidata dall’organo con un sapore blue-eyed soul e scritta nientemeno che con Dan Penn, la contagiosa Ache And Flake, tra rock’n’roll e power pop con un refrain vincente, e la fluida folk-rock ballad The Big Deal. Chiusura con una travolgente rilettura del classico jump blues di Tommy Tucker (ma inciso tra gli altri anche da Elvis e Chuck Berry) Hi Heel Sneakers, nobilitata da un farfisa dal suono decisamente vintage ed un approccio che ricorda quello dei già citati Blasters.

Se dovessi fare una scommessa, forse Night Without Love non entrerà nella Top Ten dei migliori album del 2020, ma sono quasi certo che sarà uno dei CD che ascolterò di più.

Marco Verdi

Dalla Russia Con Amore ! Iris DeMent – The Trackless Woods

iris dement the trackless woods

Iris DeMent – The Trackless Woods – Flariella Records

In questo mondo non propriamente bello, succede che due rispettabili signore s’incontrano, a dispetto di culture diverse, e alla fine di questo percorso che sfocia in questo meraviglioso The Trackless Woods, non resta che ascoltare ammirati. Una è Anna Achmatova (1889-1966) una formidabile poetessa cantrice della Russia del Novecento, che raccontò nei suoi versi, pagando per questo un prezzo altissimo. L’altra, Iris DeMent (moglie di Greg Brown, uno dei cantautori più menzionati in questo Blog), vive dall’altra parte del mondo nella zona rurale dello stato dell’Iowa,  ed è da sempre considerata come una delle voci assolute della musica tradizionale americana.

Titolare di una discografia composta da cinque album usciti tra il 1992 e il 2012, la DeMent si è costruita la sua carriera in modo lento e faticoso debuttando con Infamous Angel (92), il disco che le ha dato giustamente la fama, a cui fece seguire il country puro di My Life (93), le canzoni di protesta di The Way I Should (96), una raccolta di brani di carattere gospel come Lifeline (04), e, dopo una lunga pausa, lo splendido Sing The Delta (12), una serie di canzoni introspettive e personali, supportate da un suono tra rock, country e gospel http://discoclub.myblog.it/2012/11/22/se-fosse-anche-prolifica-sarebbe-perfetta-iris-dement-sing-t/ .

In The Trackless Woods sono diciotto le poesie che Iris ha musicato nel salotto di casa sua ad Iowa City, assecondata dal noto produttore e amico Richard Bennett (Emmylou Harris, Neil Diamond, Steve Earle fra i tanti), e un piccolo gruppo di supporto (con pochi tocchi di chitarra acustica o di  steel guitar), dove comunque “la parte del leone” la fanno il pianoforte e la voce della DeMent,  frutto della fusione tra folk, country e gospel.

Le poesie di Anna nelle mani di Iris diventano degli inni che descrivono il dolore, come nel trittico iniziale To My Poems, Broad Gold, And This You Call Work, la religione, come nella dolcissima Prayer, la guerra civile russa nella commovente Not With Deserters, il sollievo di All Is Sold e Oh. How Good, l’umiltà di una pianistica e superba Reject The Burden, passando per il country rurale di From An Airplane, dove limpide note di chitarra segnalano la presenza del grande Leo Kottke.

Le liriche proseguono descrivendo la passione in brani introspettivi come le pianistiche Like A White Stone e Song About Songs, il solare folk di Listening To Singing, e il personale rimpianto di una perdita nella toccante Lot’s Wife, andando a concludersi con il desiderio attraverso il valzer di Upon The Hard Crest, il lamento sussurrato di una straziante The Souls Of All My Dears e una breve e dolente The Last Toast, fino al miracolo finale di una ballata pianistica, Not With A Lover’s Lyre, nella quale sono inclusi alcuni versi recitati in prima persona (con voce spettrale) dalla Achmatova, dove mi piace pensare che idealmente le due “signore” si avvicinano e si abbracciano.

Iris e suo marito Greg hanno adottato una bambina russa di nome Dasha, è questo evento è stato determinante per avvicinarla alle letture poetiche di Anna, e far scattare il colpo di fulmine che è sfociato in questo progetto The Trackless Woods, dando vita ad un disco di ballate, introspettive ed accorate, canzoni apparentemente fragili, ma emotivamente potenti, dove, qui più che nei dischi passati la voce della DeMent svetta sopra ogni cosa, per raccontarci storie così meravigliose da stordirci per il loro splendore e bellezza, ricordando che tutto ciò è partito da una sperduta fattoria dell’Iowa. Se esiste una sola prova dell’estraneità assoluta di Iris DeMent dal “music business”, questo lavoro lo certifica, ma nello stesso tempo ci sono dischi che nascono sotto una buona stella, e questo The Trackless Woods è certamente un’opera commovente e stimolante, che saprà rivelare segreti preziosi a chi abbia la pazienza e la disposizione di ascoltarla, dal profondo dell’anima.!

Tino Montanari

Divertimento Assicurato! Paul Burch – Fevers

paul burch fevers

Paul Burch -Fevers – Plowboy CD

Paul Burch, musicista nativo di Washington ma trapiantato a Nashville, è in giro da quasi vent’anni, ma è uno dei segreti meglio custoditi del panorama musicale Americano.

Ha esordito nel 1996 con l’album Pan-American Flash, e da allora ha pubblicato una decina di album, sempre ottimamente bilanciati tra musica country (la sua base di partenza), folk, rock’n’roll e qualche puntata nel blues. Vera American music quindi: Paul non ha mai conosciuto il successo, non è mai andato oltre uno status di cult artist, ma ha sempre fatto quello che voleva, come voleva e quando voleva. Lo scorso anno ci aveva piacevolmente stupito con l’ottimo Great Chicago Fire, uscito per la Bloodshot http://www.youtube.com/watch?v=OVPG-TOv_UI e nel quale Burch si faceva accompagnare dai Waco Brothers, che come sappiamo è una delle migliori e più longeve band di alternative country, un disco che alternava mirabilmente un country molto vigoroso ad episodi decisamente rock, con l’influenza dei Rolling Stones ben presente.

waco brothers paul burch

Con questo nuovo album, intitolato Fevers, Paul cambia le carte in tavola, richiama la sua band WPA Ballclub (il cui leader, il noto polistrumentista Fats Kaplin, è anche co-produttore del disco), e ci regala un godibilissimo lavoro di pura Americana, con deliziosi arrangiamenti vintage che fanno lo fanno sembrare un vecchio LP di qualche oscuro musicista degli anni 50/60. C’è di tutto in Fevers (country, folk, blues, rock’n’roll, pop, swing), http://www.youtube.com/watch?v=3b2OQHs2b2A ma l’insieme non suona assolutamente dispersivo, ma anzi dimostra che Burch è un musicista di grande talento che non ha mai avuto l’attenzione che avrebbe meritato. I suoni sono semplici, diretti, nulla a che vedere con le produzioni cromate di Nashville, ma da questi solchi viene fuori l’amore del nostro per le tradizioni (anche se dieci canzoni su tredici sono opera sua), e la varietà di stili non è un segnale di dispersività, ma ,al contrario, di compattezza.

paul burch 1

L’iniziale Cluck Old Hen è un traditional folk, e Paul lo ripropone proprio come se fosse uscito dall’Anthology Of Folk Music: voce, violino, mandolino e poco altro. Couldn’t Get A Witness è un rockabilly d’altri tempi, diretto, godibile ed essenziale nei suoni: violino, basso e batteria, con una chitarra mixata talmente bassa che quasi non si sente http://www.youtube.com/watch?v=1gDQ7AaaLsk . Ma il brano funziona lo stesso. La splendida Straight Tears, No Chaser è uno scintillante honky-tonk suonato alla maniera classica, con la doppia voce di Kristi Rose ad impreziosire una gemma già lucente di suo: la steel di Kaplin ed il pianoforte della brava Jen Gunderman (in passato anche con i  Jayhawks al momento nei Last Train Home) fanno il resto.

Two Trains Pullin’ è una classica pop ballad, gradevolissima e molto anni ’50 (mi ricorda certe cose di Nick Lowe), mentre Ocean Of Tears (cover di un classico del grande Tennesse Ernie Ford) http://www.youtube.com/watch?v=CkigmANGaco è uno slow jazzato, sempre a due voci (stavolta con Kelly Hogan), quasi un brano afterhours, di gran classe: sentire per credere. Con Luck Ran Out si cambia decisamente genere: un pezzo con sonorità quasi low-fi, un bluesaccio sudista con accenni swamp, alla Tony Joe White, mentre con il pop-rock Breaking In A Brand New Heartache torniamo decisamente dalle parti di Lowe, anzi quasi mi stupisco di non trovare nei credits del brano il nome del geniale musicista inglese.

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Con la deliziosa (I Love) A Melancholy Baby torniamo negli anni a cavallo tra i cinquanta ed i sessanta, ed anche l’arrangiamento vintage fa la sua parte; Give It Away è invece un rock’n’roll venato di country e dominato dal piano (chi ha detto Jerry Lee?). Sac Au Lait ci porta in territori cajun, non c’è la batteria ma il piedino si muove lo stesso, mentre Sagrada è un pezzo che mi ricorda certe cose dei Los Lobos, non quelli folk tradizionali ma quelli contaminati con il rock un po’ obliquo, come se ci fosse Mitchell Froom dietro alla consolle (è chiaro che qui la produzione è moooolto più artigianale!).

Chiudono un album fresco e stimolante una bella cover di Going To Memphis (un classico di Johnny Cash, era sul mitico Ride This Train), con ospite Richard Bennett al mandolino e Paul che prova a tenere il passo del Man in Black (ma non ne ha la voce, chiaramente), e Saturday Night Jamboree, un gustoso western swing ancora molto vintage.

Date una chance a Paul Burch, non vi deluderà, e probabilmente vi divertirà pure.

Marco Verdi

Se Fosse Anche Prolifica Sarebbe Perfetta! – Iris DeMent – Sing The Delta

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Iris DeMent – Sing The Delta – Flariella CD

Uno dei “mini-eventi” discografici di questo 2012 che volge al termine è sicuramente il ritorno discografico di Iris DeMent (che come forse ricordate è anche la moglie di Greg Brown). Erano infatti ben sedici anni, cioè da The Way I Should (che all’epoca era il suo terzo album), che la brava Iris non pubblicava un disco di brani originali: in mezzo (nel 2004) era uscito il bellissimo Lifeline, che però era una raccolta di brani tradizionali (tranne uno) a sfondo gospel, oltre a qualche sparuta apparizione in colonne sonore, tributi ed ospitate per duetti in dischi altrui. Mi ero quindi quasi dimenticato della sua esistenza, in sedici anni è cambiato il mondo (non solo musicale), ma ci ha pensato la sua nuova fatica Sing The Delta a farmi di nuovo apprezzare un’artista di primissimo livello.

Sing The Delta (il titolo potrebbe far pensare ad un album di cover di blues del Mississippi, ma in realtà sono tutte canzoni nuove di zecca) è infatti un grande disco, ispirato, lirico, suonato in maniera fluida e cantato al solito molto bene dalla voce squillante e giovanile di Iris (in contrasto con la sua immagine trasandata presente sulla copertina e nel booklet del CD, stile massaia stressata), un disco musicale nel vero senso della parola con Iris davvero in forma smagliante, accompagnata da uno stuolo di musicisti di primo piano, tra cui i produttori Bo Ramsey (fedele collaboratore suo ed anche di suo marito) e Richard Bennett, il maestro della steel guitar Al Perkins e l’ex Double Trouble Reese Wynans: lei stessa si dimostra una pianista formidabile, sentire per credere (e questo particolare non lo ricordavo). Senza esagerare, penso di trovarmi di fronte ad uno dei 10-15 migliori dischi dell’anno, di sicuro il migliore in ambito femminile (più di Mary Gauthier, che è dal vivo e quindi non con brani nuovi, di Ashes And Roses di Mary Chapin Carpenter, bello ma alla lunga un po’ statico, e di Banga di Patti Smith, che mi è piaciuto solo in parte).

Dodici brani, uno meglio dell’altro, con uno stile che parte dal country, punto di partenza naturale della musica di Iris, per sfociare nel folk e nel gospel con estrema naturalezza, eccellente feeling interpretativo e grande compattezza di fondo, il tutto condito con una finezza non comune. Anche i testi riflettono questa semplicità: si parla di famiglia, lavoro, affetti, fede, ricordi di gioventù, un mix estremamente spontaneo nel quale realtà (inteso come rimembranze autobiografiche di Iris) e finzione si fondono in maniera mirabile, lasciando il dubbio su dove finisce una cosa e dove comincia l’altra. L’inizio è strepitoso: Go On Ahead And Go Home è una grandissima canzone, con un riff di piano irresistibile, una melodia coinvolgente cantata in maniera superlativa (sto già finendo gli aggettivi a disposizione…). Una delle migliori opening tracks da me ascoltate negli ultimi mesi. E poi, ribadisco, Iris al pianoforte è una goduria per le orecchie, suona quasi come Randy Newman.

Before The Colors Fade, più lenta, è buona ma non eccezionale, l’unico episodio leggermente sottotono, ma con The Kingdom Has Already Come, un country-gospel che rimanda addirittura al miglior Elton John (quello di dischi come Tumbleweed Connection e Madman Across The Water), il disco si rimette sui binari giusti e non si ferma più. La pimpante The Night I Learned How Not To Pray, dall’arrangiamento bucolico e solare, è il tipo di brani country che Emmylou Harris non fa più da una vita, mentre Sing The Delta è unosplendido slow dal sapore quasi soul, dovuto anche all’uso discreto dei fiati. If That Ain’t Love è honky-tonk deluxe, con un tocco folk (ma che pianoforte), Livin’ On The Inside è calda, fluida e ricca di sfumature country, errebi e gospel, mentre Makin’ My Way Back Home è la più country del disco, con la steel di Franklin che ricama da par suo. Le ultime quattro canzoni, la profonda Mornin’ Glory, There’s A Whole Lotta Heaven (strepitosa questa, ricorda Newman anche nello stile), le deliziose Mama Was Always Tellin’ Her Truth e Out Of The Fire, non fanno che completare nella maniera giusta un disco pressoché perfetto.

Album così in America vengono definiti instant classic: speriamo solo di non dover attendere il seguito per altri sedici anni.

Marco Verdi