Una Splendida Full Immersion Nella Leggenda, 3 Giorni Di Pace E Musica! Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive. Giorno 1

woodstock_deluxebox_productshot_1VV.AA: Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive – Rhino/Warner 38CD/BluRay Box Set

*NDB  Dal nostro inviato a Woodstock, resoconto completo del Festival durato tre giorni che quindi sarà diviso in tre parti, la parola a Marco.

Prima Parte

E’ fuori di dubbio che il Festival di Woodstock, che si tenne in realtà nella vicina Bethel, stato di New York (nel gigantesco campo di proprietà dell’agricoltore ed allevatore Max Yasgur) il 15, 16 e 17 Agosto del 1969, fu il più famoso fenomeno musical-cultural-popolare di massa di tutti i tempi, nonché massima espressione del movimento hippy e della Summer Of Love. E’ però altrettanto vero che negli ultimi cinquant’anni si è parlato in lungo e in largo di questo irripetibile evento senza conoscerlo a fondo, dato che per decenni l’unica testimonianza ufficiale di ciò che accadde fu lo striminzito triplo LP che uscì come colonna sonora del film documentario (al quale si aggiunse un altro doppio album nel 1971), ed anche il box di 6 CD uscito nel 2009 per il quarantesimo anniversario gettò una luce solo parziale su ciò che avvenne su quel palco: in pratica gli unici ad aver avuto un quadro completo furono i quasi 500.000 che parteciparono di persona, anche se molti di loro erano fatti come cavalli e non so quanto ricordino di quei tre giorni (quasi quattro, dato che a causa dei vari ritardi accumulatisi si arrivò fino all’alba del 18 Agosto).

Oggi però per mano della Rhino anche Woodstock non ha più segreti, grazie alla pubblicazione di un mastodontico cofanetto che in ben 38 CD (più un BluRay con il Director’s Cut del film originale) riepiloga (quasi) tutto quello che è successo in quei tre mitici giorni d’estate in rigoroso ordine cronologico, un’opera monumentale che ha l’unico difetto di costare parecchio (non affrettatevi però a cercarlo, sono andate già esaurite tutte le 1969 copie, e lo potete trovare a prezzi ancora più alti solo su siti come Ebay o simili), anche se per chi volesse spendere meno esistono una versione in 3 CD (o 5 LP) ed un altro considerevole box di 10 CD. Ma oggi e nei prossimi giorni vi voglio parlare del mega-cofanetto (sì, sono uno dei 1969 pazzi), un manufatto incredibile, di grande pregio, interamente in legno intagliato con attorno un’autentica tracolla per chitarra: all’interno, i 38 CD divisi in tre raccoglitori separati (uno per giorno), uno splendido libro fotografico rilegato a cura di Michael Lang (uno degli organizzatori), un altro libro con la cronaca di ciò che accadde, brevi biografie di tutti gli artisti coinvolti e le tracklist disco per disco, più altre chicche come poster, riproduzione del programma originale, ecc.

Ma quello che più ci interessa è il contenuto musicale, riportato con grande perizia nei vari CD, con ogni artista o gruppo che ha a disposizione un intero dischetto (alcuni anche due), e sono presenti anche i vari interventi parlati e gli “stage announcements” (perlopiù da parte di Chip Monck, tecnico delle luci, e di John Morris, coordinatore di produzione) in modo da fornire un’esperienza il più possibile vicina alla realtà. (NDM: a dire il vero le canzoni non sono tutte presenti neppure stavolta, in quanto mancano una canzone e mezza dal set degli Sha Na Na per problemi al nastro originale e due brani dal concerto di Jimi Hendrix, Mastermind e Gypsy Woman, che erano però cantati dal chitarrista ritmico Larry Lee e per i quali gli eredi di Jimi non hanno dato l’autorizzazione. Diciamo che comunque possiamo fare a meno di queste “mancanze”). Alcune performance sono già note in quanto sono già state pubblicate separatamente in passato (proprio quella di Hendrix, ma anche Jefferson Airplane, Johnny Winter, Janis Joplin, Santana e Sly & The Family Stone, oltre a quella dei Creedence Clearwater Revival che è uscita quasi in contemporanea con questo box), ma qui sono inserite nel loro contesto originale e hanno quindi più senso; e poi finalmente abbiamo la possibilità di ascoltare cose che pensavamo di non sentire mai, come lo show di The Band e quello completo dei Grateful Dead (dei quali fino a quest’anno era uscita solo Dark Star nel box del 2009) e dei soliti devastanti Who, o ancora l’esibizione intera di CSN(&Y), nonché di vivere minuto per minuto l’evento come si fossimo tornati indietro nel tempo, inclusi i momenti di tensione dovuti alle persone che si arrampicavano sulle torri o il disappunto degli organizzatori per la pioggia battente che rischiò di rovinare più di un concerto (tipo quelli degli stessi Dead e dei Ten Years After).

Il box, registrato ottimamente (in mono) è quindi un’esperienza totale, e mi ha fatto anche cambiare l’opinione generale che avevo sul Festival: avevo infatti sempre pensato che, aldilà dell’importanza culturale, le performance non fossero state sempre all’altezza (per esempio giudicavo il Festival di Monterey del 1967 superiore), mentre ora che ho avuto la possibilità di ascoltare tutto quanto ho dovuto rivedere alcune opinioni. (NDM 2: se la lista di partecipanti era impressionante ed impensabile al giorno d’oggi, altrettanto importante è quella di chi per vari motivi era assente, a partire da Bob Dylan che a Woodstock all’epoca ci viveva, ma che snobbò l’evento – salvo poi esibirsi pochi giorni dopo come headliner all’isola di Wight –  come fecero i Byrds, i Doors ed i Led Zeppelin. Poi ci fu il caso dei Jethro Tull che non andarono perché Ian Anderson non sopportava gli hippies, e quelli che dovevano esserci ma che per vari motivi dovettero rinunciare, come il Jeff Beck Group, che si sciolse pochi giorni prima del Festival, i Moody Blues che cambiarono idea o gli Iron Butterfly che rimasero bloccati in aeroporto). Ma occupiamoci di chi a Woodstock c’era, con una disamina disco per disco di quei magnifici tre giorni.

Day 1/CD 1-8.

CD1 – Richie Havens. Il folksinger di colore inaugura il Festival accompagnato da un altro chitarrista ed un percussionista: la sua esibizione si ricorderà per la celeberrima Freedom (ricalcata sul tema del traditional Motherless Child), ma tutta la performance è contraddistinta da riletture personali di brani autografi come la grintosa Stranger e varie cover (With A Little Help From My Friends e Strawberry Fields Forever dei Beatles, I Can’t Make It Anymore di Gordon Lightfoot), il tutto con il suo modo unico di suonare la chitarra, anche se in qualche momento affiora una certa noia.

CD2 – Sweetwater. Band di Los Angeles che inizia più o meno come ha finito Havens, cioè con Motherless Child, qui riletta in stile folk-psichedelico tipico dell’epoca, tipo Jefferson Airplane ma con l’aggiunta del flauto. A seguire una selezione di brani dal songbook del gruppo guidato da Alex Del Zoppo (tastiere) e Nansi Nevins (voce solista), con menzioni particolari per lo strumentale For Pete’s Sake, la limpida e folkie Day Song e la jammata What’s Wrong (15 minuti), con Del Zoppo strepitoso al piano elettrico. Il finale è appannaggio dell’inno hippy Let The Sunshine In e del classico Oh Happy Day.

CD3 – Bert Sommer. Sfortunato cantautore di New York che ebbe il suo unico momento di gloria grazie alla sua partecipazione al musical Hair, ma incise soltanto quattro album e morì nel 1990 a soli 41 anni. Sommer si presenta a Woodstock in trio elettroacustico con una serie di composizioni di matrice folk (lo stile è simile a quello di Donovan), tra cui ottime cose come la melodica Jennifer (ottima voce), l’emozionante The Road To Travel, la splendida ed intensa And When It’s Over ed una riuscita cover di America di Paul Simon.

CD4 – Tim Hardin. Altro musicista che ebbe un tragico destino, anche se a differenza di Sommer era piuttosto famoso: Tim si presenta accompagnato da una band di sei elementi dal suono di matrice folk-jazz. Performance scintillante, con bellissime rese dei suoi due pezzi più noti (If I Were A Carpenter e Reason To Believe), e notevoli brani come la pianistica e struggente How Can We Hang On To A Dream, la fluida e raffinata Speak Like A Child e la bluesata Snow White Lady, grandissima versione di un quarto d’ora. Senza dimenticare la trascinante Simple Song Of Freedom, cover di Bobby Darin ed unico successo a 45 giri del nostro.

CD5 – Ravi Shankhar. In quegli anni, grazie a George Harrison ma non solo, la musica indiana era molto popolare anche in Occidente, e Shankhar ne era indubbiamente il rappresentante più autorevole. A Woodstock Ravi si presenta con il suo sitar a capo di un trio ed intrattiene il pubblico con tre luighe suite strumentali: so che la musica indiana ha diversi estimatori, ma io non sono tra quelli.

CD6 – Melanie. Sette canzoni per voce e chitarra, gradevoli ma non indispensabili: Melanie era una folksinger di terza fascia, nonostante abbia conntinuato ad incidere sino ai giorni nostri ed abbia avuto qualche singolo di successo negli anni settanta. Non male comunque Beautiful People, uno dei suoi brani più noti, ed una discreta cover di Mr. Tambourine Man di Dylan.

CD7 – Arlo Guthrie. Il figlio di Woody si presenta alla testa di un quartetto classico (due chitarre, basso e batteria) per un set decisamente piacevole tra folk e country, con punte come la bella Coming Into Los Angeles, due ottime riletture di traditionals del calibro di Oh Mary, Don’t You Weep e Amazing Grace, l’orecchiabile Every Hand In The Land ed il monologo umoristico The Story Of Moses, più cabaret che musica. E, in mancanza di Bob, una Walking Down The Line più dylaniana che mai.

CD8 – Joan Baez. La più grande folksinger di tutti i tempi si presenta in trio (ed incinta di sei mesi) e fornisce una prestazione solida e ricca di feeling. Grande voce, cristallina e potente al tempo stesso, al servizio di una serie di ballate del calibro di The Last Thing On My Mind (Tom Paxton), I Shall Be Released (Dylan), Joe Hill, Sweet Sir Galahad (uno dei primi brani autografi di Joan), e di traditionals come Take Me Back To The Sweet Sunny South ed una Swing Low, Sweet Chariot cantata a cappella. C’è spazio anche per cover contemporanee come Hickory Wind e Drug Store Truck Drivin’ Man, entrambe dei Byrds, e One Day At A Time di Willie Nelson, e chiusura con l’inno pacifista We Shall Overcome.

Fine della prima parte, segue…

Marco Verdi

Torna Finalmente Il Padre Di Tutti I Tributi! VV.AA. – Woody Guthrie: The Tribute Concerts

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Woody Guthrie: The Tribute Concerts – Bear Family 3CD Box Set

Non ho controllato con precisione, ma credo proprio che il concerto del Gennaio 1968 tenutosi alla Carnegie Hall di New York in memoria di Woody Guthrie sia stato il primo omaggio “all-stars” ad un singolo artista, evento tra l’altro replicato due anni dopo stavolta sulla costa Ovest, alla Hollywood Bowl di Los Angeles, con successo molto minore (anche perché nel frattempo, musicalmente parlando, era cambiato il mondo). E’ comprovato comunque che se in quel periodo c’era una figura meritevole di un tale trattamento, questa era certamente Guthrie (passato a miglior vita nell’Ottobre 1967 dopo una lunga malattia), grandissimo folksinger, attivista convinto e padre putativo musicale del cosiddetto “folk revival” in voga nei primi anni sessanta, oltre che titolare di un songbook talmente importante che negli anni è entrato a far parte della Biblioteca del Congresso (la sua This Land Is Your Land è considerata una sorta di inno americano non ufficiale). I due concerti in questione, organizzati entrambi dal figlio di Woody, Arlo Guthrie (singer-songwriter a sua volta, anche se di statura artistica decisamente inferiore rispetto al padre), portarono sul palco la crema della musica folk (e non) dell’epoca, due serate magiche che vennero pubblicate prima su LP ed in seguito anche su CD, anche se il tutto era ormai fuori catalogo da anni.

Ora la benemerita Bear Family, etichetta tedesca specializzata quasi esclusivamente in ristampe (e quasi mai a buon mercato), immette sul mercato questo Woody Guthrie: The Tribute Concerts, uno splendido cofanetto triplo che presenta per la prima volta i due concerti nella loro interezza, comprendendo anche le parti narrate tra un brano e l’altro (da Robert Ryan, Will Geer e Peter Fonda), ed aggiungendo anche diverse performances mai sentite prima. In più, il box si presenta con due bellissimi libri a copertina dura pieni zeppi di note dettagliate, rare foto dei due eventi, testimonianze dei partecipanti, oltre ad una esauriente retrospettiva sulla figura di Guthrie e sulla sua importanza, includendo anche una discografia essenziale e le copertine di tutti gli album tributo usciti negli anni. Un’operazione importante quindi anche dal punto di vista culturale, che per una volta vale fino all’ultimo centesimo l’alto costo richiesto (circa cento euro). Dal punto di vista della musica, il meglio si trova nel primo CD, che riporta integralmente la serata del 1968 a New York, soprattutto grazie alla presenza di Bob Dylan, un evento nell’evento in quanto si trattava della prima volta on stage dopo i famosi concerti europei del ’66 (e dopo l’altrettanto noto incidente motociclistico). Bob si presenta sul palco insieme a The Band (unico artista della serata a beneficiare di un accompagnamento elettrico, ma stavolta, a differenza di Newport 1965, sono solo applausi), dimostrandosi in ottima forma e proponendo ben tre brani uno in fila all’altro, “rubando” lo show come si dice in gergo: una coinvolgente Grand Coulee Dam, dal ritmo saltellante (e Bob che urla nel microfono come nei concerti del 1966), seguita da una lunga e godibile Dear Mrs. Roosevelt di stampo quasi country e da I Ain’t Got No Home, splendido esempio di folk-rock di classe.

Il resto della serata include la crema del circuito folk dell’epoca, pur con qualche grave assenza (soprattutto Phil Ochs e Dave Van Ronk, oltre a Jack Elliott che però ci sarà nel 1970). Le performances migliori sono date da Arlo Guthrie, con una Oklahoma Hills pura e rigorosa, la splendida Judy Collins con una cristallina So Long, It’s Been Good To Know Yuh (Dusty Old Dust) e la meravigliosa Plane Wreck At Los Gatos (Deportee), una delle più belle folk songs di sempre, Roll On Columbia, la bellissima Union Maid in duetto con Pete Seeger ed una in trio con Pete ed Arlo per una fluida Goin’ Down The Road. Seeger è stranamente poco presente (ma si rifarà due anni dopo), in quanto esegue soltanto la poco nota Curly Headed Baby da solo al banjo e Jackhammer John insieme a Richie Havens, il quale ha poi spazio con la sua Blues For Woody (unico brano della serata non scritto da Guthrie) e con una lunga ed a suo modo coinvolgente Vigilante Man, caratterizzata dal tipico modo di suonare la chitarra del folksinger di colore. Tom Paxton è un altro bravo, e si prende due classici assoluti (Pretty Boy Floyd e Pastures Of Plenty) e la meno nota Biggest Thing That Man Has Ever Done, mentre l’immensa (non solo in senso fisico) Odetta presta la sua grandissima voce ad una Ramblin’ Round da brividi. Gran finale con tutti sul palco (Dylan compreso) per la prevedibile celebrazione di This Land Is Your Land.

La serata del 1970 occupa invece tutto il secondo dischetto e metà del terzo e, nonostante l’assenza di Dylan, risulta in certi momenti ancora più piacevole, grazie soprattutto alla presenza in diversi pezzi di una band elettrica, guidata nientemeno che da Ry Cooder (e la sua slide è riconoscibilissima) e con gente del calibro di Chris Etheridge al basso, John Beland al dobro, Gib Guilbeau al violino, Thad Maxwell e John Pilla alle chitarre e Stan Pratt alla batteria. Rispetto a New York sono “confermati” Guthrie Jr., Seeger, Havens ed Odetta, mentre le new entries sono Jack Elliott, Earl Robinson, Country Joe McDonald e soprattutto una ispiratissima Joan Baez a prendere idealmente il posto della Collins. L’inizio è simile, con Arlo ad intonare Oklahoma Hills (ma con la slide di Cooder in più), mentre gli highlights sono rappresentati da un intenso duetto tra la Baez e Seeger (So Long, It’s Been Good To Know Yuh), le stupende Hobo’s Lullaby e Plane Wreck At Los Gatos (Deportee) sempre con Joan protagonista, una I Ain’t Got No Home con Pete ed Arlo (ed il figlio di Woody ci regala anche una trascinante Do Re Mi, quasi rock), la solita potentissima Odetta (Ramblin’ Round e John Hardy – che è di Leadbelly – entrambe elettriche e da brividi lungo la schiena), mentre Elliott e Country Joe il meglio lo danno rispettivamente con la drammatica 1913 Massacre (dalla quale Dylan rubò la melodia per scrivere la sua Song To Woody) e con la countreggiante Pretty Boy Floyd, con Cooder in grande evidenza. Senza dimenticare una strepitosa Hard Travelin’ dall’arrangiamento bluegrass ad opera di un inedito sestetto formato da McDonald, Eliott, Robinson, Baez, Arlo e Seeger, ed il maestoso finale con This Land Is Your Land ed ancora So Long, It’s Been Good To Know Yuh unite in medley per la durata di dieci minuti (e con la voce di Odetta che si staglia su tutte).

Come ulteriore bonus abbiamo una serie di brevi ed interessanti interviste di quest’anno in cui vari protagonisti (Arlo, la Collins, Paxton, Seeger in una testimonianza del 2012, McDonald ed Elliott) ricordano le due serate fornendo anche qualche aneddoto, oltre ad un Phil Ochs del 1976 (quindi a poco tempo dalla sua morte) ancora risentito del mancato invito. Per chiudere con Dylan che recita la sua poesia Last Thoughts On Woody Guthrie, performance già edita sul primo Bootleg Series. Splendido box quindi, che ci presenta per la prima volta due serate nelle quali i migliori folksingers del mondo hanno fatto squadra per omaggiare il loro ideale padre artistico. In una parola: imperdibile.

Marco Verdi

Anche Lui Se Ne E’ Andato, Silenziosamente! Richie Havens 1941-2013

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Richie Havens se ne è andato, silenziosamente come aveva vissuto (a parte per la musica), stroncato da un infarto, il 22 aprile scorso, a Jersey City, nel New Jersey. Aveva compiuto da qualche mese 72 anni, ma già da alcuni anni, a seguito delle complicazioni per un intevento al fegato, non stava più molto bene, e lo scorso anno aveva deciso di ritirarsi dalle scene e, soprattutto, dai concerti dal vivo.

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Havens non è mai stato servito molto bene dall’industria discografica e proprio la sua “ultima uscita discografica”, avvenuta nel 2012, è stata una sorta di beffa. Alan Douglas (sì, proprio lui quello delle prime ristampe truffaldine di Hendrix), era il proprietario anche dei masters dei primi dischi di Richie: Richie Havens’ Record e Electric Havens, due album registrati prima del cosiddetto debutto ufficiale con Mixed Bag del 1967 e poi pubblicati nel ’68 e ’69 con l’aggiunta di una base di strumentazione elettrica alle registrazioni ufficiali che avevano come di consueto, la voce e la chitarra acustica del nostro, con le mani che mulinano sulle corde con una grinta ed una intensità uniche, più qualche percussione, al limite una seconda chitarra e un basso, un po’ il set up di Woodstock, di cui Havens fu un protagonista indiscusso con una travolgente Freedom (che era lo spiritual tradizionale Motherless Children rivisto dallo stesso Havens in modo personalissimo) .

Lo scorso anno, su Douglas Records, è uscito quel My Own Way che vedete effigiato qui sopra, una sorta di composito dei due album appena citati, mai usciti in CD in versione ufficiale. Molti li considerano bellissimi, altri li amano meno, quello che è certo è che Havens aveva un rapporto di odio ed amore con quelle registrazioni, amore per le composizioni e alcuni brani lasciati nel formato originale, odio per altri con l’aggiunta di una valanga di strumenti, tra cui una armonica particolarmente intrusiva in alcune canzoni. Comunque averne di dischi così: non saranno come dovevano o avrebbero potuto essere, ma la musica e la voce di Havens risuonano forti e chiare, come sempre nella prima parte della sua carriera.

Una voce straordinaria, espressiva come poche, quella di un cantante che era soprattutto un grande interprete, più che un autore: Bob Dylan e i Beatles (giustamente) erano i soggetti preferiti delle sue incredibili interpretazioni, ma anche Leonard Cohen, Gordon Lightfoot, Ray Charles, Donovan, i Bee Gees e mille altri hanno goduto della sua bellissima voce e della sua chitarra inarrestabile. Oltre al citato Mixed Bag anche dischi come Something Else Again, Richard P. Havens 1983, Stonehenge, Alarm Clock e Mixed Bag II non dovrebbero mancare in ogni discoteca che si rispetti, anche se un po’ tutta la sua  discografia, tra alti e bassi, è di notevole spessore.

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Un ricordo personale che risale alla sua venuta in Italia, al Palalido di Milano, nel maggio del 1979 se la memoria non mi inganna, era uno dei primi concerti dopo gli “anni di piombo” che avevano fermato l’attività live in Italia, ai tempi rischiavi il linciaggio o quantomeno un processo sul palco come De Gregori, non era il 1970 o il 1974 come altri (che non cito, ma cercando su Google trovate), forse confusi dalla “nebbia fumogena”, hanno scritto di lui “ricordandolo”, in rete o sui giornali e proprio nell’occasione, uno di questi “hippy sopravvissuti” alla sua epoca, diciamo un personaggio pittoresco, per tutta la durata del concerto, all’inizio di ogni canzone, anche fastidiosamente per i suoi vicini, continuava a gridare “Freedom, freedom…!”, salvo poi addormentarsi clamorosamente e quindi risvegliarsi, quasi alla fine della canzone, pronto a lanciare di nuovo il suo grido di battaglia, Freedom…!!!

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Per l’ultimo disco “vero” della sua carriera, Nobody Left To Crown, uscito nel 2008, era tornato alla sua etichetta delle origini, la Verve Forecast e ancora una volta, nella sua classica miscela di brani originali e cover di classe, le più note Lives In the Balance di Jackson Browne, The Great Mandala di Peter, Paul & Mary e Won’t Get Fooled Again degli Who, la vecchia magia era rimasta intatta, musica semplice e lineare ma cantata con una intensità straordinaria!

So che questi “ricordi” o “tributi” sarebbero più graditi con gli artisti ancora in vita (e quando posso lo faccio, anche se il tempo e la voglia hanno la loro importanza) ma comunque è importante parlare di personaggi che hanno segnato in modo indelibile la musica “rock” degli ultimi 50 anni, più di molti fenomeni da baraccone che infestano la scena attuale, direi meglio “carbonari” che leccaculo! Sia chi scrive, che chi canta e pure chi ascolta.

So Rest In Peace, Richie!

Bruno Conti

Un Musicista Dallo Sri Lanka, Questo Mancava! Bhi Bhiman – Bhiman

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Bhi Bhiman – Bhiman – Boocoo Music 2012

Devo ammettere che un musicista dello Sri Lanka mancava dai miei ascolti, e se Steven Georgiu e Farrokh Bulsara hanno preferito trasformarsi in Cat Stevens e Freddie Mercury, lui è rimasto orgogliosamente Bhi Bhiman, senza assumere nomi d’arte più facili da ricordare. Ma la musica è quella che ti potresti aspettare da un cantautore che viene dalla Bay Area, anche se l’aspetto esteriore è tipicamente asiatico: ricca di spunti, complessa, con arrangiamenti spesso elaborati ma nell’ambito di uno stile decisamente acustico, basato sul picking spesso intricato di Bhiman che è un eccellente chitarrista.

La produzione è affidata a Sam Kassirer che ha lavorato anche con Josh Ritter e ha svolto il suo impegno andando alla ricerca di strumenti  percussivi inconsueti come il cajon e il vibrafono per una musica decisamente folk, ma ha lasciato molto spazio alla chitarra del protagonista che si arricchisce di piano, organo, contrabbasso, anche suonato con l’archetto, come nella criptica The Cookbook, titolo del suo primo album del 2007, dove però per quel perverso gioco degli autori non appariva un brano con quel titolo. San Francisco Chronicle, Washington Post e New York Times, nonché il decano Robert Christgau (uno dei pochi critici musicali americani che scrive ancora cose sagge) gli hanno dedicato spazi entusiastici e meritati, ormai il disco è uscito da parecchi mesi. Cosa altro si potrebbe dire? La voce, per esempio, è uno strumento anche questo, dal timbro acuto, molto evocativa, si spinge a volte fino ad un falsetto quasi alla Tim Buckley o una Nina Simone virata al maschile. Lui stilisticamente dice di ispirarsi anche a Richie Havens, con quello stile chitarristico dalla pennata veemente e quasi percussiva ma è stato inevitabilmente avvicinato a Dylan, Springsteen e Woody Guthrie (per il tema del viaggio, guardate il video), d’altronde parliamo di un uomo con una chitarra acustica, capace di scrivere testi profondi, immersi sia nel sociale come nel raccontare la quotidianità, sulla falsariga dei grandi folksingers.

Ogni tanto affiorano anche elementi etnici, o così mi pare, ad esempio nell’urgenza di un brano come Time Heals dove un vibrafono, così accreditato nelle note del libretto, ma che sembra più una marimba, regala sfumature orientali alla canzone, con la musica che accelera di continuo per poi rallentare in un intenso finale dove la voce di Bhiman incanta l’ascoltatore con le sue evoluzioni e poi accelera di nuovo con delle sonorità che possono ricordare il Cat Stevens che inseriva elementi greci nella sua musica. Nello spazio di un attimo si vira alla perfetta folk song, con tanto di accompagnamento di 12 corde, nella visionaria Crime Of Passion, dove il testo va per la tangente. Non ho ancora citato il brano di apertura, la bellissima Guttersnipe, che è un po’ il suo biglietto da visita, quasi sette minuti di “stream of consciousness”, che musicalmente ricordano il Van Morrison di Astral Weeks (c’è anche un brano che si chiama Ballerina, non quella) o se preferite termini di paragone più recenti, il primo David Gray o il Ray Lamontagne più complesso, ma sempre da Van vengono, se mi passate il calambour, con una base acustica segnata da contrabbasso e percussioni varie che tengono il tempo, mentre piano, organo, vibrafono e chitarre acustiche avvolgono la voce di Bhiman che raggiunge vette interpretative notevoli.

Non tutto brilla sempre di luce propria, ad esempio Take What I’m Given che peraltro è una dolcissima ballata ricorda molto nella costruzione, almeno a me, I Shall Be Released di sapete chi, ma la musica è lì, nell’aria, basta sapere coglierla. Mexican Wine è un breve brano strumentale che illustra la sua destrezza alla chitarra mentre Kimchee Line è una di quelle filastrocche acustiche che lo avvicinano al citato Guthrie e anche questa mi ricorda qualcosa che non sono ancora riuscito ad afferrare, per il gioco delle citazioni, ce l’ho lì sulla punta della lingua, come pure Atlatl, con una voce volutamente mascherata per dargli una patina di “antichità” come un vecchio 78 giri. Eye On You è l’altro tour de force vocale e strumentale di questo album, più di 6 minuti che ci consentono di godere ancora una volta la bella voce di Bhiman che si libra sicura su un tappeto musicale dove il vibrafono (questa volta sì) gli fa da contrappunto. Che dire, questo signore è veramente bravo, potrà sicuramente migliorare (forse), ma già ora merita un ascolto attento.

La ricerca continua.

Bruno Conti 

Confermo: E’ Proprio Brava! Rumer – Boys Don’t Cry

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Rumer – Boys Don’t Cry – Atlantic Deluxe Edition

Penso che se uscite e chiedete al classico “uomo della strada” di farvi il nome di una cantante inglese di successo, almeno otto su dieci vi faranno il nome di Adele, mentre i restanti due, avidi consumatori di reality e talent show, vi potranno citare Susan Boyle. Pochi vi faranno il nome di Rumer: eppure la cantante anglo-pakistana (avrebbe dovuta essere tutta anglo, ma forse dopo sei figli avuti dal marito la madre ha voluto provare qualcosa di diverso e si è rivolta al cuoco…ma per le note biografiche vi rimando a Wikipedia) ha superato con il suo debutto Seasons Of My Soul, uscito nel Novembre del 2010, la ragguardevole cifra delle 500.000 copie vendute, quantità di tutto rispetto in un momento di profonda crisi del mercato discografico.

Tutte copie meritate, dalla prima all’ultima (piuttosto forse è esagerato il successo della pur bravissima Adele, mentre della Boyle non parlo, talento non significa solo una voce formidabile): Bruno vi aveva detto meraviglie di Seasons Of My Soul (e io condivido),  perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul.html un disco di puro pop, ma suonato ed arrangiato alla grande, e con la voce calda e piena d’anima (soulful, letteralmente) di Rumer (nata Sarah Joyce, il nome è in onore della scrittrice Rumer Godden). Una voce che la stampa inglese aveva paragonato a quella della sfortunata Karen Carpenter (del famoso duo The Carpenters), ma molti, me compreso, vedevano tracce, anche nello stile oltre che nella voce, di Dusty Springfield, Laura Nyro, Carole King ed un pizzico del Van Morrison di dischi come Tupelo Honey.

Ora esce il tanto atteso secondo album, intitolato Boys Don’t Cry, che, a differenza del debutto che era composto da brani originali (tranne due), è formato interamente da cover di canzoni che hanno avuto una profonda influenza su di lei: uno potrebbe pensare ad una mossa astuta della casa discografica in mancanza di materiale nuovo, ma, una volta ascoltato il disco, l’operazione ha perfettamente senso. Rumer infatti affronta un repertorio che più eterogeneo non si può (si passa da Neil Young a Hall & Oates, da Townes Van Zandt a Isaac Hayes, e così via, ma niente Carpenters, Springfield, Nyro, ecc.), facendo suo ogni brano con la sua voce spettacolare, sostenuta come sempre da arrangiamenti misurati ma di gran classe (la parola classe la ripeterò spesso nel corso di questa recensione), con una serie di ottimi musicisti, sui quali spicca senz’altro lo straordinario David Hartley al pianoforte: il produttore (ma non di tutto il disco) è come nel primo disco Steve Brown, suo scopritore e mentore. Piccola nota prima di iniziare la disamina dei brani: anche questo album esce incomprensibilmente in due versioni, una con dodici canzoni ed una deluxe con sedici, ed io vorrei tanto conoscere un giorno chi compra la versione con meno brani per risparmiare quattro/cinque Euro…

L’album si apre con P.F. Sloan, brano scritto da Jimmy Webb e dedicato al noto autore di hits anni sessanta (in coppia con Steve Barri): inizio per chitarra acustica, voce subito “sul pezzo”, intervento di oboe (chi suona ancora l’oboe nei dischi?) e ritornello corale strepitoso. Sarah canta con la stessa facilità con la quale io mi infilo un paio di calze. (Bella tra l’altro l’idea di pubblicare nel libretto interno al CD l’elenco dei brani con il dettaglio di autore, anno, album di provenienza e copertina dell’album stesso). It Could Be The First Day (Richie Havens) è arrangiata come se fosse una ballata di Burt Bacharach (un altro folgorato dal talento della ragazza, tanto che ha voluto conoscerla di persona), con soave arrangiamento d’archi e la voce di Rumer che si estende eterea lungo tutto il brano. Forse un po’ “troppo” commerciale, ma che classe! Be Nice To Me (di Todd Rundgren) sembra provenire da un disco anni settanta di Carole King: la band segue Sarah (mi piace alternare il vero nome a quello d’arte) con leggiadria e…indovinate? Esatto: classe! C’è anche posto per il flugelhorn (vedi commento sull’oboe di prima), ci mancano solo il glockenspiel e l’harpsicord ed abbiamo riunito tutti gli strumenti vintage.

Travelin’ Boy (Paul Williams) è un lento da brividi (sentite come canta), con accompagnamento classico, piano e chitarra su tutti; Soulsville (Isaac Hayes) mantiene un po’ dello spirito originale, un errebi lento da applausi, arrangiato con gusto e misura e Rumer che modula le corde vocali da par suo. Same Old Tears On A New Background (Stephen Bishop), per voce, piano e poco altro (vibraphone, questo mancava!) è più sul versante Laura Nyro, mentre Sara Smile, di Hall & Oates, viene spogliata degli inutili orpelli tipici del duo di Philadelphia, per diventare una solida ballata dominata da piano e organo. Superba, e poi Rumer con quella voce può fare ciò che vuole. Passare da Hall & Oates a Townes Van Zandt è come pranzare da McDonald’s e cenare da Cracco: Flyin’ Shoes è una delle grandi canzoni del songbook americano, e questa versione dominata dal piano, con delicati interventi di armonica e steel guitar, è semplicemente inarrivabile. La migliore del disco (almeno fino ad ora), quasi commovente. Home Thoughts From Abroad (Clifford T. Ward) è pochissimo strumentata, costruita com’è attorno alla voce inimitabile di Sarah; con Just For A Moment (tratta da un album poco noto di Ronnie Lane in coppia con Ron Wood) siamo dalle parti della Springfield.

Brave Awakening (Terry Reid) è arrangiata in modo sofisticato ma per nulla stucchevole, con hammond e coro femminile che fanno tanto soul, mentre We Will, di Gilbert O’Sullivan, cantata come sempre alla grandissima (ma il brano in sé è forse quello che mi piace meno), chiude la versione “normale” del disco. Il primo bonus è Andre Johray di Tim Hardin, languida e raffinata, seguita da Soul Rebel di Bob Marley, dove fortunatamente (almeno per me) il reggae viene cancellato per farla diventare una perfetta ballata “alla Rumer”, con un tocco sixties che non guasta. L’album si chiude definitivamente con due grossi calibri: My Cricket di Leon Russell (deliziosamente country got soul) e soprattutto A Man Needs A Maid (and a wife needs a cook avrebbe aggiunto sua madre, scherzo signora, non mi fulmini da lassù!) di Neil Young, il brano più noto della raccolta, tratto da Harvest che è l’album più noto del canadese. Un brano che mi stupisce sentito cantare da una donna (leggete il testo e capirete), ma Rumer rilascia una versione manco a dirlo da pelle d’oca, anche Neil approverà di sicuro. Tra le cover dell’anno fin da adesso, assieme a quella di Townes.Che dire di più, penso di non dover aggiungere altro, grande musica e grandissima interprete: di solito a dischi di questo tipo (di cover intendo) viene fatto seguire a breve distanza un altro album con brani nuovi di pacca. Speriamo quindi di non aspettare un altro anno e mezzo.

Marco Verdi