Un Ulteriore “Illustre Sconosciuto”! David Munyon – Pretty Blue

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David Munyon – Pretty Blue – Stockfisch Records 2011

Il nome di David Munyon è praticamente sconosciuto dalle nostre parti, e questo suo ultimo lavoro Pretty Blue mi permette di parlarvene a distanza di circa vent’anni dalla mia conoscenza personale , avvenuta in una sera invernale in un piccolo locale di Melegnano. Originario del Sud degli Stati Uniti e figlio di un ingegnere della Nasa, David fin dalla tenera età  è un girovago per forza, e dopo qualche incursione giovanile nel Rock and Roll, inizia a suonare già nei primi anni Settanta nei caffè e circuiti folk di Los Angeles, e pubblica alcuni singoli su etichette indipendenti, guadagnandosi una certa fama a livello locale. La svolta arriva nel 1985, quando a Nashville incontra il produttore Greg Humphrey che lo introduce nei locali del Village, dove suona come apripista per artisti quali Suzanne Vega, Rick Danko e al suo modello ispiratore riconosciuto il grande John Prine.

Dal bellissimo esordio di Code Name: Jumper del lontano 1990, Munyon sforna una quantità di dischi (una quindicina se non ricordo male), e quel che più conta, al di là della veste qualche volta fin troppo dimessa, è la qualità delle sue canzoni decisamente superiore alla media rispetto alla nuova ondata di cantautori americani, grazie ad un talento lirico e melodico coltivato con anni di lavoro, che lo fa diventare un artista di “culto” negli States e anche nella vecchia Europa, per merito della Glitterhouse Records.

Dodici le tracce che compongono questo CD questa volta in chiave elettrica, condividono infatti questo progetto musicisti del calibro di Ian Melrose alle chitarre e dobro, Lutz Moller alle percussioni, Grischka Zepf al basso, Bernd Junker alla batteria e una certa  Dagmar Wirtz ai  cori, che seppur sconosciuta alla mia conoscenza, dimostra di essere all’altezza  del compito. L’iniziale Jimi’s Guitar è deliziosa quanto la seguente Mercy in her Eyes, World Love è pregna di sonorità dolci ed avvolgenti, e il brano che dà il titolo all’album dimostra le sue qualità e la buona impostazione come interprete, con al controcanto Dagmar. I want You Love ricorda il John Prine d’annata, seguita da una On the Autobahn l’esempio più vicino ad una “Gospel  song”.

Hollywood Town si segnala ad un primo ascolto fra le più riuscite ballate del CD, e così si può dire per Carolina Song e Drive to L.A.  con il lato più intimista di David, che ricorda il miglior James Taylor. Atlanta solo chitarra e voce conferisce una disarmante bellezza, mentre Rock and Roll Things come da titolo si arrampica verso coloriture “rockeggianti”, sinceramente fuori dallo specifico tecnico del nostro. Chiude una splendida Lover Hold Me Now, dove il canto quasi recitato, mette in risalto l’arte musicale di Munyon.

Pretty Blue non è un capolavoro, ne aggiunge nulla di veramente nuovo all’universo poetico del cantautore, ma se avete amato i precedenti è un bel disco che non vi deluderà. Canzoni che ad  ogni ascolto riacquistano in freschezza ed intensità per uno dei più longevi “songwriter” degli ultimi trent’anni, personaggio schivo, rispettato dai colleghi, uno che ha voluto con dignità rinunciare al successo commerciale, per non essere mai sceso a compromessi. Ascoltatelo !

Tino Montanari

“Mini” Nel Formato Ma “Grande” Nei Contenuti! Eric Andersen – The Cologne Concert

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 Eric Andersen – The Cologne Concert – Meyer Records

Con immenso piacere, colgo l’occasione di parlare di questo ultimo lavoro di Eric Andersen, su “commissione” del titolare di questo Blog, che ringrazio sempre per lo spazio che mi concede,  CD di cui avevano già parlato, con notevole anticipo, ad inizio anno, gli amici del Buscadero (e poi passato un po’ nel dimenticatoio), in quanto ultimamente ho avuto modo di discuterne in quel di Pavia con Michele Gazich, uno dei protagonisti del concerto.

Il nome di Andersen, per il sottoscritto, è legato all’epoca dorata di quel gruppo di cantautori emersi dalla scena del Greenwich Village, tra cui Bob Dylan, Phil Ochs, Joan Baez, Tim Hardin, Dave Van Ronk. Nato a Pittsburgh nel lontano 1943 la sua carriera comincia con il primo contratto con l’etichetta Vanguard che realizza nel ’65 il disco d’esordio Today Is The Highway, e la sua Thirsty Boots diviene l’inno del Movimento americano dei diritti civili .Tutti i suoi album vengono accolti con entusiasmo dalla critica, in particolare Blue River nel 1972, il suo maggior successo commerciale (e anche il più bello), al quale partecipa una Joni Mitchell in grande ascesa con Blue. In seguito la sua carriera, causa “loschi” complotti discografici (vengono smarriti i nastri contenenti il nuovo disco), ha avuto un grave colpo, da cui Andersen non si è mai completamente ripreso. Per completezza d’informazione  i nastri verranno ritrovati solo nel 1991 e la Columbia, a parziale risarcimento rimasterizza il tutto con l’aggiunta di alcuni inediti pubblicando l’ottimo Stages:the lost album.

A partire dagli anni ’80 si ritira in Norvegia, e dopo aver trovato moglie, ad inizio anni ’90 dà vita ad un trio di successo composto dal cantante norvegese Jonas Fjield e da Rick Danko, noto componente del gruppo The Band, incidendo due album splendidi che ricevono il premio della critica (il Grammy Norvegese). Approdato alla Appleseed Records  il buon Eric  pubblica una serie di discreti lavori, partendo da Memory of the future (1998), You can’t relive the past (2000), Beat Avenue (2003), seguito dal doppio The street was always there (2004), Waves è un album di cover del (2005), mentre Blue Rain è un disco dal vivo del (2007).

Arriviamo al concerto registrato al Teather Der Keller di Colonia, il 25 Marzo 2010, che vede salire sul palco insieme ad Andersen voce, piano, chitarra e armonica, Michele Gazich al violino, e la bionda moglie Inge Bakkenes seconda voce e armonica, per una scaletta di soli 7 brani, ma colma di grande musica. Si parte con un inedito, Dance of love and death, con la voce di Eric che vibra all’unisono con il violino di Michele, per un grande brano dal sapore antico.

Si prosegue con una Time run like a freight train, una canzone un po’ trascurata del repertorio del nostro, con la voce della bella e brava Inge in evidenza al controcanto. Sinking Deeper Into You è il secondo inedito della serata, una ballata pianistica con un violino discreto ad assecondare la voce calda  del protagonista.

Una breve pausa e accordi maestosi introducono la “perla” del concerto, una stratosferica Woman she was gentle, con il violino struggente di Gazich e il coro della moglie a disegnare melodie, che ancora a distanza di anni (dai tempi di Stages per la precisione), mi trasmette sensazioni bellissime, un brano che porterei senza indugio sulla famosa “Isola Deserta”. Con gli occhi ancora lucidi, si riparte con Salt on your skin con marito e moglie a dettare un ritornello che difficilmente ti abbandona e che fa da preludio alla “celeberrima” Blue River , dove piano, violino e controcanto armonizzano un tappeto sonoro che negli anni non ha perso una briciola dell’impatto devastante dell’esordio. Si chiude un piccolo grande concerto con Last thing on my mind di Tom Paxton (anche lui sodale dai tempi newyorkesi), un’altra dolce ballata cantata con la consueta voce morbida e vellutata che da sempre è il marchio riconoscibile del cantautore.

Sono passati i tempi in cui Eric Andersen era definito il “nuovo Dylan”, il primo di una serie lunga di nominativi che non sto a ricordarvi, ma il suo romanticismo, la sua vena poetica, il suo modo di fare musica, raramente hanno toccato questi vertici. La classe non è acqua. Verissimo. !!!

Tino Montanari