Meno “Bisonte” E Più Bluesman…Ma E’ Sempre Grandissima Musica! Neil Young & Bluenote Cafe

neil young bluenote cafe

Neil Young & Bluenote Cafe – Bluenote Cafe – Reprise/Warner 2CD – 4LP

A sei mesi scarsi dal suo ultimo album, il controverso The Monsanto Years, torna sul mercato Neil Young con un “nuovo” concerto tratto dai suoi archivi (il cui secondo volume sembra sempre imminente ma non arriva mai), un doppio live che sarebbe già dovuto uscire all’epoca ma poi era stato messo in stand-by perenne (come successo con altri album del canadese, pronti con titolo ed a volte anche copertina – Homegrown – ma mai pubblicati): ebbene, devo dire che, una volta ascoltato questo Bluenote Cafe ad opera di Neil con i Bluenotes (non capisco come mai per questa uscita sono stati ribattezzati con lo stesso nome del titolo del disco, ma è ora che la smetta di farmi domande con Young) il nostro aveva preso un grosso abbaglio a tenerlo segreto, in quanto siamo di fronte a quasi due ore e mezza di grande musica. Era il 1988, anno in cui Neil tornava ad incidere per la Reprise con il discreto This Note’s For You, un disco abbastanza orientato verso blues ed errebi, non un capolavoro ma comunque una boccata d’aria fresca dopo sei anni di continue delusioni con la Geffen, alcune provocate da scelte contraddittorie (Trans, Everybody’s Rockin’, il country ultratradizionalista di Old Ways), altre per mancanza di ispirazione (Landing On Water, forse in assoluto il disco più brutto di Neil, e Life, il più deludente tra i suoi lavori con i Crazy Horse) al punto che la casa discografica lo aveva portato in tribunale con l’accusa, in poche parole, di non essere sé stesso!

Bluenote Cafe documenta una tournée poco nota di Young, ma il risultato ci dimostra che era in forma strepitosa, e la band che lo seguiva (i fedelissimi Rick Rosas al basso, Chad Cromwell alla batteria e Frank Sampedro alle tastiere, più una sezione fiati di sei elementi tra cui spiccava Ben Keith al sassofono, non proprio il suo strumento abituale) era un treno in corsa: in questo disco i brani tratti da This Note’s For You letteralmente assumono una nuova vita, ma anche il resto fa vedere che eravamo di fronte ad un gruppo formidabile, con una buona metà dei pezzi dilatati a durate più tipiche di un concerto dei Grateful Dead che di Neil. Il doppio CD (o quadruplo LP) è composto da ventuno brani, presi da varie date, con poche scelte note ma con molte sorprese: sette pezzi vengono da This Note’s For You, uno, I’m Goin’, dal lato B del singolo Ten Men Workin’, solo due sono canzoni famose e ben undici erano all’epoca inedite (e cinque lo sono ancora adesso).

Welcome To The Big Room, un potente rock-blues in stile big band, è perfetto per aprire la serata ed il CD, con Neil che rilascia assoli più “puliti” del solito ed il gruppo dimostra da subito la sua coesione, facendo seguire la fluida e brillante Don’t Take Your Love Away From Me (se la ricordate, era sulla compilation Geffen Lucky 13, ma in una versione live precedente con gli Shocking Pinks), con un’intesa perfetta tra un leader ispirato ed una band rocciosa (solo in questi due primi brani c’è anche la partecipazione dei Crazy Horse Billy Talbot e Ralph Molina): siamo solo all’inizio ma l’ascolto si preannuncia prelibato. Abbiamo quindi tre canzoni tratte da This Note’s For You una dietro l’altra: la title track è abbastanza nota, un brano tra i più contagiosi del nostro, con un riff tipico ed un testo ironico e divertente, Ten Men Workin’ (cioè Neil ed i Bluenotes, che sono appunto in dieci) è un blues ricco di swing che beneficia molto del trattamento live, mentre Life In The City è un trascinante boogie, con il bisonte che arrota da par suo ed i Bluenotes che lo seguono come un’ombra. Hello Lonely Woman è un brano di gioventù (lo si può trovare nel CD 1 del primo, e ad oggi unico, volume degli Archivi), e qui è un blues piuttosto canonico, ma Neil se la cava con mestiere, mentre Soul Of A Woman è uno shuffle di gran classe, con il nostro che più che dal Canada sembra venire da Chicago; Married Man, Bad News Comes To Town e Ain’t It The Truth sono tre pezzi abbastanza normali come songwriting, anche se qui sono suonati con un calore notevole (specie il terzo), ma One Thing è un blues jazzato afterhours di grande valore, un Neil Young assolutamente inedito, mentre Twilight, che chiude il primo dischetto, è una rock song desertica e notturna tipica del nostro, il quale fende l’aria con assoli lancinanti (ed anche su This Note’s For You era uno degli episodi migliori).

Il secondo CD, nove brani, riserva le sue cartucce migliori, soprattutto con tre di essi: la splendida Ordinary People, uno dei centerpiece dei concerti dell’epoca ed in assoluto uno dei grandi pezzi younghiani (pubblicato solo anni dopo in Chrome Dreams II), una cavalcata elettrica di dodici minuti come solo Neil sa fare, sulla scia di classici come Down By The River e Cortez The Killer; a ruota segue un’altra grande canzone, cioè Crime In The City, ancora più incalzante ed elettrica di quella uscita un anno dopo su Freedom, sembra che alle spalle del nostro ci sia il Cavallo Pazzo https://www.youtube.com/watch?v=EuuuW3M93K4 . Ma soprattutto l’acquisto del CD è giustificato da una stratosferica Tonight’s The Night (posta alla fine del concerto) di ben 19 minuti: se conoscete un po’ Young sapete esattamente cosa aspettarvi, ma questa per me è la miglior versione mai sentita di questa canzone e, credeteci o no, alla fine mi è venuta la voglia di rimetterla dall’inizio. In mezzo a tanto ben di Dio, almeno un cenno lo meritano il funky ritmato e godibile di Doghouse ed il classico dei Buffalo Springfield On The Way Home, in un inedito e scintillante arrangiamento rhythm’n’blues. Bluenote Cafe è quindi un documento prezioso che documenta un tour poco noto, ancora più gradito perché ci fa scoprire un Neil Young in una veste inusuale e che forse non sentiremo più in futuro.

Marco Verdi

L’Altra Metà Della Famiglia? O Non Più! Pegi Young & The Survivors – Lonely In A Crowded Room

Pegi Young Lonely

Pegi Young & The Survivors – Lonely In A Crowded Room – New West

Come sapete di solito non ci occupiamo di gossip, pettegolezzi e/o vicende familiari, ma visto che il personaggio lo richiede facciamo una eccezione per l’occasione. Come forse avrete letto, assolutamente a sorpresa, Neil Young a luglio di quest’anno ha presentato istanza di divorzio da Pegi, dopo ben 36 anni di matrimonio. Che cosa è successo? Chi lo sa! David Crosby che ha estrinsecato dei commenti negativi, soprattutto sulla nuova compagna di Neil, di cui tra un attimo, ha provocato una risposta piccata da parte del canadese, che ha annunciato che CSNY non suoneranno mai più insieme, con Graham Nash che sta cercando di fare da pompiere e paciere, e a sua volta annuncia, per il prossimo anno, un tour di CSN da soli. Nel frattempo la situazione procede, Young si è fatto vedere con la nuova fidanzata, Daryl Hannah (apperò! Pero poi se uno ci pensa, non è che si sia messo con una teenager, la biondona ormai ha anche lei i suoi 53 anni), Pegi non si è presentata al Farm Aid, ma poi tutti e due, ognuno con la propria sezione di concerto, a fine ottobre hanno partecipato al Bridge School Benefit. Vedremo gli sviluppi futuri, evidentemente a 68 anni non gli bastava più “giocare” con il Pono, i marchingegni di Jack White e le orchestre dell’ultimo Storytone http://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , dove peraltro ci sono anche brani dedicati alla sua nuova situazione amorosa.

Ma veniamo a questo Lonely In A Crowded Room, quarto album da solista di Pegi Young, dove comunque in un brano, Don’t Let Me Be Lonely (!). appare anche Neil Young, debitamente ringraziato nelle note con un “Wishing You Peace Of Mind”. Probabilmente, anzi sicuramente, la registrazione è avvenuta prima della rottura, visto che il disco è stato creato, in parte, al Broken Arrow Ranch, con la produzione di Niko Bolas, e la presenza al basso di Rick Rosas, prestato dai Survivors ai Crazy Horse nell’ultimo tour, per sostituire Billy Talbot che aveva avuto dei problemi di salute: solo che nel frattempo, inopinatamente, il 6 novembre, Rosas è morto improvvisamente, lasciandomi basito, alla faccia della sfiga! Chiusa parentesi. Nel disco, alle tastiere, nonché eminenza grigia del progetto, troviamo il grande Spooner Oldham, oltre al bravo chitarrista Kelvin Holly, Phil Jones alla batteria e in un paio di brani, ad esempio quello più country, Lonely Women Make Good Lovers, l’ottimo Mickey Raphael all’armonica . Il disco è piacevole e si lascia ascoltare anche se l’abbrivio faceva sperare in cose migliori: I be weary, posta in apertura, sembra una bella ballata mossa con il marchio di fabbrica della famiglia Young, acustiche e una bella elettrica in evidenza, le tastiere di Oldham a fare da collante al sound e lei che canta decisamente bene, meglio che in passato https://www.youtube.com/watch?v=82oT2krXYCI . Anche Obsession ha un bel piglio rock, energica e decisa, con le voci di supporto di Paula & Charlene Holloway a dare spessore al brano, ben sostenuto dal piano elettrico di Spooner e dalla chitarra tagliente di Holly https://www.youtube.com/watch?v=J6Abm8Q0aEI . Che partenza! Tutti i due brani scritti da Pegi, come la successiva Better Livin’ Through The Chemicals, brano felpato e jazzato, con la presenza dei fiati, ma anche piuttosto raffinato.

Appena meglio la cover di Ruler My Heart, un vecchio brano di stampo soul a firma Naomi Neville, che però evidenzia che Pegi non è poi questa gran cantante, se la cava con onestà, senza brillare troppo https://www.youtube.com/watch?v=_erWT_16_Bk . Il pezzo country già citato porta la firma di Spooner Oldham ed è piacevole, mentre Don’t Let Me Be Lonely, è un altro pezzo vecchio soul del 1964, scritto da Jerry Ragovoy, con qualche pennellata chitarristica del vecchio Neil, niente da strapparsi i capelli, sempre piacevole comunque. Non male invece Feel Just Like A memory, un’altra bella cavalcata younghiana con la chitarra ben presente e le voci di supporto che danno grinta anche al cantato di Pegi https://www.youtube.com/watch?v=dhG2kydge9I . In My dreams, jazzata e nuovamente sulle ali del piano elettrico di Oldham, però non decolla, rimane irrisolta, ci sono milioni di cantanti in giro che fanno queste canzoni, meglio. Walking On the Tightrope, nuovamente con l’armonica di Raphael a colorare il suono, a fianco di chitarra e tastiere, è invece un buon brano, con una discreta melodia e la giusta grinta, niente male. Chiude la breve Blame It On Me, una canzoncina leggera che non aggiunge particolari meriti all’album, ma d’altronde quello bravo in famiglia era ( ed è sempre stato) l’altro.

Diciamo una sufficienza risicata per i quattro/cinque brani sopra la media e per il buon sound d’assieme, comunque non malvagio, c’è di peggio in giro, dischi spesso salutati come fossero dei capolavori assoluti!

Bruno Conti

Non Un Capolavoro…Ma Neppure Un Brutto Disco! Joe Walsh – Analog Man

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Joe Walsh – Analog Man – Fantasy/Universal – Deluxe CD + DVD

Non sono mai stato un grandissimo fan di Joe Walsh, l’ho sempre considerato per quello che in realtà è: un ottimo chitarrista, un buon animale da palcoscenico (talvolta al limite del clownesco), ma dal punto di vista vocale e del songwriting un personaggio di seconda, o forse anche di terza fascia. Musicista di secondo piano negli anni settanta (anche se con la James Gang ha fatto la sua figura), deve senz’altro la sua popolarità al fatto di essere stato chiamato negli Eagles come sostituto di Bernie Leadon, e di avere esordito con loro proprio in Hotel California, cioè in uno degli album più famosi di tutti i tempi. Ma da solista non ha mai combinato granché di buono (come tutte le Aquile d’altronde, escluso forse Don Henley), con l’eccezione dei due dischi a nome Barnstorm,  quello omonimo e l’ottimo The Smoker You Drink… e a parte un altro paio di album discreti negli anni settanta, vivendo sempre di rendita su vecchie canzoni come Life’s Been Good, Rocky Mountain Way o In The City. In più, Analog Man arriva a ben vent’anni di distanza dalla sua ultima fatica, quel Songs For A Dying Planet che non aveva certo fatto gridare al miracolo, per usare un eufemismo.

Quindi, direte voi, perché questo post? Perché il produttore (solo in cinque brani su dodici, parlo della “solita” versione deluxe, quella normale ne ha dieci) è un mio autentico pallino: Jeff Lynne, negli ultimi anni poco attivo ma a cavallo tra gli ottanta ed i novanta era un vero produttore deluxe, avendo collaborato con il gotha della musica rock mondiale.

Solo per fare qualche nome (ma la lista sarebbe lunghissima): George Harrison (che lo ha “sdoganato” dopo che la critica di mezzo mondo lo odiava per il fatto di essere il leader della Electric Light Orchestra), Roy Orbison, Tom Petty (forse il suo apice come produttore e co-autore), Traveling Wilburys, Paul McCartney, Randy Newman, Del Shannon, oltre ai riuniti Beatles e a Brian Wilson (che è uno che ha probabilmente bisogno di tante cose, ma non certo di un produttore). E comunque, Lynne a parte (che, ripeto, agisce in meno del 50% del disco, ma guarda caso i tre brani migliori vedono lui alla consolle), Analog Man è, contro ogni previsione, un buon disco di classico rock californiano: Walsh si è preso il suo tempo, ma ha messo a punto una serie di canzoni che, pur non essendo dei capolavori, non deludono (tranne un paio di casi, ma temevo peggio!), la voce è sempre quella che è, ma la grinta c’è e la tecnica chitarristica la conosciamo tutti. E poi, per fortuna, le cose meno riuscite Joe le ha lasciate quasi alla fine del disco.

Oltre a Lynne, nell’album sono presenti nomi altisonanti come Ringo Starr (che se non lo sapete è il cognato di Joe, in quanto Walsh ha sposato Marjorie Bach, sorella di Barbara), il bassista dei Crazy Horse Rick Rosas, oltre a David Crosby e Graham Nash ai cori in Family.

Joe parte bene con la title track (nella quale ci rivela essere un nostalgico delle vecchie tecnologie e di diffidare delle nuove), un potente rock dei suoi, ma anche orecchiabile, con la mano di Lynne che si sente eccome, specie nel suono della batteria, nella nitidezza della strumentazione e nel suo tipico big sound). Ancora meglio Wrecking Ball (titolo un po’ inflazionato ultimamente…), dotata di un ritornello estremamente piacevole, un bell’assolo di slide e Lynne che suona tutti gli strumenti tranne la lead guitar e canta i cori. L’ex ELO deve aver lasciato il segno, in quanto anche Lucky That Way, pur se prodotta dal solo Walsh, risente palesemente dell’influenza del barbuto inglese: una bella ballata solare californiana, cantata bene da Joe e con il giusto campionario di chitarre acustiche e riverberi; Spanish Dancer sembra davvero un brano dell’ultimo periodo della ELO, se non fosse per un paio di intermezzi chitarristici tipici di Joe. Band Played On, dal sound orientaleggiante, non è un granché, anche se il bel finale chitarristico la risolleva, mentre Family è una discreta slow ballad (genere nel quale Joe non ha mai eccelso), nobilitata dalle inconfondibili voci di Crosby & Nash, anche se il synth di sottofondo ce lo potevano risparmiare.

One Day At A Time, che vede il ritorno di Lynne in consolle, è una canzone che gli Eagles hanno già proposto dal vivo negli anni più recenti: una bella canzone, sul genere delle cose migliori di Joe, ed il tocco di Jeff non può che farle bene (anche se qui sembra più Wilburys che Eagles). Di certo il brano migliore del CD. Hi-Roller Baby scivola via gradevole ma innocua, Funk 50, seguito palese della celebre Funk # 49, mostra più muscoli che cervello, mentre India è uno strumentale abbastanza assurdo, un brano ambient-techno-dance senza né capo né coda. Una schifezza, in poche parole.

Per fortuna arriva Lynne a rimettere le cose a posto con Fishbone, che non è un capolavoro ma almeno ha i suoni in ordine, mentre l’ultimo brano è del tutto particolare: But I Try è infatti frutto di una jam inedita, incisa nei primi anni settanta, dalla James Gang con Little Richard (che è anche il cantante solista), un buon brano di rock classico, abbastanza lontano dallo stile tipico del rocker di colore, ma con uno splendido duello finale tra il suo pianoforte e la chitarra di Walsh.

Quindi un buon disco, almeno per tre quarti, che non dovrebbe comunque far rimpiangere i soldi spesi: Joe Walsh non è un fenomeno (e lo sa), ma stavolta è riuscito a non strafare (India a parte) e quindi direi che si merita la promozione, anche se alla lode forse non ci arriverà mai.

Marco Verdi

P.S: per la precisione, la versione deluxe contiene anche un DVD con il making of e tre brani dal vivo.

*NDB (Nota del Blogger o del Bruno, come preferite). Oggi doppia razione, appena sotto trovate un’altra recensione. Quando non vedete la mia firma ma quella di uno dei graditi ospiti del Blog, non sto riposando in panciolle ma devo comunque “preparare” i Post che poi leggete, munendoli di foto, filmati e quant’altro. Buona lettura!