From Seattle With Love. Brandi Carlile – Live At Benaroya Hall

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Brandi Carlile – Live At Benaroya Hall With The Seattle Symphony – Columbia/Sony

Seattle è stata la città che ha dato i natali a Jimi Hendrix e poi è stata la patria del grunge e dei suoi alfieri Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Mudhoney e tanti altri. Sempre a Seattle, anzi nelle immediate vicinanze, Ravensdale, il 1° giugno del 1981 nasceva Brandi Carlile, una delle più brave cantautrici delle ultime generazioni americane. Innamorata delle Indigo Girls e di Elton John, Brandi ha iniziato la sua carriera agli inizi degli anni 2000 con un serie di CD Demo ed EP che l’hanno portata ad essere messa sotto contratto dalla Columbia che nel 2005 ha pubblicato il suo omonimo album d’esordio. Ma è con The Story il disco del 2007 prodotto da T-Bone Burnett, e indubbiamente il suo migliore, che la sua carriera prende un abbrivio notevole. Intanto i suoi brani vengono utilizzati a manetta in varie serie televisive e film, a partire da Grey’s Anatomy, poi l’album entra nelle classifiche americane ma soprattutto riceve, giustamente, critiche entusiastiche in tutto il mondo (qualcuno ha detto 1° posto in Portogallo?). Il successivo Give Up The Ghost, prodotto da Rick Rubin, secondo il sottoscritto rimane a livelli qualitativi molto elevati ma molta parte della critica la abbandona a favore del “Flavor of the month”, il Gusto del Mese del momento.

Questo disco dal vivo chiude il cerchio: registrato alla Benaroya Hall di Seattle (che è un po’ l’equivalente della nostra sala del Conservatorio di Milano anche se è stata fondata solo nel 1998), con l’accompagnamento di una orchestra sinfonica di 30 elementi più il suo gruppo abituale, raccoglie il meglio dei due mondi, rock e raffinatezza, bella voce e belle canzoni, brani originali e cover di qualità.

La giovin signora ha una classe indiscutibile, gusti musicali raffinati, è una delle record women mondiali in quanto a video su YouTube (ma non ha mai pubblicato un DVD) e con una valanga di duetti con i noti e gli ignoti (a partire dal Gregory Alan Isakov citato ieri su questo Blog).

Il disco è dal vivo ma è anche molto “vivo”, sicuramente uno dei migliori live dell’anno e album in generale, la simbiosi tra il gruppo rock e l’orchestra è perfetta, gli arrangiamenti non assurgono a quelle vette di “tamarrità” che ogni tanto affliggono questi tipi di dischi.

Lo si capisce subito dal primo brano. Se negli album precedenti Brandi Carlile si era avvalsa dell’operato di due produttori come Burnett e Rubin questa volta ha chiamato per arrangiare i brani orchestrali un “mito” come Paul Buckmaster, quello di David Bowie, Leonard Cohen, Stones e dei primi album di Elton John. Proprio la partitura originale di Sixty Years On di quest’ultimo viene ripresa per l’inizio di questo album e la versione che ne risulta mantiene inalterata la tensione e il pathos della canzone e la Carlile ci regala una performance vocale di grande intensità. Poi quando i gemelli Hanseroth, Tim & Phil, compagni inseparabili dall’inizio della carriera, danno il via a Looking Out capisci che sei a bordo per un viaggio che si rivelerà ricco di emozioni e buona musica, con chitarre acustiche ed elettriche e gli archi dell’orchestra che si integrano con grande semplicità e senza sforzo, belle armonie vocali, lunghi crescendo ed improvvisi momenti più intimi ed acustici ma senza soluzioni forzate. Il piano di Brandi fa da collante al tutto in brani di grande appeal come la ballata Before It Breaks dove la voce sale e scende con naturalezza (che è in fondo il pregio della sua musica e del suo modo di cantare) ma anche nella stupenda I Will uno dei suoi piccoli capolavori, ricca di melodie che assumono un nuovo fascino negli arrangiamenti orchestrali di Buckmaster.

Shadow On the Wall non è il vecchio brano di Mike Oldfield ma una delle composizioni della Carlile che più si rifanno al canone del “vecchio” Elton John, quello dei primi anni, quando in coppia con Bernie Taupin realizzava alcuni dei suoi dischi più belli, malinconica ed avvolgente ma non triste e lugubre.

Forse i suoi brani assumeranno raramente tempi e modalità rock ma canzoni come Dreams possiedono comunque una energia che si trasmette al pubblico presente, anche se bisogna ammettere che gioca in casa e il pubblico conosce a menadito il repertorio. Come conferma la versione corale della bellissima Turpentine dove gli spettatori sono coinvolti da Brandi Carlile in un singalong di grande effetto in cui ho notato una impressionante somiglianza tra la voce di uno dei gemelli Hanseroth (credo Tim) e quella di Chris Martin dei Coldplay (così, mi scappava di dirlo)!

Poi i due gemelli improvvisano (!?!) una versione “perfetta” di The Sound Of Silence ma la prima versione, quella acustica, per cui se siete lì che aspettate l’entrata della batteria sappiate che non arriverà mai, ma la cover rimane bellissima. Poteva mancare la canzone di maggiore successo e forse anche la più bella del suo repertorio (scritta da Phil Hanseroth)? Certo che no! E allora vai con The Story un brano che ti accoglie nel suo crescendo vocale e ti emoziona in questa nuova possente versione orchestrale che mantiene inalterato l’intervento centrale della chitarra solista.

Molto bella anche la lunga Pride and Joy un altro dei brani migliori della nostra amica che si avvicina ai brani più emozionanti delle Indigo Girls o alla produzione migliore della canadese Sarah McLachlan. L’ultimo brano del CD è una versione stupenda di Hallelujah di Leonard Cohen via Jeff Buckley (riconosciuta dal pubblico al primo nanosecondo), canzone della quale la Carlile è da anni una delle migliori interpreti, la sua cover rivaleggia con quella di kd Lang tra le più riuscite. In effetti c’è una hidden track, la mitica traccia nascosta: si tratta di Forever Young. Quando qualcuno mi ha detto “guarda che alla fine c’è Forever Young” come a dire, mica cotica, pensavo al brano di Dylan. Invece, più prosaicamente, si tratta del brano degli Alphaville, in ogni caso bella versione che non assomiglia per niente all’originale e conclude in gloria un bellissimo disco dal vivo che raccoglie il meglio della sua produzione fino ad oggi.

Nel frattempo la nostra amica ha già registrato il suo nuovo album di studio prima di partire per il tour estivo con Ray Lamontagne (una supplica: visto che l’anno scorso causa vulcano è saltata la data di Milano non si potrebbe fare un altro tentativo, vi giuro che ne vale la pena!).

Bruno Conti

Uno Degli Ultimi Numeri Uno! Sleepy LaBeef – Roots

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Sleepy LaBeef – Roots – Ponkmedia.

L’8 gennaio di quest’anno abbiamo festeggiato il 75° Anniversario dalla nascita di Elvis Presley, il 26 febbraio (lo ricordo perché è anche il mio compleanno) Johnny Cash avrebbe compiuto 78 anni ed è stato commemorato con la pubblicazione dell’ American Recordings VI: Ain’t No Grave.

Il nostro amico Sleepy Labeef (nato Thomas Paulsley LaBeff il 20 luglio del 1935 a Smackover, Arkansas) ha appena festeggiato i suoi 75 anni.

Sicuramente la fama goduta dal nostro amico non è nemmeno un millesimo di quella dei due artisti che abbiamo appena citato e questo sinceramente è un vero peccato: per chi volesse colmare questa lacuna esiste un bellissimo box della Bear Family di 6 CD, Larger Than Life, oppure per i più risparmiosi, sempre su Bear Family, è uscito un ottimo Sleepy Rocks.

E vi posso assicurare che Sleepy rocca ed eventualmente rolla come pochi, la sua carriera ormai si estende per oltre 6 decadi, dai gloriosi anni ’50 quando contendeva a Elvis e agli altri grandi la corona di re del rockabilly fino ai giorni nostri con questo Roots di cui mi accingo a parlarvi.

Intanto mister Sleepy è un personaggio straordinario, 6’7” di altezza (sono più 2 di metri), praticamente fisicamente è la “custodia” di Johnny Cash, ma anche vocalmente le similitudini tra i due sono notevoli: entrambi in possesso di una voce baritonale inconfondibile, quella di Labeef non da segni di cedimento e rimane uno strumento formidabile in questo nuovo disco.

Il CD riporta un copyright del 2008 ma i siti americani lo danno per uscito nel novembre 2009 e giunge sui nostri lidi solo oggi, ebbene è un vero peccato perché questo album rivaleggia con il meglio della produzione American Recordings curata da Rick Rubin negli ultimi anni di vita di Johnny Cash.

Non avendo trovato un mentore di quella fama e non avendo le possibilità finanziarie e gli “amici” importanti di Cash Sleepy Labeef ha deciso di fare tutto da sé e i risultati sono per certi versi sono straordinari: dovete sapere che Labeef è soprannominato (a parte Sleepy per la conformazione degli occhi) “The Human Jukebox”, con un repertorio di oltre 6.000 brani da cui ha scelto i 17 che sono stati registrati per questo Roots.

E qui siamo andati veramente alle “radici” della musica americana sia nella scelta dei brani che per il sound utilizzato per questo disco: nato probabilmente dalle necessità di budget si è trasformato in un geniale risultato. La base è formata solo da una chitarra acustica Martin e dalla voce di Labeef, alle quali sono state aggiunte, basso e batteria minimali suonati dallo stesso Sleepy, qualche altra chitarra dall’inesauribile riserva del nostro amico, un piano e una fisarmonica di tanto in tanto, una voce femminile in un paio di brani (Sweet Evelina e In The Pines, affascinanti).

Un suono minimale che mette in evidenza il profondo baritono di Labeef, una delle voci più straordinarie del rockabilly americano (country più rock&roll gli ingredienti principali) ma anche della musica americana tout-court: si parte con una rilettura fantastica di Cotton Fields che molti ricordano nella versione dei Creedence ma che qui fa scintille con la chitarra-dobro del nostro amico, una fisarmonica malandrina e “quella voce” unica. Baby To Cry è un altro esempio di questa capacità di interpretare la grande tradizione country-folk della musica americana con una maestria incredibile e divertendosi pure. What Am I Worth ha qualche grado di parentela con il boom chika boom inconfondibile del Cash dei tempi d’oro.

Sweet Evelina di cui si diceva è un esempio dell’approccio minimale citato, la voce profonda e risonante di Labeef, una dolce controparte femminile, una chitarra acustica strimpellata e una fisarmonica danno risultati che solo sentendo si possono gustare, sono difficili da raccontare.

Completely destroyed avrebbe fatto il suo figurone in qualsiasi capitolo delle American Recordings, scarna ed essenziale ma ricca da pathos e che dire di Foggy River con il vocione di Labeef che raggiunge profondità quasi “minerarie”. Ma le gemme sono tantissime, da Gotta Travel On a Miller’s Cave passando per Philadelphia Lawyer e Have I Told You Lately (proprio quella di mastro Van Morrison) per terminare con una versione seminale di Amazing Grace.

Ma non c’è un brano scarso o inutile, tutto fondamentale e altamente consigliato.

Qui potete vedere la “personcina” nei tempi gloriosi watch?v=GYBxCgYNcv0 e qui ai giorni nostri: dal suo sito risulta che quest’anno ha fatto ancora una quarantina di concerti ma fino a qualche anno fa ne faceva duecento all’anno.

Bruno Conti