Vera American Music…Da Pisa! Luca Rovini & Companeros – Cuori Fuorilegge

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Luca Rovini & Companeros – Cuori Fuorilegge – Luca Rovini CD

Proporre del sano country-rock oggi in Italia è molto più che di nicchia, è quasi da incoscienti, dato che ormai la musica che impera sempre di più nelle radio ed in TV è quanto di peggio si possa anche solo immaginare. Ma per fortuna qualche coraggioso ancora c’è, e tra questi un posto in prima linea lo occupa sicuramente Luca Rovini, musicista originario di Pisa ma con il cuore in America, che con le sue sole forze ha già pubblicato tre album ed un EP, oltre a girare la nostra penisola in lungo e in largo. Confesso di non conoscere i lavori precedenti di Luca, ma questo suo nuovissimo CD, Cuori Fuorilegge (realizzato attraverso il crowdfunding), mi ha fatto saltare sulla sedia. Rovini con queste dodici canzoni dimostra innanzitutto che si può fare ottima musica di matrice country-rock anche cantando in italiano, nonostante la nostra metrica sia molto diversa da quella anglosassone, ovviamente senza rinunciare a testi profondi e sentiti: Cuori Fuorilegge è dunque un disco sorprendente, musica vera e fiera, suonata con piglio da vera rock band da Luca e dai suoi Companeros (Peter Bonta, che è anche il produttore del disco, alle chitarre, piano ed organo, Flaco Siegals alla fisarmonica, Andrea Pavani al basso, Gary Crockett alla batteria e Chiara Giacobbe, ex Lowlands al violino, con in più la nostra vecchia conoscenza Paolo Ercoli alla steel guitar).

Come vedete strumenti veri, che poco hanno a che fare con i suoni italici, una ventata d’aria fresca che, se ci fosse un po’ di giustizia, farebbe emergere il nome di Luca a livello non solo nazionale, ma anche al di fuori dei nostri confini. Il disco (che reca una commossa dedica a Stefano Costagli, batterista della road band di Luca, scomparso pochi mesi fa a soli 56 anni) ci proietta immediatamente in America, in un punto a metà tra California e Texas, con l’iniziale Senza Gambe Né Parole: ritmo sostenuto, gran spiegamento di chitarre, voce espressiva e melodia limpida, un avvio decisamente incoraggiante. Con Fuorilegge continua la festa rock’n’roll, con un brano chitarristico e trascinante, molto più rock che country, nobilitato da un refrain vincente e da un eccellente assolo di Bonta, mentre Honky Tonk Senorita, come suggerisce il titolo, è una deliziosa country tune dal ritmo spedito e con la guizzante steel di Ercoli sullo sfondo, ma dal mood sempre rock, alla Dwight Yoakam. Al Tavolo Di Un Altro inizia come una toccante ballata, impreziosita da un languido violino, poi il ritmo aumenta ed il brano si trasforma in una country song pura (con uno stile che da noi hanno solo Luigi Grechi e pochissimi altri).

Sei Giorni Sulla Via è l’unica cover del disco, e altro non è che il famoso inno per camionisti Six Days On The Road (da noi l’aveva già tradotta in passato Ricky Gianco con il titolo Questa Casa Non La Mollerò, ripresa di recente dai Gang sul loro Calibro 77, ma questa versione di Luca ha il testo più in linea con l’originale): puro rock’n’roll, impossibile stare fermi, splendida rilettura. La dura (nel testo) Non Mi Avranno Mai ha un ritmo spezzettato ed un riff insistente, ma è un gradino sotto le precedenti, Parole In Regalo è invece un’oasi bucolica tenue e gentile, con un bel accompagnamento acustico nel quale spicca il mandolino, mentre con Vite Di Contrabbando torniamo al rock, per uno dei pezzi più energici e trascinanti del CD, rock’n’roll allo stato puro, del tipo che in Italia si fa molta fatica a sentire. Non Con Me, tersa, godibile e solare, precede la bellissima Viaggiatore Stanco, altro scintillante country-rock dal sapore californiano, e la struggente Tutti I Tuoi Giorni. Il CD si chiude con Nuda Sull’Aurelia, ennesimo rock’n’roll dal ritmo irresistibile, degno finale per un disco sorprendente, che dimostra che in Italia c’è ancora chi non ha perso la voglia di fare grande musica e che, proprio per questo, va sostenuto con tutte le forze.

Marco Verdi

Il Periodo “Italiano” Di Un Altro Vero Outsider. Skip Battin – Italian Dream

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Skip Battin – Italian Dream – Appaloosa/IRD 2CD

Ci sono personaggi che hanno attraversato in prima persona e “dall’interno” la storia della musica, senza però lasciare segni tangibili, non tanto per scarso talento ma più che altro per essere stati al posto giusto ma nel momento sbagliato. Prendete il caso di Skip Battin, cantante, autore e bassista originario dell’Ohio (e scomparso nel 2003 per complicazioni dovute al morbo di Alzheimer), che nella sua carriera ha fatto parte di tre fra i gruppi più influenti della loro epoca, cioè Byrds, Flying Burrito Brothers e New Riders Of The Purple Sage, cioè band nelle quali hanno militato musicisti del calibro di Roger McGuinn, Gene Clark, David Crosby, Chris Hillman, Gram Parsons, “Sneaky” Pete Kleinow, Clarence White, Bernie Leadon, John Dawson e Jerry Garcia: ebbene, di tutti questi nomi Battin ha collaborato soltanto con McGuinn, White e Kleinow, in quanto ha avuto la “sfortuna”, diciamo così, di subentrare in tutti e tre i gruppi in un periodo in cui la fase del successo era già superata. Nei Byrds, tanto per fare un esempio, ha partecipato agli ultimi tre album, l’ancora ottimo Untitled, il controverso Byrdmaniax (il peggiore disco del gruppo) ed il discreto ma non troppo convinto Farther Along. Se uniamo a tutto ciò il fatto che Skip fosse un bravo musicista ma non certo un fuoriclasse del songwriting, si capisce subito perché anche la sua carriera solista sia stata piuttosto in ombra (solo un album negli anni settanta, Skip, ed uno postumo, a parte i due di cui mi accingo a parlare).

Negli anni ottanta, privo di un contratto discografico, Battin viene invitato da Ricky Gianco a suonare nel suo ambizioso Non Si Può Smettere Di Fumare, insieme a Kleinow e Chris Darrow fra gli altri, e nella circostanza Skip, oltre ad innamorarsi del nostro paese, fa amicizia con il chitarrista Ricky Mantoan e soprattutto con Franco Ratti, che gli procura un contratto con la Appaloosa. Per la label nostrana Skip incide due album in studio, Navigator e Don’t Go Crazy, ed uno dal vivo (Live In Italy, uscito però all’epoca per la Moondance), incisi in compagnia di  Kleinow alla steel, Greg Harris alla chitarra e banjo, Brian Elliott al piano ed altri: oggi la stessa etichetta ristampa questi due album introvabili da tempo in un unico CD intitolato Italian Dream, aggiungendo sul secondo un live inedito, Live In Bolzano 1988, registrato con una band ristretta formata da Skip al basso, Mantoan (scomparso lo scorso anno) alle chitarre e steel, Beppe D’Angelo alla batteria e soprattutto un altro ex Byrd, John York, alle chitarre e basso (particolare curioso, Battin e York non sono mai stati compagni nello storico gruppo californiano, dato che il primo sostituì il secondo). Il libretto del CD offre esaurienti note scritte in italiano, ed un ricordo di Battin risalente al 2003 e scritto da un altro dei Byrds “dimenticati”, cioè Gene Parsons (manca solo il coinvolgimento di Kevin Kelley ed avremmo fatto en plein di “underdog Byrds”). I due album di studio, opportunamente rimasterizzati per questa ristampa, sono due onesti dischi di buon country-rock di stampo californiano, cantati e suonati decisamente bene, e con canzoni, la maggioranza delle quali scritta da Battin con il suo storico collaboratore Kim Fowley, ben costruite e di gradevole ascolto.

Non ci troviamo di fronte a dei capolavori, ma a due discreti lavori che, se vi piace il genere, non mancheranno di farvi passare un’oretta e mezza piacevole, a parte qualche stranezza sul secondo album che vedremo a breve. Navigator inizia con Skyscraper Sunset, uno spedito country-rock eseguito molto bene ed anche sufficientemente coinvolgente, mentre è ancora meglio Willow In The Wind, un brano dal suono decisamente Burritos, melodia limpida e bel controcanto femminile. Il disco è piacevole, onesto e, ripeto, ben suonato: tra i momenti migliori abbiamo lo squillante honky-tonk China Moon, la solare Here Comes Love (sembra Jimmy Buffett), una rilettura countreggiante del classico di Charlie Rich Lonely Weekends, l’evocativa ballata pianistica North By Northwest (splendida la steel di Kleinow), la bella American East, una country song d’altri tempi, ed il rifacimento di Citizen Kane, un pezzo che il nostro aveva inciso con i Byrds. Don’t Go Crazy parte anche meglio di Navigator, con la splendida ed ariosa Santa Ana Wind, dal passo western, la struggente Wintergreen ed il delizioso country bucolico Don’t Go Down The Drain (o ancora la conclusiva Tonight, una fulgida ballata che non avrebbe stonato nel repertorio byrdsiano), ma Battin ha la pensata di riarrangiare alla sua maniera alcuni classici del songbook italiano, senza tradurli (e quindi con una pronuncia alquanto traballante) e sfiorando dunque il trash involontario. Abbiamo infatti riletture country-rock piuttosto esilaranti di Non E’ Francesca di Lucio Battisti e de La Gatta di Gino Paoli, mentre quando Skip decide di tradurre in inglese (la meno nota Fango di Ricky Gianco, trasformata in una ballad dylaniana) il risultato non è malvagio.

Il secondo CD, quello dal vivo a Bolzano, mi lascia con sentimenti contrastanti: intanto la qualità di incisione è discreta, ma non eccelsa, e poi si sfiora in più punti l’effetto cover band, in quanto Battin, per creare interesse nello show, è costretto a suonare brani storici dei gruppi nei quali ha militato, ma che non gli appartengono, come Mr. Tambourine Man nell’arrangiamento dei Byrds (ma con un’inedita introduzione a cappella) o Wheels e Sin City dei Burrito Brothers. Skip non suona nessun pezzo scritto da lui, ma alcuni standard country (Long Black Veil, White Line Fever di Merle Haggard – che avevano inciso anche i Burritos, ma non con lui – e If You’ve Got The Money, I’ve Got The Time di Lefty Frizzell), una discreta versione del classico Smack Dab In The Middle (The Mills Brothers, Ray Charles, Ry Cooder) ed una strana Witchi Tai To di Jim Pepper, che si potevano anche risparmiare. E poi abbiamo Bob Dylan, rappresentato da ben tre brani (quattro se contiamo anche Mr. Tambourine Man): una Blowin’ In The Wind decisamente elettrica, la più rock in assoluto di tutte le versioni che ho sentito di questo pezzo, che diventa una bellissima jam chitarristica di oltre nove minuti, una lenta e pianistica She Belongs To Me (altri sette minuti, forse un po’ troppi) ed il finale con una guizzante You Ain’t Goin’ Nowhere. Non posso dire che questo Italian Dream sia un doppio CD imprescindibile, ma godibile ed onesto sì, e ha il merito di rivalutare la figura di Skip Battin, un bravo musicista che non ha mai avuto troppi contatti con la fortuna.

Marco Verdi