Un Ringo In Versione “Mini”, Ma Con Più Sostanza Del Solito! Ringo Starr – Zoom In

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Ringo Starr – Zoom In – Universal CD EP

Inutile ribadire che la carriera solista di Ringo Starr ha rispettato in pieno le aspettative che i fans dei Beatles avevano dopo lo scioglimento del loro gruppo preferito: una lunga serie di album di piacevole ascolto, alcuni più riusciti di altri, ma con pochi titoli veramente imprescindibili (a mio parere si contano sulle dita di una mano: il countreggiante Beaucoup Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973, il suo seguito Goodnight Vienna, il comeback album del 1992 Time Takes Time e, forse, Vertical Man del 1998). In particolare, gli otto lavori pubblicati dal cantante-batterista di Liverpool tra il 2003 ed il 2019 sono tutti all’insegna di un pop-rock di facile assimilazione ma con poche vere zampate che li distinguano l’uno dall’altro, diciamo un livello medio di tre stellette https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/sappiamo-cosa-aspettarci-e-sempre-lui-lex-beatle-ringo-starr-whats-my-name/ . Lo scorso anno Ringo si è trovato come tutti a fare i conti con la pandemia, e durante il lockdown ha messo insieme una manciata di canzoni nuove e le ha registrate come d’abitudine “with a little help from his friends”.

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Il risultato è Zoom In, il primo EP della carriera del nostro, cinque canzoni per la durata complessiva di 19 minuti che mostrano un Ringo ispirato ed in ottima forma: forse il fatto di concentrarsi su soli cinque pezzi ha reso il progetto più solido e compatto e senza i soliti riempitivi presenti nei vari album dell’ex Beatle, ma è un fatto che Zoom In, pur non essendo un capolavoro, è la cosa migliore messa su disco dal barbuto drummer dai tempi di Ringo Rama (2003). Cinque brani che toccano vari generi, tutti affrontati da Ringo con la consueta verve e l’innata simpatia che lo contraddistingue da sempre, e prodotti da lui stesso insieme a Bruce Sugar. L’iniziale Here’s To The Nights (rilasciata sul finire del 2020) è il brano portante dell’EP, una bellissima ed emozionante ballata tra le migliori di Ringo negli ultimi trent’anni https://www.youtube.com/watch?v=S6oqrbFzLaU , nonostante una melodia ed un arrangiamento un po’ ruffiani tipici dell’autrice del pezzo (cioè la nota hit-maker Diane Warren): Ringo è accompagnato da Steve Lukather dei Toto alla chitarra, Nathan East al basso e Benmont Tench al pianoforte, ma il meglio lo troviamo nel coro “alla We Are The World” con la partecipazione tra gli altri di Paul McCartney, Joe Walsh, Lenny Kravitz, Sheryl Crow, Yola, Chris Stapleton, Ben Harper e Dave Grohl.

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Ascoltate questa canzone almeno un paio di volte e farete fatica a togliervela dalle orecchie. Zoom In Zoom Out mostra il lato rock di Ringo, un brano cadenzato che vede ancora Tench al piano ed addirittura l’ex Doors Robby Krieger alla solista: la base è leggermente blues, ma poi Mr. Starkey intona una delle sue tipiche melodie saltellanti ben supportato dalle backing vocalist femminili, ed il risultato è una canzone solida e piacevole al tempo stesso https://www.youtube.com/watch?v=w3XaEPUmsFA . La pimpante Teach Me To Tango fonde mirabilmente una struttura da pop song con ritmi quasi latini, anche se una chitarrina insinuante mantiene alta anche la quota rock (ed il pezzo è, manco a dirlo, gradevolissimo) https://www.youtube.com/watch?v=zWrc9qRxx4Y , mentre Waiting For The Tide To Turn è un’inattesa incursione di Ringo nel reggae, un genere da lui molto amato (almeno così dice), ma che finora non aveva mai sfiorato: eppure il brano è riuscito, solare ed il nostro riesce a risultare credibile anche senza dreadlocks  . Chiude l’EP Not Enough Love In The World, scritta da Lukather insieme all’altro Toto Joseph Williams su misura per Ringo, in quanto si tratta di una deliziosa pop song dal ritmo guizzante ed un sapore decisamente beatlesiano https://www.youtube.com/watch?v=RJINbNKsAtc . Zoom In ci mostra quindi un Ringo Starr come di consueto fresco e piacevole ma, a differenza del solito, senza cali di qualità.

Marco Verdi

Un Albergo “Restaurato” Per Il Cinquantenario. The Doors – Morrison Hotel

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The Doors – Morrison Hotel – Rhino/Warner 2CD/LP Box Set

Proseguono le edizioni deluxe per i cinquantesimi anniversari degli album dei Doors, una serie di cofanetti cominciata nel 2017 con il loro omonimo debut album e che inizialmente si è rivelata deludente per la presenza di poche bonus tracks (Strange Days non ne conteneva alcuna, solo le versioni mono e stereo del disco), ma che però è andata via via migliorando: infatti il box dedicato a The Soft Parade uscito lo scorso anno è stato il più soddisfacente finora in termini di inediti (ben due CD extra, con il secondo di essi quasi totalmente occupato dalla take finalmente completa della mitica Rock Is Dead), cosa abbastanza bizzarra in quanto stiamo parlando dell’album meno amato e più criticato tra quelli pubblicati da Jim Morrison e soci. Ciò avvenne soprattutto a causa di alcuni discussi arrangiamenti al limite del pop che avevano creato più di una frizione tra il produttore Paul Rothchild ed il presidente della Elektra Jac Holzman (insieme al tecnico del suono Bruce Botnick), che non condividevano la veste sonora del disco e per la quale incolpavano lo stesso Rothchild dato che in quel periodo Morrison era più interessato a scrivere poesie che a dedicarsi al gruppo. Per Morrison Hotel (che era il nome di un vero albergo di Los Angeles ed intitolava la seconda facciata del disco, mentre il lato A si chiamava Hard Rock Cafè, altro locale di L.A. che non aveva nulla a che vedere con la nota catena di ristoranti nata a Londra nel 1971) i nostri decisero invece per un ritorno alle atmosfere dirette, tra rock e blues, di inizio carriera, e questo diede loro ragione in quanto l’album ottenne vendite migliori rispetto a The Soft Parade pur in assenza di un singolo trainante.

Tanto per cominciare gran parte della sua fortuna il disco lo ebbe grazie al brano d’apertura, la trascinante ed adrenalinica Roadhouse Blues, che in breve diventerà la canzone più popolare dei Doors insieme a Light My Fire ed in generale un classico della musica rock internazionale, nonostante non fosse neppure uscita su 45 giri (ma solo come lato B). Nel brano partecipano anche John Sebastian all’armonica (con lo pseudonimo G. Puglese) ed il grande chitarrista Lonnie Mack “relegato” però al basso, strumento suonato in tutti gli altri brani da Ray Neapolitan, dato che com’è noto i nostri non avevano un bassista all’interno del gruppo. Il pezzo scelto all’epoca come singolo fu la diretta e rocknrollistica You Make Me Real, che risaliva ai famosi concerti del 1966 al London Fog ma non era mai stata incisa in studio fino a quel momento. Ma non è l’unico ripescaggio dell’album (a dimostrazione di una certa scarsità di materiale), in quanto troviamo anche Waiting For The Sun, registrata dai Doors per il loro terzo album dallo stesso titolo ma poi lasciata fuori, ed addirittura una outtake dal primo disco, Indian Summer: entrambe le canzoni sono ipnotiche e dense di misticismo, e si distaccano abbastanza dal resto dell’album.

Che Morrison Hotel sia infatti uno degli LP più immediati del quartetto lo dimostrano la robusta Peace Frog, con Ray Manzarek che lavora di fino al suo Vox Continental (brano che confluisce nella tenue Blue Sunday, una ballatona con Jim che si atteggia a crooner), la saltellante Ship Of Fools, ancora con Ray protagonista, la pimpante e gradevole Land Ho!, che vede invece la chitarra di Robby Krieger in gran spolvero, il bluesaccio cadenzato da taverna The Spy, la spedita Queen Of The Highway, puro stile Doors, per finire con il vibrante rock-blues Maggie M’Gill, cantato da Morrison con voce arrochita e con la band che segue come un treno guidata in maniera sicura dal drumming di John Densmore. Il cofanetto ripropone nel primo CD il disco originale rimasterizzato (ma non remixato) dallo stesso Botnick, un booklet formato LP di 16 pagine con le note del noto critico David Fricke, il solito inutile LP che serve solo a far salire il prezzo, ed infine un secondo CD con sessions inedite, interessante anche se per l’80% gira intorno a sole due canzoni.

La prima parte infatti è inerente a Queen Of The Highway, con più di dieci takes, alcune solo strumentali, nelle quali i nostri improvvisano alla grande e Jim gigioneggia da par suo (e c’è anche un breve accenno all’inedita I Will Never Be Untrue): il brano originale non durava neanche tre minuti, ma qui i Doors si divertono a rivoltarlo come un calzino (molto belle le takes 12 e 14, quasi un jazz- blues strumentale con Manzarek strepitoso al piano). Più aderenti alla versione conosciuta sono le nove tracce dedicate a Roadhouse Blues, qui proposte come un interessante work in progress: nel mezzo abbiamo due sanguigne e potenti riletture, mai sentite, delle classiche Money (That’s What I Want) di Barett Strong e Rock Me Baby, noto standard blues reso popolare da Muddy Waters e B.B. King. Chiusura con due versioni alternate di Peace Frog, la prima delle quali mixata con Blue Sunday come sul disco originale. Quindi una bella ristampa che getta nuova luce su un disco piacevole e riuscito ma che forse perde il confronto con i capolavori assoluti usciti nello stesso periodo, anche se i Doors si rifaranno nel 1971 con L.A. Woman, canto del cigno di Morrison e loro album migliore dopo l’esordio.

Marco Verdi

Rimandato E Ora Finalmente Pubblicato, Tra Doors, Zappa E Jazz-Rock. Robby Krieger – The Ritual Begins At Sundown

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Robby Krieger – The Ritual Begins At Sundown – Mascot/ Players Club

*NDB Annunciato tempo fa, e poi rinviato di ben quattro mesi, finalmente la settimana prossima esce questo CD. Visto che la recensione era pronta dall’epoca ho preferito (ri)proporvela così come l’avevo scritta prima dell’esplosione della pandemia.

Per parafrasare una delle frasi più famose di Highlander, “alla fine ne rimarrà una sola”, evidenziando la campagna acquisti che sta effettuando la Mascot/Provogue, la quale settimana dopo settimana sta mettendo sotto contratto molti dei più importanti chitarristi in circolazione in ambito rock, blues e dintorni; l’ultimo arrivato è Robby Krieger, il grande solista dei Doors, che esordisce per la etichetta euro-americana con questo The Ritual Begins At Sundown, in uscita a breve, un disco strumentale, il nono (così dice la sua biografia) della carriera del musicista californiano, sempre incentrato in un ambito che potremmo definire jazz-rock-fusion. Scritto e co-prodotto con il suo grande amico Arthur Barrow, con cui collabora sin dalla metà degli anni ‘70: Barrow, che suona il basso nell’album, si è portato appresso parecchi altri alunni zappiani, dal tastierista Tommy Mars al batterista Chad Wackerman (che per un refuso nella cartella stampa viene chiamato Joel, e ovviamente in rete l’errore è diventato virale), e ancora anche i fiatisti Jock Ellis al trombone e Sal Marquez alla tromba.

A completare la line-up ci sono poi diversi musicisti impiegati ai fiati: AeB Byrne, una gentile donzella al flauto e Chuck Manning e Vince Denim al sax, oltre a Joel Taylor che si alterna alla batteria con Wackerman (forse da qui nasce il nome errato del drummer), per un disco che vista la presenza massiccia dei fiati ha un suono che in parecchi brani vira pure verso il funky, ma per la maggior parte sembra ispirato proprio dal sound dello Zappa di fine anni ‘70, prima metà anni ‘80, quello di dischi come Joe’s Garage, You Are What You Is, Them Or Us, ma anche lo strumentale Shut Up ‘N Play Yer Guitar, periodo in cui spesso suonavano con Frank anche Mars e Wackerman. L’ultimo album pubblicato da Krieger Singularity, è uscito dieci anni fa nel 2010 (anche se nel 2017 l’ineffabile Cleopatra ha pubblicato un raffazzonato disco In Session, che constava di brani pescati dagli album più disparati, soprattutto tributi vari, in cui Robby si limitava a suonare la chitarra, e che per motivi che sfuggono la mia comprensione è stato pure candidato ai Grammy), ma lo stile, come vi dicevo poc’anzi è rimasto il suo solito. A partire dal jazz-rock in salsa funky dell’iniziale What Was That?, con profluvio di fiati, le tastiere liquide di Mars e il basso rotondo di Barrow che fanno da sfondo alle divagazioni di Krieger che dimostra la sua eccellente tecnica chitarristica con un assolo appunto molto zappiano, con grande controllo di toni e suoni, fluido e complesso e alternato a quello del sax di Manning (o è Denim?).

Slide Home, con il flauto della Byrne in evidenza, è più etereo e spaziale, con la slide che disegna traiettorie sempre molto ricercate, mente l’unica cover presente, ca va sans dire di Frank Zappa, è una gagliarda Chunga’s Revenge, sempre con lo stile del baffuto musicista ben in mente e reso con la giusta carica da tutti i musicisti, con Robby che ci regala un altro assolo dove brillano la sua tecnica e il suo feeling sopraffini. Ma prima troviamo un’altra funky tune molto seventies jazz-rock come The Drift, dove gli arrangiamenti sono impeccabili anche se un po’ di maniera e a tratti datati, benché gli assoli siano sempre ben realizzati; Yes The River Knows presenta un altro assolo da urlo di Krieger, su un tema musicale dai ritmi più lenti, ma comunque di notevole suggestione, The Hitch vira verso un suono più rock e sincopato con qualche deriva errebì, con Hot Head che fa riferimento più alla fusion di gruppi come Spyrogyra, Yellow Jackets o dei vecchi LA Express di Tom Scott e Robben Ford (di cui Krieger a tratti ricorda il tocco, o è viceversa?), con un assolo di piano elettrico di Mars che rimanda anche ai Doors di Riders On The Storm https://www.youtube.com/watch?v=pHaFBYk9c_o . Dr. Noir è vicina al suono più jazzy dei primi album di Krieger, con gli sbuffi di organo e l’uso all’unisono di fiati e chitarra, che poi rilascia un altro assolo di notevole spessore e pure Bianca’s Dream rimane più o meno su queste coordinate sonore, lasciando alla conclusiva Screen Junkie una maggiore ricerca di temi vicini al buon Frank, senza però i tocchi di genio di Zappa.

Bruno Conti

Il Ritorno, Inatteso, Di Uno Dei Gruppi Di Culto Per Antonomasia Degli Anni Ottanta, Ora Anche In CD. X – Alphabetland

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X – Alphabetland – Fat Possum Download/CD da fine luglio/inizio agosto

Durante la lunga e maledetta quarantena alla quale buona parte del mondo è stata costretta negli ultimi mesi, diversi musicisti hanno pensato di alleviare le pene di chi era costretto a casa anticipando via streaming e download uscite discografiche che si spera saranno seguite anche dal supporto “fisico” (come per esempio Phish, Cowboy Junkies e Joe Ely) o pubblicando a sorpresa nuovi singoli, sempre in formato digitale (Bob Dylan e Rolling Stones). Tra le varie anticipazioni (le versioni in CD e vinile escono tra fine luglio e agosto, anche se su Bandcamp sono già ordinabili) questo nuovo Alphabetland degli X è da considerarsi un piccolo evento, in quanto la punk-rock band di Los Angeles non pubblicava un nuovo album di studio da ben 27 anni, che diventano 35 se andiamo a cercare l’ultimo disco con la formazione originale (Ain’t Love Grand): infatti in questo Alphabetland troviamo proprio i quattro membri che fondarono il gruppo nel lontano 1977, e cioè i cantanti ed ex coniugi John Doe (anche bassista) ed Exene Cervenka, il chitarrista Billy Zoom ed il drummer DJ Bonebrake.

I quattro in realtà avevano ricominciato ad esibirsi insieme dal vivo con tour sporadici e spettacoli “one-off” già dal 2004, ma un album nuovo non sembrava nei programmi nemmeno quando lo scorso anno era uscito il singolo Delta 88 Nightmare, che tra parentesi è l’unico pezzo tra quelli presenti su Alphabetland a risalire ai tardi anni settanta, in quanto gli altri dieci sono stati scritti tutti negli ultimi 18 mesi. Prodotto da Rob Schnapf (Elliott Smith, Beck), Alphabetland ci fa ritrovare un gruppo che non è mai stato popolarissimo ma che negli anni ottanta era arrivato ad un buon livello di culto, oltre a godere della stima di molti colleghi (Dave Alvin aveva perfino fatto parte della band, anche se per un solo disco). I quattro sono in ottima forma, e ci consegnano un lavoro che fonde in maniera esplosiva punk e rock’n’roll, con brani suonati a mille all’ora, le chitarre sempre in tiro e la sezione ritmica che non molla un secondo: per chi non li conoscesse (o se li fosse dimenticati), la loro musica si potrebbe paragonare a quella dei Ramones, anche se forse la band dei Queens era più monotematica per ciò che riguarda il songwriting.

Un album fresco, corroborante ma anche di piacevole ascolto, benché la durata di 27 miseri minuti sia forse fin troppo esigua, in pratica un minuto di musica per ogni anno che li separava dal loro ultimo album di inediti, Hey Zeus. Il lavoro inizia con la title track (canta Exene), che dà subito il via al ritmo sostenuto e con la chitarra che riffa alla grande, ma il brano non è affatto ostico ed anzi si rivela godibile, con tanto di ritornello a due voci e coretti nel bridge. Free vede Doe alla voce solista, ed è di nuovo una scarica elettrica con le chitarre che fendono l’aria, ma il motivo di fondo mantiene il marchio di rock’n’roll song suonata con foga da punk band. Water & Wine è puro punk’n’roll, divertente, trascinante e con un assolo di chitarra breve ma godurioso (e spunta anche un sax), Strange Life, cantata a due voci, è coinvolgente sin dalle prime note e presenta un riff accattivante, così come I Gotta Fever che nei suoi due minuti e mezzo scarsi non fa prigionieri, mostrando che la grinta è ancora quella di un tempo.

La già citata Delta 88 Nightmare è una corsa forsennata ai 200 all’ora che si ferma ben al di sotto dei due minuti, Star Chambered, pur mantenendo un ritmo acceso, ha una struttura più lineare ed un motivo ben definito, mentre Angel On The Road ha una delle melodie più articolate del lavoro, e sembra uscita dal periodo classico della band. L’album si chiude con Cyrano DeBerger’s Back, che è il pezzo più diverso essendo un funk-rock cadenzato ed orecchiabile, la forsennata Goodbye Year, Goodbye e la bizzarra All The Time In The World, uno strano talkin’ con sullo sfondo un piano suonato in modalità jazz-lounge e licks di chitarra da parte dell’ospite Robby Krieger, che conferma il legame degli X con i Doors dato che Ray Manzarek aveva prodotto i loro primi quattro album.

Un ritorno quindi inatteso e di buon livello questo degli X: Alphabetland è un lavoro che nonostante la scarsa durata ci procura una salutare scarica di adrenalina, molto utile in questi tempi cupi.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 8. Il Loro Disco Più Discusso E’ Anche (Finora) La Ristampa Più Interessante! The Doors – The Soft Parade 50th Anniversary

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The Doors – The Soft Parade 50th Anniversary – Rhino/Warner 3CD/LP Box Set

Dal 2017 anche i Doors hanno iniziato una campagna di ristampe dell’intero catalogo per celebrare il cinquantesimo anniversario di tutti i loro album. Se la riedizione del loro mitico esordio omonimo del 1967 era stata una delusione (nessun vero inedito, ed una performance dal vivo al Matrix solo parziale rispetto ad un live pubblicato anni fa), Strange Days era stata una presa in giro, con soltanto le versioni stereo e mono del disco in un doppio CD (che quindi non si allinea neppure logisticamente sugli scaffali con i cofanetti pubblicati finora). L’uscita lo scorso anno del box di Waiting For The Sun aveva lasciato intravedere qualche inedito dal vivo, ma solo cinque brani tratti da un concerto a Copenhagen, mentre il resto era formato da semplici “rough mixes” di alcuni pezzi dell’album originale https://discoclub.myblog.it/2018/10/02/con-il-terzo-cinquantenario-arriva-anche-qualche-misero-inedito-the-doors-waiting-for-the-sun-50th-anniversary/ . Non avevo quindi grosse aspettative per la riedizione del quarto lavoro della band californiana The Soft Parade, ed invece devo dire che questa volta i nostri (John Densmore e Robby Krieger gli unici membri ancora in vita) hanno avuto il braccino meno corto e, a parte il solito “inutile” LP che serve solo a rendere più elegante la confezione ma anche a far salire il prezzo, ci hanno gratificato di ben due CD di brani quasi del tutto inediti, con addirittura delle parti strumentali ri-suonate ex novo e la pubblicazione per la prima volta nella sua interezza di un brano leggendario.

La cosa ironica è che finora la migliore tra le ristampe celebrative del quartetto di Venice Beach riguarda il loro album più discusso e meno amato di sempre, The Soft Parade appunto, un disco all’epoca molto criticato per la scelta del produttore Paul Rothchild di “manipolare” le canzoni dei nostri con arrangiamenti a base di archi e fiati per dare ai brani stessi una veste più pop. Se aggiungiamo a questo il fatto che per la prima volta le canzoni non erano frutto di una collaborazione di gruppo ma recavano in gran parte la firma di Krieger in quanto Jim Morrison in quel periodo era più interessato alle suo poesie che a registrare musica, capirete il perché The Soft Parade sia sempre stato guardato come il disco meno rappresentativo dello stile dei nostri. Tra l’altro nell’album l’unico pezzo che nel 1969 si fece un po’ valere in classifica fu il primo singolo Touch Me, che riuscì ad arrivare fino alla terza posizione. Risentito oggi il disco originale (che occupa il primo CD del box appena uscito, opportunamente rimasterizzato) non è affatto male, anche se posso capire la sorpresa di fans e critici all’epoca nel sentire sonorità non troppo familiari: detto della presenza al basso in diversi pezzi del grande Harvey Brooks (Bob Dylan, Electric Flag), dato che come saprete i nostri non avevano un vero bassista nella line-up, partiamo con una disamina dei contenuti del cofanetto.

L’album del 1969 parte con Tell All The People, una gradevole pop song dalla base pianistica, un motivo immediato e con l’accompagnamento dei fiati che ci sta anche bene, brano seguito dalla già citata Touch Me, vivace pezzo cantato da Jim in maniera fluida e rilassata, con un refrain delizioso nel quale sentiamo gli archi per la prima volta. A questo punto abbiamo un poker di brani senza orchestra, con i nostri che si esibiscono quindi nel loro ambiente sonoro naturale, come l’ottima Shaman’s Blues, un tipico pezzo in cui Morrison gioca con la voce in un crescendo emozionale mentre Ray Manzarek si fa largo tra organo e clavicembalo, Krieger ricama da par suo e Densmore tiene il ritmo col suo solito stile raffinato di influenza jazz. Do It ha un buon train sonoro rock anche se dal punto di vista dello script si può definire un brano minore, Easy Ride (unica a provenire dalle sessions del disco precedente, Waiting For The Sun) è un coinvolgente e pimpante rockabilly dominato dallo splendido organo di Ray e con Robbie che suona in stile quasi country, mentre  Wild Child è un rock-blues vibrante e diretto. Tornano i fiati nella saltellante Runnin’ Blue, tra jazz e rock ma con un ritornello (cantato da Krieger) quasi bluegrass e con tanto di violino e mandolino, e con la melodiosa Wishful Sinful, che forse sarebbe stata meglio senza archi. Finale con la lunga title track, quasi nove minuti di cambi di tempo e melodia: inizio ipnotico, poi si prosegue tra rock, funky e cabaret ed una parte centrale jammata e decisamente creativa; come bonus abbiamo Who Scared You, discreta rock song che era in origine sul lato B di Wishful SInful.

Il secondo CD vede un nuovo remix da parte dello storico tecnico del suono Bruce Botnick dei cinque pezzi con archi e fiati (compresa Who Scared You), riproposti qui nudi e crudi: infatti Botnick all’epoca non era d’accordo con Rothchild sulla direzione musicale del disco, ed oggi in un certo senso si prende la rivincita. I brani in questione sono ancora più diretti e piacevoli, specialmente Tell All The People e Touch Me, ed in Runnin’ Blue, Wishful Sinful e la stessa Touch Me vedono nuove parti di chitarra suonate quest’anno da Krieger (mentre alla fine del CD gli stessi tre pezzi sono riproposti con le tracce chitarristiche originali, ma sempre senza orchestrazioni). Una delle chicche del box sono però i tre brani eseguiti dai Doors come trio (Morrison era assente, pare, ingiustificato), con Manzarek che assume il ruolo di leader e cantante con lo pseudonimo di Screamin’ Ray Daniels: due blues di Muddy Waters (Don’t Go No Further, che verrà re-incisa con Jim alla voce per un lato B del 1971, e I’m Your Doctor), entrambi suonati alla grande, e soprattutto una prima e già trascinante versione del futuro classico Roadhouse Blues, che meno di un anno dopo aprirà Morrison Hotel (questi tre pezzi vedono anche nuove parti di basso incise nel 2019 da Robert DeLeo degli Stone Temple Pilots)

Il terzo CD, a parte un frammento di 40 secondi intitolato I Am Troubled, un’invettiva da predicatore di Morrison (Seminary School) che servirà da introduzione alla title track e la bizzarra Chaos, è tutto incentrato sulla leggendaria e monumentale Rock Is Dead, uno dei brani più mitizzati di quel periodo, una sorta di suite di 64 minuti in cui i nostri ripercorrono alla loro maniera la storia del rock con improvvisazioni a go-go, Morrison che gigioneggia alla grande, citazioni di brani famosi (Love Me Tender e Mystery Train di Elvis, Pipeline degli Chantays), ed un misto di rock, blues, jazz ed un pizzico di avant-garde: il brano è qui proposto nella sua interezza per la prima volta, dato che finora ne era uscita solo una parte in un’antologia del 1997. Un tour de force incredibile che da solo vale la spesa del box, e per una volta non è una frase fatta. Speriamo che questa bella ristampa abbia invertito il trend per quanto riguarda le riedizioni dei Doors: lo scopriremo il prossimo anno quando toccherà a Morrison Hotel.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture 12. Proseguono Le Ristampe Deluxe Per Il 50° Anniversario Degli Album Dei Doors, Il 1° Novembre Tocca A The Soft Parade

doors soft parade

The Doors – The Soft Parade – 3CD/1LP Deluxe Edition Limited And Numbered 15.000 copie- Elektra/Rhino 01-11-2019

A settembre dello scorso anno era uscita la ristampa del terzo album dei Doors https://discoclub.myblog.it/2018/10/02/con-il-terzo-cinquantenario-arriva-anche-qualche-misero-inedito-the-doors-waiting-for-the-sun-50th-anniversary/ , e per la prima volta nel cofanetto, come potete leggere qui sopra nel Post di Marc, erano stati inseriti alcuni inediti, diciamo in quantità se non congrua comunque incoraggiante, pur se persisteva pervicacemente l’abitudine di inserire il vinile dell’album originale nella confezione, invece di pubblicarlo separatamente, scontentando sia gli appassionati degli LP che quelli dei CD. Anticipo che purtroppo anche per The Soft Parade, quarto album della loro discografia, uscito in origine nel 1969, si è applicata ancora perversamente questa abitudine, ma quantomeno, scorrendo i contenuti del box, questa volta ci sono parecchi brani interessanti, una dozzina in totale, mai pubblicati prima, tra i quali uno in particolare è veramente fantastico. La versione completa ed integrale della famosa jam Rock Is Dead, un’ora, dicasi 60 minuti (!!!), di improvvisazioni di Jim Morrison e soci sulla storia della musica rock, dal blues alla musica surf fino ad arrivare alla “morte del rock”: apparsa in passato su alcuni bootleg non era mai stata pubblicata a livello ufficiale.

Sempre nel CD 3 ci sono anche Seminary School Chaos, altri brani inediti, mentre nel secondo CD ci sono ulteriori tre brani molto interessanti, tra cui una prima versione alternativa di Roadhouse Blues, che uscirà solo l’anno successivo su Morrison Hotel, tutti e tre cantati da Screamin’ Ray Daniels (ovvero Ray Manzarek), oltre a cinque brani estratti dall’album del 1969 che però appaiono nella versione “pulita”, cioè senza le aggiunte di archi e fiati; e ancora tre brani con nuove parti di chitarra aggiunte da Robby Krieger. Quindi come si suol dire stavolta c’è molta trippa per gatti. Ma ecco la lista completa dei contenuti, con i brani inediti e rari evidenziati.

CD1]
1. Tell All The People
2. Touch Me
3. Shaman’s Blues
4. Do It
5. Easy Ride
6. Wild Child
7. Runnin’ Blue
8. Wishful Sinful
9. The Soft Parade
Bonus Track:
10. Who Scared You – B-side

[CD2]
1. Tell All The People (Doors only mix) *
2. Touch Me (Doors only mix w/new Robby Krieger guitar overdub) *
3. Runnin’ Blue (Doors only mix w/new Robby Krieger guitar overdub) *
4. Wishful Sinful (Doors only mix w/new Robby Krieger guitar overdub) *
5. Who Scared You (Doors only mix) *
6. Roadhouse Blues – Screamin’ Ray Daniels (a.k.a. Ray Manzarek) on vocal *
7. (You Need Meat) Don’t Go No Further – Screamin’ Ray Daniels (a.k.a. Ray Manzarek) on vocal *
8. I’m Your Doctor – Screamin’ Ray Daniels (a.k.a. Ray Manzarek) on vocal *
9. Touch Me (Doors only mix) *
10. Runnin’ Blue (Doors only mix) *
11. Wishful Sinful (Doors only mix) *

[CD3]
1. I Am Troubled
2. Seminary School (aka Petition The Lord With Prayer) *
3. Rock Is Dead – Complete Version *
4. Chaos *

* previously unreleased

[LP]
1. Tell All The People
2. Touch Me
3. Shaman’s Blues
4. Do It
5. Easy Ride
6. Wild Child
7. Runnin’ Blue
8. Wishful Sinful
9. The Soft Parade

Il cofanetto uscirà il 18 ottobre p:v. e il prezzo indicativo sarà intorno ai 50-60 euro. Poi dopo l’uscita al solito recensione dettagliata del tutto a cura dell’amico Marco Verdi.

Bruno Conti

Non Solo Sopravvive Ma Prospera, Ogni Disco E’ Più Bello Del Precedente! Walter Trout – Survivor Blues

walter trout survivor blues

Walter Trout – Survivor Blues – Mascot/Provogue CD

Da quando nel 2014 Walter Trout ha pubblicato un album https://discoclub.myblog.it/2014/05/19/disco-la-vita-walter-trout-the-blues-came-callin/ che raccontava la sua dura lotta con un tumore al fegato quasi terminale, le cose sono cambiate radicalmente. il cantante e chitarrista americano ha subito un trapianto che ha risolto i suoi problemi di salute che sembravano ormai irrimediabili: non solo, Trout, dopo lo scampato pericolo (e anche durante), ha poi inanellato una serie di album, in studio e dal vivo, veramente di grande qualità, l’ultimo era stato https://discoclub.myblog.it/2017/08/29/tutti-insieme-appassionatamente-difficile-fare-meglio-walter-trout-and-friends-were-all-in-this-together/ uscito nell’estate del 2017, in cui aveva chiamato a raccolta una serie di amici per un disco che celebrava la sua musica, ovvero il blues. Non contento dei risultati ottenuti negli ultimi anni il buon Walter insiste e rilancia con questo Survivor Blues, un disco di cover, pescate nel repertorio delle 12 battute, ma cercando perlopiù brani poco noti, in qualche caso anche di autori sconosciuti ai più (ma non agli appassionati): ed il risultato, ancora una volta, è eccellente, un ennesimo album di blues (rock) suonato e cantato con grande classe e impeto. Per una volta la formula classica dei dischi della Mascot/Provogue che prevede la presenza spesso massiccia di ospiti è stata disattesa, nell’album ce ne sono solo due Sugaray Rayford Robby Krieger, e quindi il protagonista assoluto è Walter Trout, o meglio la sua chitarra, che spazia in lungo e in largo nel repertorio classico del blues.

Perché, a ben guardare, come dicevo poc’anzi, per chi ama il genere, quasi tutti i nomi degli autori dei brani non sono certo minori: a partire dal grande Jimmy Dawkins, uno degli esponenti storici del Chicago sound elettrico di casa Delmark, presente con Me, My Guitar And The Blues, che è una sorta di manifesto programmatico di questo album, il classico slow intenso e lancinante, dove Walter Trout, anche in ottima forma vocale, eccelle con la sua fluida chitarra, grazie ad un suono lirico ed intenso, dove si apprezzano anche il piano e l’organo di Skip Edwards, e la perfetta sezione ritmica formata da Johnny Griparic al basso e Michael Leasure alla batteria, fedeli compagni di avventura da qualche anno a questa parte, comunque la serie di assoli prodotti è veramente da sballo. Il produttore Eric Corne, all’opera pure nei dischi precedenti, è il proprietario della Forty Below Records, l’etichetta per la quale incide John Mayall (di cui vi preannuncio Nobody Told Me, un disco strepitoso in uscita verso fine febbraio), un profondo conoscitore della materia che fa un lavoro quasi certosino nella ricerca della migliori sonorità, rigorose ma con molte nuances che lo avvicinano al rock-blues più classico di Trout, il tutto registrato negli studi di Los Angeles di proprietà di Krieger. Be Careful How You Vote, un brano scritto da Sunnyland Slim ricorda nell’andatura le canzoni più vibranti dei Bluesbreakers di Mayall, nei quali Trout, che qui suona anche all’armonica, ha militato ad inizio carriera: suono potente, sempre con la chitarra in grande evidenza; mentre in Woman Don’t Lie, firmata da Luther Johnson ed uno dei pezzi più “oscuri” del CD, come voce duettante con Walter appare il bravissimo Sugaray Rayford, uno dei cantanti più scintillanti del “nuovo” blues, che ricordiamo oltre che nei suoi album solisti nei Mannish Boys, per una canzone sempre ricca di grande forza ed energia.

Sadie, dal repertorio del grande Hound Dog Taylor, è meno scoppiettante dei boogie che siamo soliti accostare al musicista di Chicago, altro punto di forza della etichetta Delmark, ma la canzone gode comunque di un brillante crescendo e oltre alla solista di Walter si apprezza anche il lavoro dell’organo di Edwards; Please Love Me, sempre incalzante nel suo dipanars,i e con Edwards che passa al piano, arriva dal songbook di B.B. King ma è qui trasformata in blues-rock di grande impeto dalle solite folate della solista di Trout, che poi decide di rendere omaggio al suo vecchio datore di lavoro, con uno dei brani più belli scritti da John Mayall, ovvero Nature’s Disappearing, in origine su Usa Union del 1970, la canzone conserva il suo messaggio ecologico ante litteram anche ai giorni nostri https://www.youtube.com/watch?v=9aGft_2FvL8 , e grazie ad un arrangiamento più intimo e rilassato, dove spicca di nuovo l’armonica e una chitarra più misurata e ricca di feeling, conferma l’estrema varietà di temi sonori affrontati nel disco. Red Sun, si trova su un disco della Floyd Lee Band, una band canadese di cui non avevo onestamente mai sentito parlare, e in cui milita il suo autore, tale Joel Poluck, in ogni caso un bel pezzo rock-blues grintoso e ad alta densità chitarristica, con Walter Trout che al solito imperversa con la sua vissuta Fender d’ordinanza, con Something Inside Of Me che è il secondo lento presente nell’album, che porta la firma di Elmore James, ma non sembra uno dei soliti brani a tutta slide del grande bluesman, e ricorda viceversa nel suo dipanarsi uno dei classici slow alla Eric Clapton, con la chitarra che si libra sempre con vibrante intensità.

It Takes Time è un omaggio ad un altro dei grandi chitarristi della scena di Chicago, ovvero Otis Rush, uno shuffle sempre di notevole vigore, come pure Out Of Bad Luck, che porta l’autorevole firma di Magic Sam, altro maestro della chitarra elettrica, che viene fatto rivivere da un Trout sempre in grande spolvero. Nella parte finale del disco a dare man forte al nostro amico arriva Robby Kieger, il vecchio chitarrista dei Doors, qui alla slide, da sempre grande appassionato di blues, ed i due danno vita ad una rilettura ricca di elettricità del classico pezzo di Fred McDowell Goin’ Down To The River https://www.youtube.com/watch?v=8an0THlYgRI , di nuovo con una atmosfera sonora tesa e diretta che ricorda nuovamente il miglior Eric Clapton alle prese con le 12 battute classiche. E per chiudere un disco veramente splendido che segna la definitiva consacrazione di Walter Trout, ammesso che ce ne fosse bisogno, arriva un altro brano di un autore spesso saccheggiato dai bluesmen bianchi di ieri e di oggi, JB Lenoir, di cui viene ripresa in modo brillante e spettacolare una tersa e scintillante God’s Word, con il chitarrista californiano che ancora una volta si esprime a livelli stellari con la sua chitarra. Il primo grande disco del 2019, assolutamente da avere.

Bruno Conti

Con Il Terzo Cinquantenario Arriva Anche Qualche (Misero) Inedito! The Doors – Waiting For The Sun 50th Anniversary

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The Doors – Waiting For The Sun 50th Anniversary – Rhino/Warner 2CD/LP

Quando nell’Aprile del 2017, alla fine della recensione del box commemorativo uscito per i cinquant’anni dell’album d’esordio dei Doors https://discoclub.myblog.it/2017/04/23/la-versione-deluxe-di-un-album-leggendarioma-si-poteva-fare-meglio-the-doors-the-doors/ , avevo auspicato la presenza di qualche inedito nella (allora) futura ristampa del loro secondo album Strange Days (dato che nella riedizione del debutto era presente  lo stesso lavoro sia nel missaggio originale sia a velocità reale, più un concerto già uscito anni prima, e per di più monco), non avrei pensato che la Rhino ci avrebbe dato ancora meno: semplicemente un doppio CD con lo stesso album in stereo e mono (e quindi lo scorso Novembre non avevo nemmeno ritenuto opportuno parlarne). Ora è la volta del terzo album del quartetto formato da Jim Morrison, Ray Manzarek, Robbie Krieger e John Densmore, quel Waiting For The Sun che fu anche il loro lavoro più venduto, ed unico ad andare al numero uno in America: qui la Rhino si è sprecata, in quanto, oltre al solito ed inutile LP (ma venderlo a parte no?) ed al disco originale con il missaggio stereo dell’epoca sul primo CD, abbiamo un secondo dischetto con nove “rough mix” degli undici pezzi dell’album, ritrovati da poco tempo dal produttore Bruce Botnick (che si occupa del remastering, mentre il disco originale era prodotto da Paul Rothchild), cioè praticamente le stesse takes prima degli aggiustamenti (quindi tecnicamente non sono inediti) e, udite udite, ben cinque pezzi (!) tratti da un concerto a Copenhagen del Settembre 1968, mai sentiti finora.

Ho detto cinque pezzi ma in realtà sono quattro, in quanto il primo è una sorta di introduzione parlata di Morrison…ma perché allora non mettere tutto il concerto? Lasciamo da parte un attimo questi quesiti e parliamo del disco originale: Waiting For The Sun fu, come ho già detto, il best seller per il gruppo di Venice Beach, ed all’epoca fu anche criticato per certe sonorità ammorbidite e “pop”, che poco avevano da spartire secondo i fans con la crudezza degli esordi. Io tutta questa commercialità non ce la vedo, anche perché i nostri hanno sempre sfornato negli anni singoli brevi ed orecchiabili quando volevano, ed in Waiting For The Sun i momenti più complessi e poco “radiofonici” non mancano di certo (ed i testi sono poetici e visionari come sempre). Il brano più celebre è sicuramente il singolo Hello, I Love You, uno dei pezzi più noti dei Doors, una pop song orecchiabile e saltellante trainata dall’organo di Manzarek, che per l’occasione sembra quasi un prototipo di synth. Love Street è una deliziosa canzone pop, insolitamente solare per i nostri, che contrasta nettamente con l’inquietante Not To Touch The Earth, che in realtà è un frammento della chilometrica Celebration Of The Lizard, che Morrison e compagni all’epoca non riuscirono a portare a termine e proporranno solo in seguito dal vivo (troverà posto in Absolutely Live). Summer’s Almost Gone è una bella ballata, pacata ed eterea, con Ray al piano e Krieger che ricama ottimamente alla slide, la breve Wintertime Love è dotata di una melodia avvolgente e ha come protagonista un suggestivo clavicembalo, mentre The Unknown Soldier è un pezzo antimilitarista, una rock song che ci fa ritrovare i Doors più familiari, quelli “arrabbiati” dei primi due dischi.

Spanish Caravan è uno squisito brano acustico caratterizzato da una splendida chitarra flamenco, prima del finale a tutto rock psichedelico; My Wild Love è una bizzarria, una canzone quasi a cappella piuttosto ripetitiva e con un coro tribale, mentre We Could Be So Good Together è un pop-rock gradevole ma abbastanza nella media. Il disco originale si chiude con la pianistica Yes, The River Knows, e con la drammatica e misteriosa (il suo significato non è mai stato chiarito) Five To One, il brano centrale dell’album, punteggiato dal ritmo marziale dato da Densmore, con una notevole performance chitarristica di Krieger e Jim che gigioneggia in lungo e in largo. Nessuna bonus track, nemmeno quelle incluse nella versione del quarantennale (tra cui Celebration Of The Lizard incisa in studio, anche se incompleta). Il secondo CD come dicevo prima presenta nove rough mix (mancano The Unknown Soldier e We Could Be So Good Together), e per notare le differenze bisogna essere degli audiofili, anche se Hello, I Love You, Not To Touch The Earth e Five To One hanno comunque un suono più diretto e potente. Poi, come abbiamo visto, la miseria di quattro pezzi dal concerto di Copenhagen, incisi tra l’altro con la qualità sonora di un buon bootleg: tre brani da Waiting For The Sun (un’energica Hello, I Love You e due eccellenti Five To One e The Unknown Soldier), completati da una tonante Back Door Man di Howlin’ Wolf, da sempre un cavallo di battaglia per Morrison e soci. Quindi un’altra ristampa dai contenuti discutibili per quanto riguarda i Doors, anche se non siamo ai livelli bassissimi di Strange Days: speriamo in qualcosa di più l’anno prossimo quando toccherà a The Soft Parade, anche se è meglio non farsi troppe illusioni.

Marco Verdi

Probabilmente Il Loro Ultimo Grande Concerto. The Doors – Live At The Isle Of Wight Festival 1970

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The Doors – Live At The Isle Of Wight Festival 1970 – Eagle Rock/Universal CD/DVD – DVD – BluRay – CD/BluRay (solo USA e Canada)

Dopo le deludenti versioni celebrative dei loro primi due album, The Doors e Strange Days (la seconda più della prima), finalmente un’uscita come si deve che riguarda i Doors, ovvero la pubblicazione integrale audio e video di Live At The Isle Of Wight Festival 1970, di cui vi aveva accennato Bruno qualche settimana fa: si tratta dell’ultimo show ripreso dalle telecamere dello storico gruppo californiano, e del quale erano finora usciti pochi frammenti all’interno del film Message To Love di Murray Lerner (che è quindi il regista anche di questo live). Le notizie che giravano su questa serata parlavano di un gruppo non al meglio, con una profonda spaccatura tra Jim Morrison e gli altri tre, ma mi sento di dover smentire questi rumours, in quanto ci troviamo di fronte ad una grandissima esibizione, nella quale non ci sono assolutamente segni di contrasti intestini (ed i quattro avevano ancora un grande disco in canna, quel L.A. Woman che sarebbe uscito l’anno seguente). Certo, forse la parte visiva non è poi così spettacolare, dato che Ray Manzarek, John Densmore e Robby Krieger si “limitano” a suonare, e Morrison resta praticamente fermo durante tutta l’esibizione (in quei giorni la sua mente era anche rivolta al famoso processo di Miami per atti osceni), ma la parte musicale è sublime, sia dal punto di vista dell’incisione che da quello della qualità della performance, una chiara conferma della bontà del gruppo on stage.

Il concerto (un’ora e cinque minuti), che si tenne alle due del mattino del 29 Agosto di quell’anno, inizia con la roboante Roadhouse Blues, uno dei brani più noti della band, rock’n’roll allo stato puro, in cui ci si rende subito conto come le voci di un gruppo allo sbando fossero infondate: Morrison si dimostra subito aggressivo ed in palla dal punto di vista vocale, Krieger rilascia un assolo chitarristico torcibudella, Densmore picchia con vigore e raffinatezza allo stesso tempo (frutto di una formazione di stampo jazz), mentre l’organo Vox Continental di Manzarek si conferma come il vero punto di forza del sound del quartetto. La loro versione del classico di Willie Dixon Back Door Man è fluida e godibile, con la vocalità di Morrison decisamente centrale, forte e sicura, e gli altri tre che lo seguono con classe e maestria; la diretta Break On Through (To The Other Side) è il solito attacco frontale, con Manzarek che fa viaggiare le dita che è un piacere, mentre la sinuosa When The Music’s Over vede i nostri nel loro ambiente naturale, ovvero i brani lunghi e fluidi per cui sono famosi, con Ray impegnato contemporaneamente all’organo ed al basso (frutto dell’accoppiamento del Rhodes Piano Bass al suo strumento principale), Jim che gigioneggia da par suo, canta, declama, urla, sembra perdere il filo ma poi lo riprende all’improvviso.

Robby Krieger che si dimostra un chitarrista notevolmente creativo (e qui l’influenza di certa musica orientale è palese) e John molto più di un semplice batterista. La poco nota Ship Of Fools, una sorta di vivace rock-blues molto sixties e dal mood jazzato, anticipa la grande Light My Fire, la signature song del gruppo ed ideale scorribanda per le evoluzioni di Manzarek e Krieger, qui in una versione davvero spettacolare. Il finale è appannaggio di una lunga e drammatica The End, una vera manna per le improvvisazioni di Morrison e soci, con all’interno accenni ad altri canzoni quali Across The Sea, Away In India, Wake Up e la Crossroads di Robert Johnson. Come parte video bonus (che non ho ancora visto), ci sono nuove interviste a Lerner, Krieger, Densmore e Bill Siddons (ex manager del gruppo), oltre ad una testimonianza del 2002 di Manzarek. So che sul mercato gli album dal vivo dei Doors non mancano di certo, ma questo Live At The Isle Of  Wight Festival 1970 secondo me fa parte di quelli da avere, e non solo per il suo valore storico.

Marco Verdi

Uscite Prossime Venture 5. Sai Cos’è L’Isola Di Wight? The Doors – Live At The Isle Of Wight Festival 1970

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Doors – Live At The Isle Of Wight  Festival 1970 – CD+DVD – DVD – Blu-Ray (solo per gli USA CD+Blu-Ray) Eagle Vision/Universal – 23-02-2018

Nell’agosto del 1970, tra il 26 e il 30, si tenne quello che fu considerato l’ultimo grande Festival Rock, all’Isola di Wight, nel sud dell’Inghilterra; canale della Manica, avete presente, sotto Southampton? Partecipò la crema della musica mondiale (non solo rock, tra i tanti ricordiamo anche la presenza di Miles Davis), e dell’evento fu pubblicato all’epoca un triplo album in Vinile, The First Great Rock Festivals of the Seventies, che raccoglieva nel primo LP anche una selezione dell’Atlanta International Pop Festival tenuto nel mese di luglio, con brani di Johnny Winter, Poco, Chambers Brothers, Allman Brothers Band Mountain, le altre quattro facciate riportavano materiale registrato all’Isola di Wight (confermo, ce lo avevo). Poi, nel corso degli anni, è stato pubblicato, in doppio CD e anche DVD, una ampia selezione di estratti in un film intitolato Message to Love: The Isle of Wight Festival 1970, e sempre successivamente diversi DVD dedicati alle performance di singoli artisti che parteciparono alla kermesse: Who, Emerson, Lake & Palmer, Jimi Hendrix, Jethro Tull, Miles Davis, Free, Moody Blues, Leonard Cohen e, ultimo in ordine di tempo, quello dedicato ai Taste.

E adesso tocca ai Doors, che si esibirono sabato 29 agosto alle due di notte (o di mattina, fate voi), in un concerto che fu uno dei loro ultimi, tenuto sulle ali delle polemiche per il processo per oscenità a Jim Morrison (per il concerto di Miami dell’anno prima) e la cui sentenza di condanna (per un fatto mai appurato con certezza) sarebbe arrivata solo il 30 di ottobre dello stesso anno. Il gruppo forse non era al massimo della forma, ma secondo le versioni postume, nelle parole di Ray Manzarek, “Suonammo con una furia controllata e Jim era in perfetta forma”, secondo altri non uno dei loro migliori concerti anche perché i rapporti all’interno della band erano ad un minimo storico (ma si sarebbero appianati per registrare quello che sarà il loro canto del cigno, lo splendido L.A. Woman) e Morrison, sempre nelle parole di Manzarek, non mosse un muscolo per tutta la durata del concerto! Quindi a quasi 50 anni dall’epoca esce per la prima volta ufficialmente la versione integrale del concerto (due pezzi erano nel film Message To Love, e un altro, mi pare, nel documentario When You’re Strange): come leggete sopra ci sono vari formati, e nella parte degli extra c’è pure il bonus video “This Is The End” – 17 minuti di interviste del regista del film Murray Lerner con Robby Krieger, John Densmore e l’allora manager dei Doors Bill Siddons. C’è inoltre un’intervista del 2002 con Ray Manzarek.

Ecco la tracklist completa del concerto

1. Roadhouse Blues
2. Backdoor Man
3. Break on Through (To The Other Side)
4. When The Music’s Over
5. Ship of Fools
6. Light My Fire
7. The End (medley): Across The Sea/Away in India/Crossroads Blues/Wake Up

Secondo me è un grande concerto, così potrete dare una volta di più una risposta al quesito posto dalla famosa canzone, poi vedete voi, esce il 23 febbraio.

Bruno Conti