Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate – Republic/Universal CD
In realtà quello di cui mi accingo a parlare sarebbe il secondo album dei Greta Van Fleet dopo il celebrato (e discusso) Anthem Of The Peaceful Army del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/28/una-nuova-speranza-forse-piu-lattacco-dei-cloni-greta-van-fleet-anthem-of-the-peaceful-army/ , ma il quartetto di Frankenmuth, Michigan aveva esordito nel ’17 con From The Fires, EP di otto canzoni che però con i suoi 32 minuti durava più di tanti album. I GVF (i tre fratelli Josh, voce, Jake, chitarra, e Sam Kiszka, basso e tastiere, e l’amico Danny Wagner alla batteria) con i due lavori precedenti hanno diviso pubblico e critica come poche altre band, almeno in tempi recenti: chi li celebrava come una ventata di aria fresca nel panorama rock visto che i loro colleghi coetanei (i ragazzi sono poco più che ventenni) sono perlopiù artisti rap, hip-hop, trip-hop e boiate varie, chi li stroncava perché li considerava un vero e proprio clone dei Led Zeppelin. Forse la verità stava nel mezzo: il paragone con il Dirigibile ci stava benissimo (ed i nostri un po’ ci marciavano) sia per lo stile musicale proposto, un solido rock-blues molto anni 70, sia per il timbro vocale di Josh incredibilmente simile a quello di Robert Plant, ma nello stesso tempo il fatto di avere una ventata di aria fresca e giovane nel mondo del rock è una cosa indubbiamente positiva. Il problema quando sei associato a doppio filo ad una determinata band è però quello di smarcarti dallo scomodo paragone, e quindi tutti aspettavamo al varco i quattro con il nuovo album The Battle At Garden’s Gate.
Come al solito le critiche sono state alterne, nel senso che i loro detrattori hanno continuato ad accusarli di essere derivativi, mentre altri hanno intravisto nelle varie canzoni più di un tentativo di proporre qualcosa di nuovo, anche se sempre nell’ambito di un suono rock classico. Siccome io sono un po’ come San Tommaso, ho voluto toccare con mano (anzi, con orecchio), e devo dire che The Battle At Garden’s Gate è un deciso upgrade rispetto al seppur buon disco precedente, sia in termini di suono che di songwriting che di performance, e gran parte del merito va certamente al produttore Greg Kurstin (Foo Fighters, Adele, ma anche il Paul McCartney di Egypt Station). Certo, parecchi residui dell’influenza del gruppo di Page & Plant ci sono ancora, meno evidenti ma comunque presenti in più di un pezzo, ma qua e là abbiamo anche “l’ingresso” di sonorità di stampo quasi californiano e psichedelico, in linea con i testi che evocano temi esoterici e mondi paralleli (basta vedere la copertina e le immagini interne). Le canzoni sono solide e godibili dalla prima all’ultima, al punto che i 63 minuti complessivi trascorrono abbastanza facilmente, cosa non affatto scontata. Heat Above inizia con un organo inquietante, poi arriva la batteria lanciatissima ed entra il resto della band per una power ballad abbastanza diversa dallo stile del disco precedente (a parte la voce “plantiana”, ma quella non si può cambiare): arrangiamento elettroacustico ma potente con un quartetto d’archi sullo sfondo, chitarre ed organo ad evocare ampi spazi aperti e melodia molto fluida.
Un buon inizio. My Way, Soon è il primo singolo che gira già da qualche mese, un brano decisamente più rock a partire dal riff elettrico iniziale, anche se il motivo ed il cantato rilassato portano un po’ di sensibilità pop che non pensavo fosse nelle corde dei ragazzi (e qui la voce è più simile a quella di Geddy Lee dei Rush), a differenza di Broken Bells che è una suggestiva ballata il cui attacco (ma anche l’assolo finale) non può che ricordare Stairway To Heaven, ma poi il gruppo prende una direzione sua anche se Josh torna in modalità Plant: il brano comunque risulta molto bello, ricco di pathos e di ottimo livello compositivo. La dura Built By Nations è forse la più in linea con l’album di tre anni fa (e quindi la più zeppeliniana), un rock-blues solido e roccioso ma anche coinvolgente e suonato benissimo; un bell’intro di chitarra ed un’entrata decisamente “pesante” della sezione ritmica fanno di Age Of Machine una hard rock ballad coi fiocchi, dal suono al 100% anni 70 e solo vaghe reminiscenze di un gruppo che sapete qual è, mentre la lenta Tears Of Rain invade ancora i territori prog-rock cari ai Rush (una band a mio parere sottovalutata) e Stardust Chords è “semplicemente” una gran bella rock song, senza particolari influenze.
La potente Light My Love, con la chitarra ed un bel pianoforte in evidenza, è una lucida ballata dal leggero sapore californiano, zona Laurel Canyon (tra le più riuscite del CD), Caravel è dura, chitarristica e fa emergere il lato più puramente rock dei nostri, The Barbarians ha elementi psichedelici ed una chitarra wah-wah che rende tutto godurioso e ci fa tornare ai tempi in cui David Crosby non si ricordava il suo nome, solo con qualche tonnellata di decibel in più. Finale con Trip The Light Fantastic, che ricorda gli Zeppelin “leggeri” di In Through The Out Door e con la maestosa The Weight Of Dreams, più di otto minuti di sano rock anni 70 tra chitarre, archi e melodie ad ampio respiro, con il miglior assolo del disco. Saranno anche derivativi (in questo album un po’ meno), ma a me i Greta Van Fleet piacciono.
Marco Verdi