Un Filo Meno Bello Del Solito! Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open

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Jimmy Thackery And The Drivers – Wide Open – White River Records

Dopo un lungo filotto di dischi, prima per la Blind Pig, poi per la Telarc, e anche uno dal vivo per la Dixiefrog, pure Jimmy Thackery si è dovuto piegare alle logiche di mercato, quindi etichetta indipendente autogestita, e questo Wide Open è il secondo CD che esce con questo sistema di distribuzione, dopo Feel The Heat del 2011. Forse ricorderete che avevo parlato abbastanza bene di quell’album (e sarebbe difficile il contrario) http://discoclub.myblog.it/2011/06/18/questo-uomo-suona-jimmy-thackery-and-the-drivers-feel-the-he/  ma non benissimo, pur essendo chi scrive convinto che Thackery sia uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, e non solo in ambito rock-blues. Convinzione maturata in decenni di ascolti, prima con i Nighthawks e poi, da una ventina di anni, con i Drivers, in varie incarnazioni, in mezzo ci sono stati anche gli Assassins, i cui dischi sono di difficile reperibilità. Diciamo che anche lui, come Ronnie Earl o Danny Gatton (che addirittura non cantano), e prima ancora Roy Buchanan non brillavano come vocalisti: Thackery se la cava, ma non è un fulmine di guerra, Robillard, che peraltro non è certo Otis Redding o Sam Cooke, è decisamente meglio.

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Però la qualità come solista è pari ai nomi citati. Anche questo nuovo CD non lo annovererei sicuramente tra i suoi migliori in assoluto, palma che potrebbe spettare, Nighthawks a parte, ai due in coppia con Tab Benoit, a We Got It, dove ripercorreva il repertorio di Eddie Hinton, con l’aiuto dei Cate Brothers, ai vari Live, e ad altri CD dell’epoca Blind Pig e Telarc. Per questo Wide Open Jimmy Thackery si è preso il suo tempo, un paio di anni per concepire i brani e poi per registrarli ad Aprile di quest’anno negli studi di Cadiz, Ohio, con i due pards, Mark Bumgarner al basso e George Sheppard alla batteria https://www.youtube.com/watch?v=rgO3-xcOIbw . Il risultato è un disco più rilassato, a tratti jazzato, a tratti “atmosferico”, non privo delle sue feroci cavalcate chitarristiche rock-blues, ma che si può definire tanto eclettico quanto discontinuo, Wide Open per dirla con il buon Jimmy. Si parte con il jazz-blues swingato di Change Your Tune, con un cantato assai “rilassato” di Thackery, che però alla solista può suonare quello che vuole, con una disinvoltura disarmante. Anche Minor Step ha un taglio jazzistico, uno strumentale che oscilla tra Wes Montgomery, Robben Ford e certe cose di Ronnie Earl, niente male insomma. Coffee And Chicken è il primo vero blues, i Drivers rendono omaggio al loro nome e il nostro comincia ad affilare le stilettate della sua chitarra, anche se la parte cantata è sempre troppo sforzata. King Of Livin’ On My Own vira addirittura verso lidi country, con Thackery impegnato all’acustica in un brano che non è proprio un capolavoro. Hard Luck Man è il Thackery che più ci piace, un blues-rocker ricco di riff, con una grinta alla Nighthawks e la chitarra che “vola” https://www.youtube.com/watch?v=eeS2Bv4xdkY . Shame Shame Shame, il brano più lungo di questa collezione, quasi otto minuti, è uno strano slow blues elettroacustico dove Thackery si cimenta alla slide acustica, ma non resterà negli annali del blues.

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Molto meglio parlando di blues lenti una You Brush Me Off dove Jimmy se la batte con il miglior Ronnie Earl, uno di quei classici brani in crescendo che si gustano tutti d’un fiato https://www.youtube.com/watch?v=WHwKuLLngo8 , mentre Someone Who’s Crying Tonight, nonostante la presenza di Reese Wynans all’organo Hammond, fatica a decollare, un altro lento più parlato che cantato, ancora vicino ad atmosfere vagamente outlaw country-rock, sempre in attesa di un assolo che non arriva mai. Keep My Heart From Breakin’ torna al rock-blues più sanguigno, quello che di solito impazza nei suoi dischi, ma Swingin’ Breeze è un brano più adatto ai dischi jazz di Robillard o di un Herb Ellis, uno strumentale suonato benissimo ma non è il genere chi mi aspetto da Thackery e Run Like The Wind, un blues acustico, solo voce e chitarra, non è che metta il fuoco alle chiappe dell’ascoltatore. Rimane la conclusiva Pondok, un interessante brano strumentale che rende omaggio all’arte dei citati Buchanan e Gatton, un esercizio di grande perizia tecnica che però non solleva completamente le sorti dell’album. Ovviamente parere personale, magari non condivisibile, ma sapete che amo essere sincero. Gli anni passano e Thackery è un distinto signore di 61 anni, ma mi aspettavo di più, la classe c’è, ma solo a tratti.

Bruno Conti

Sempre Blues, Ma Di Quello Tosto! The Bob Lanza Blues Band – ‘Til The Pain Is Gone

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The Bob Lanza Blues Band – ‘Til The Pain Is Gone – Self Released

Bastano sei o sette secondi dal’inizio del primo brano, Maudie, per capire che Bob Lanza tiene fede al suo motto su come suonare il Blues: “dal profondo del cuore, con ferocia, come se la tua vita dipendesse da questo!”. Bravo, sottoscrivo! In un mondo dove ogni mese escono decine di dischi di blues, per emergere, oltre alla tecnica, contano la passione e il feeling, e in questo CD ce ne sono a tonnellate di entrambe.

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Lanza non è uno di quei musicisti che si risparmia, che viaggia in punta di fioretto (o di chitarra, se preferite), il suo stile e il suo approccio alla musica sono quasi sempre entusiasmanti, il suono è vigoroso e rigoroso al tempo stesso, si usa dire “blues with a feeling” e Lanza, con l’aiuto della propria band confeziona un album dove la materia è rivista in modo viscerale, un blues elettrico ad altra gradazione, dove i protagonisti sono la chitarra e la voce del nostro, ma anche gli altri solisti, l’armonicista David “Snakeman” Runyan e il tastierista Ed “Doc” Wall, hanno un ampio spazio (musicisti coi soprannomi, già sono bravi a prescindere) https://www.youtube.com/watch?v=78Xw5nXUP4I .

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Però poche balle, quello che conta è Bob Lanza, un chitarrista di quelli completi, come si desume proprio da Maudie, una cover di Mike Bloomfield, dove l’intensità dell’approccio chitarristico ricorda moltissimo quella dello scomparso musicista di Chicago, Illinois, un misto di furia e classe, note lunghe e rabbiose, precise, un “piccolo aiuto” dal figlio Jake, che si alterna nei soli di questo piccolo gioiellino che apre le danze dell’album, “Doc” Wall a piano e organo sottolinea con maestria e la famiglia Lanza illustra cosa voglia dire suonare il Blues, anche se vieni dal New Jersey, che non è uno dei “reami” delle 12 battute, ma tant’è! Lo slow blues I’ll Take care of you è anche meglio, David “Snakeman” Runyan con la sua armonica è perfetto nel supporto solistico, Wall ci delizia sempre con le sue tastiere e con questi assist, Lanza, anche ottimo vocalist, ci spiega ancora una volta cosa vuol dire suonare il Blues, sentimento e doti tecniche, fraseggio e tono esemplari, la solista che “punge”, il tutto unito in un sound senza tempo, sentito mille volte, per un rito che si rinnova sempre, ma che se gli interpreti sono di qualità, e qui ci siamo, non è mai stanco e risaputo, come succede viceversa in molti dischi di presunti novelli geni della chitarra https://www.youtube.com/watch?v=78Xw5nXUP4I .

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Questo è “solo” blues, poco rock (ma un qualche “estratto” c’è), se gente come Earl, Robillard, il citato Bloomfield, ma anche il Clapton più canonico, possono essere usati come pietre di paragone, non si può non risalire anche a “maestri” come Jimmy Dawkins, Luther Allison, Buddy Guy, tutta gente che ha sempre instillato una certa ferocia nel proprio approccio alla chitarra, la chiusura di ‘Til The Pain Is Gone quando Lanza quasi si trasfigura nel lungo assolo finale è un ottimo esempio di questo assunto. Lo strumentale Snakebyte offre ampio spazio all’armonica di Runyan ed è più classico, vicino agli stilemi del blues urbano, anche se il fluido divenire della chitarra è sempre un piacere da ascoltare. Il momento topico del disco è nella lunga Outskirts Of Town, ancorato dalla ritmica metronomica e precisa del batterista Noel Sagerman e del bassista Reverend Sandy Joren (ti pareva che non avesse anche lui un soprannome!), Bob Lanza rilascia un assolo di quelli da manuale del perfetto bluesman, un fiume di note, un crescendo irresistibile, da applauso a scena aperta, con l’ottimo Lee Delray, altro chitarrista di vaglia a dividersi il proscenio, alla seconda solista.

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I’m ready è proprio il brano di Willie Dixon, Southside Chicago Blues con armonica e chitarra alternate, in Every Night And Every Day fanno capolino anche dei fiati, per questo standard del repertorio di Magic Sam, più sanguigno e “cattivo” del precedente, con Runyan e Wall che tirano la volata al “solito” assolo di Lanza, che esplora ancora una volta il manico della sua chitarra con un vigore inusitato https://www.youtube.com/watch?v=s_cmfVUBhp4 . Build Me A Woman è uno shuffle texano più risaputo ma sempre gradevole, ma Sugar Sweet ci riporta immantinente in quel di Chicago con il florilegio pianistico di Wall a titillare i suoi pard nell’unico brano dove la chitarra “riposa”. Lonesome vede Lanza all’acustica per un intermezzo di pace in tanta elettricità, replicato anche nella successiva Our Life, una sorta di “boogie acustico”, solo voce, armonica e chitarra. Un trio di brani, che per quanto piacevoli spezzano il ritmo del resto dell’album e la conclusiva Mojo, cantata dal batterista Sagerman non riesce a recuperare completamente il drive della prima parte del disco, che il vecchio Muddy avrebbe sicuramente approvato. Un bel disco, con una parte finale più “selvaggia” sarebbe stato quasi perfetto, ciò nondimeno merita, anche se è uscito da qualche mese e non si trova con facilità!

Bruno Conti   

Il Miglior Chitarrista Blues Di San Diego?! Charles Burton Blues Band – Sweet Potato Pie

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Charles Burton Blues Band – Sweet Potato Pie – Charles Burton.com

Il mondo è bello perché e vario, ma anche no. Prendete la musica, il blues in particolare e ancora più nello specifico i chitarristi Blues. Ogni stato e città degli USA ha un suo “eroe locale”, un virtuoso dello strumento che dai piccoli e fumosi locali dove si aggira dispensa la sua arte, piccola o grande che sia. Non so dirvi se sempre sia vera gloria, perché nel caso dovremmo avere decine, centinaia, per non dire migliaia di musicisti di cui è indispensabile avere, se non l’opera omnia, almeno una testimonianza del loro lavoro. Forse non tutti sono dei fenomeni come vengono dipinti dalla stampa specializzata e di settore, ma sicuramente sono degli onesti e valorosi lavoratori delle sette note. Prendiamo questo Charles Burton, il “miglior chitarrista” della scena blues di San Diego, come testimoniano molti premi colà ricevuti nel corso degli anni, con cinque album già alle spalle, tutti rigorosamente autogestiti, ma la cui fama difficilmente può raggiungere tutti gli angoli del mondo.

Indubbiamente bravo ma, come dicevo prima, non più di tanti altri, per intenderci forse non ha quel quid, quella scintilla che lo eleva nettamente sopra la media della produzione in circolazione. Ma gli appassionati del blues elettrico e della chitarra in particolare, si possono rivolgere ai suoi prodotti con la certezza di avere tra le mani un prodotto solido e consono alle loro aspettative. Prendiamo questo Sweet Potato Pie, l’iniziale Shake It! con il suo abbrivio quasi R&R alla Thorogood o alla Little Charlie (al leader dei quali; Charlie Baty, Burton viene spesso accostato) poi si trasforma in un vigoroso blues(Rock) che tanto mi ha ricordato i migliori Ten Years After di Alvin Lee, con la chitarra di Charles Burton (non parente dell’altro Burton, quel James che giustamente rientra tra i grandissimi della chitarra) che corre velocissima sul solido groove creato dalla sua band e l’ospite Karl Cabbage che fornisce il suo contributo all’armonica. Anche Double Up ha la giusta grinta, ritmo da vendere, una solista molto presente e ricca di inventiva. Qualità che si confermano in Drivin’ Home un altro blues elettrico di quelli tosti con Burton che duetta con tale Chill Boy, mai sentito, probabilmente una leggenda locale, ma che bisogno c’era di prendere uno senza voce, già il buon Charles non è un fulmine di guerra a livello vocale (un po’ alla Robillard), quando in giro ci sono miliardi di ottimi cantanti? La parte strumentale ottima però. In comune con Robillard Burton ha una passione per il jazz classico che si estrinseca in una New York Jump che spezza un poco la tensione sonora decisamente bluesata del resto dell’album.

Goin’ To Memphis aggiunge un sapore di spezie sudiste al sound dell’album, mentre lo strumentale Crackdown dimostra che la Charles Burton Band è in grado, quando vuole, anche di dare del filo da torcere ai vecchi Double Trouble di SRV. Livin’ Without You (Blues For Simon) è un brano che nasce da una promessa fatta in uno dei viaggi nel Nord Europa (dai nomi i componenti del gruppo mi sembrano svedesi o norvegesi) ed è la classica ballata blues. La title-track è un divertente rockin’ blues dai ritmi spezzati, mentre New Boogie è un brano, fin dal titolo, che non sfigurerebbe tra i migliori del repertorio degli ZZ Top, uno strumentale che consente a tutta la band di mettersi in luce e non permette al vostro piede di rimanere fermo. Torna l’armonica di Cabbage per Used To Love That Woman e Your Number, due onesti esemplari di blues classico, senza infamia e senza lode, inframmezzati dalla tirata Brown Paper Bag dove Burton ha occasione di mettere in mostra ancora il suo stile chitarristico che mi ricorda, per certi versi, il classico British Blues dei tempi che furono, ancora TYA ma anche Chicken Shack o i Bluesbreakers di Mayall. Si torna in territori jazzati per la conclusiva Drop A Dime, un po’ fine a stessa, come altri brani di questo Sweet Potato Pie che alterna punte di eccellenza a momenti decisamente soporiferi,  non indispensabile, ma assai piacevole.

Bruno Conti