Delicate Perle Acustiche Per Una “Gloria Nazionale” Scozzese”! Donnie Munro – Sweet Surrender

donnie munro sweet surrender

Donnie Munro – Sweet Surrender – Live Acoustic – Hypertension Music – 2 CD

Una premessa è d’obbligo, questo disco non è nuovissimo (è uscito ad inizio primavera di questo 2015), ma trattandosi di un lavoro dell’ ex cantante dei Runrig (il più importante e noto gruppo di folk-rock scozzese ancora in attività) Donnie Munro, mi sembrava giusto menzionarlo e scrivere due righe sul doppio CD. Il buon Donnie se ne è andato dalla band nel lontano ’97, per cercare una (improbabile) elezione parlamentare tra le fila del partito laburista, debuttando poi come solista con un album tradizionale On The West Side (00), che conteneva però due belle “covers”, rispettivamente Catch The Wind di Donovan (resa in una fiera versione irish) e Nothing But A Child di Steve Earle,  anche questa in una versione sicuramente intrigante. Il successivo Live (01), presentava diversi successi dei Runrig, tra i quali Harvest Moon, Always The Winner, City Of Lights, The Greatest Flame (a confermare quale fosse suo il terreno musicale più idoneo), che veniva poi certificato nel successivo Across The City And The World (02), in Gaelic Heart (03), e nell’ottimo Heart Of America (06), nonché nello stesso anno da un altro live Donnie Munro & Friends (con numerosi ospiti) https://www.youtube.com/watch?v=81N8EVVIZs0 , e dal poco conosciuto An Turas (08), passato dalle nostre parti (e non solo) quasi inosservato: questo Sweet Surrender Live Acoustic è una ennesima collezione accattivante di canzoni (rigorosamente in versione dal vivo acustica), che comprende sia brani tradizionali gaelici, quanto classici dei Runrig oltre a canzoni scritte da Donnie nel suo percorso solista.

A sostenere Munro in questa “performance” live, troviamo la chitarra acustica del suo fido “pard” Eric Cloughley, e la brava Maggie Adamson al violino, un trio che riesce a trasmettere in questa “antologia” musicale la profondità e lo stile distintivo di Donnie. Il concerto inizia con i classici “messaggi” di Protect And Survive, Strangers To The Pine e come sempre l’aria “danzante” di The Cutter, con il violino della Adamson a dettare il ritmo https://www.youtube.com/watch?v=yj2jrs5dPwA , a cui fanno seguito la bella melodia di Chi Min Geamhradh, cantata rigorosamente in “gaelico”, il triste violino che introduce una sempre meravigliosa Dance Called America (vero inno generazionale scozzese), una superlativa versione di Raglan Road, i sette minuti strazianti di una sublime Eirinn (dove si evidenzia tutta la bravura dei musicisti) https://www.youtube.com/watch?v=56JGCKa5MS4 , la folk-ballad Heart Of America, andando a chiudere il primo “set” con due brani tradizionali arrangiati da Maggie, la dolcissima Leaving Lerwick Harbour e una  Back Up And Push da ballare fino allo sfinimento nelle feste di paese.

Dopo una bella bevuta di birra si riparte con due tenui ballate come Irene e Mother Glasgow https://www.youtube.com/watch?v=bg8UxcnnYuw , mentre Glasgow Joe è un brano intensamente personale (scritta in onore del defunto fratello di Donnie), ed October Song e un doveroso omaggio a Robin Williamson dell’ Incredible String Band. Con The Wire  si torna al periodo più intimista dei Runrig (con un bel lavoro di violino di Maggie), poi un altro tradizionale in gaelico come Mo Chruinneag Bhòidheach, il ritmo danzante di Where The Roses (che celebra i viaggiatori della Scozia), andando poi a chiudere con la trascinante City Of Lights e una scorrevole ballata come Weaver Of Grass sostenuta da un buon ritmo chitarristico e dal battito di mani del pubblico presente (che sembra muoversi a passo di marcia) https://www.youtube.com/watch?v=AA7_T-R9zUo . Sweet Surrender Live Acoustic è stato registrato in una serie di concerti che il “trio” ha suonato lo scorso anno in Germania, Danimarca e Scozia, quando due musicisti notevoli come Eric Cloughley e Maggie Adamson si sono uniti ad un poeta (e anche pittore di grande talento) come Donnie Munro (a 61 anni ancora una delle più belle voci scozzesi), il risultato non poteva non essere essere un album delizioso, a tratti mozzafiato e coinvolgente. Per chi ama il genere folk un CD da mettere sullo scaffale (e magari l’occasione riscoprire qualcosa dei Runrig http://discoclub.myblog.it/2014/04/10/grande-festa-musicale-nelle-highlands-scozzesi-runrig-party-on-the-moor/ ),  per chi scrive in alto la birre e i cuori!

Tino Montanari  

“Sembra” Lo Stesso, Bello In Ogni Caso! The Last Bison – Inheritance

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The Last Bison – Inheritance – Universal Republic

Se inserendo il dischetto nel lettore vi sembra di ascoltare una jam session tra i Mumford and Sons e i primi Decemberists o gli Avett Brothers più tradizionali, diciamo che, in linea di massima, non vi state sbagliando. La prima impressione è quella di una band folk vecchio stile, pur essendo in metà di mille, ok facciamo sette, come da foto, gatto escluso: due famiglie, gli Hardesty, Ben, il leader, voce solista, chitarra e batteria (tipo Marcus Mumford) ed autore dei brani, la sorella Hannah, alle percussioni, orchestra bells, diavolerie varie e armonie vocali e il babbo Dan, banjo, chitarra, mandolino e armonie vocali. Un’altra coppia di fratelli, amici di famiglia, Andrew & Jay Benfante, anche loro percussioni varie (ma ascoltando il disco non si direbbe che ci sia quest profusione di elementi ritimici) e il vecchio pump organ, aggiungete il cello di Amos Housworth e il violino di Teresa Totheroh, che sono altri elementi portanti del sound della band e voilà, il gioco è fatto.

Perché quel titolo, che poteva anche essere “sempre lo stesso”? Presto detto, oltre al genere che li accomuna ad altre formazioni, magari non un movimento, ma quasi, anche la storia del disco è curiosa. Il gruppo nasce nel 2010 e nel 2011 pubblicano, a livello indipendente, il primo album, Quill. Però allora si chiamavano ancora Bison, nome poi cambiato perché c’era un’altra band in circolazione con lo stesso nome, potrebbero essere i Bison B.C.? Boh. Ma il fatto peculiare è che ben sei brani di quell’album sono confluiti, pari pari, senza remix o nuove versioni e diversi arrangiamenti, in questa versione diciamo da major di Inheritance. Altri 4 erano già apparsi nell’EP dallo stesso titolo pubblicato lo scorso anno. Quindi alla fine, l’unico brano nuovo, per chi già li conosceva, è la title-track dell’album, che purtroppo è uno strumentale di  solo1 minuto e 1 secondo. Ma per chi non lo conosce è tutta un’altra storia.

Diciamo subito che, a fronte di una serie quasi unanime di critiche e recensioni positive, i Bison si sono trovati già fronteggiare un piccolo plotone dei “nemici” dei Mumford and Sons e soci, nato da qualche tempo, che trova questa musica monotona e ripetiva e pure noiosa, peraltro opinione rispetabilissima, se non fosse per partito preso, ma siccome non voglio creare una polemica inutile, passiamo a parlare dell’album: dopo la breve introduzione di Inheritance, parte Quill, mandolino, banjo e grancassa a manetta, cello e violino sottotraccia, alcuni strani strumenti dalle sonorità arcaiche, ma che si rifanno a vibrafono e antichi organetti, ricordano a chi scrive anche quelle atmosfere da fiera paesana che si potevano ascoltare (con diverse sonorità ma stesso spirito) in Being For The Benefit of Mr.Kite su Sgt. Pepper. Poi parte la loro “grande hit”, quella Switzerland che renderà felici i nostri vicini di casa della confederazione elvetica, atmosfere accelerate, percussioni in evidenza, ma anche, almeno nella parte iniziale, una voce stentorea, da fratelli americani dei Mumford, armonie vocali meno intricate ma sempre coinvolgenti, un ritornello che ti entra in testa, intervallato a segmenti più complessi, vagamente bucolici, con folk e arie classicheggianti che vanno a braccetto, violino e cello che cesellano, la voce di Ben Hardesty potrebbe avere qualche similitudine con quella di un Robin Williamson dell’Incredible String Band dei giorni nostri. Dark Am I sembra avvicinarsi agli Avett Brothers più roots, spruzzate di archi sul mandolino che conduce le danze, musica che sale e scende e il cantato. che pare sincero e non costruito, dei due fratelli Hardesty, con un continuo vorticare ciclico della musica che coinvolge e attrae l’ascoltatore.

River Rhine è più intima e meno enfatica, ma gli interventi corali quasi gospel delle voci arricchiscono un impianto costruito solo sull’acustica e sulle percussioni, con brevi interventi del pump organ, mentre Tired Hands con la sua apertura tracciata da violino e violoncello e poi il resto del gruppo che segue ha nuovamente quell’aura dei Beatles classicheggianti, quando seguivano l’impulso del Paul McCartney melodico ma colto, vista però dall’altra sponda dell’Atlantico, tra Copland e la mountain music. Molto bella anche Take All The Time sempre in bilico tra classico e folk, con la voce di  Ben Hardesty, sostenuta dal babbo, che si avventura in qualche ardito falsetto mentre cello e violino al solito cesellano le note. Interessante anche il quasi minuetto di Watches and Chains, sempre danzato su queste atmosfere sospese e raramente troppo cariche, improvvisamente squarciato da accelerazioni strumentali e poi quieto di nuovo. Musica che in teoria non parrebbe destinata al successo ma che sulla scia di formazioni come i Mumford and Sons, gli Avett Brothers, gli Hem, i Decemberists, gli Old Crow Medicine Show, i Fleet Foxes, i Monsters and Men e molti altri, sotto forme musicali diversificate e con diverse gradazioni di “elettricità” rock, sta lentamente conquistando un pubblico fedele (?) in giro per il mondo. 

Forse non sono così sensazionali come vengono dipinti, ma sicuramente Inheritance ha un suo fascino e una sua peculiarità, per cui segnatevi questo nome, Last Bison, e se vi capita cercate di ascoltarlo, forse non vi salverà la vita ma sicuramente vi garantirà 45 minuti di buona musica, e non è poco.

Bruno Conti

 

Piacevole, Forse Non Essenziale Ma… Trevor Moss & Hannah Lou – Quality First, Last & Forever

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Trevor Moss & Hannah Lou – Quality First, Last and Forever – Heavenly/Coop/Universal

Questo è l’ultimo “squillo” che giunge dall’Inghilterra, il più recente “Flavor Of The Month”: il NME li ha definiti come “un incrocio tra il folk dei Fairport Convention e le sensibilità pop dei Fleetwood Mac” ma anche riviste e Blog ne hanno parlato molto bene. In effetti si tratta di una coppia, marito e moglie, che giunge al secondo album, un ulteriore tassello che si inserisce piacevolmente in quel filone folk-pop o neo folk-rock, chiamatelo come volete, comunque tipicamente British, con quel suono prevalentemente acustico che rieccheggia i gruppi che diedero lustro alla scuola inglese a cavallo della fine anni ’60, inizio anni ’70, con notevoli influenze americane, allora e oggi.

Il disco è molto piacevole, come si diceva, le due voci si amalgamano con grande semplicità e la strumentazione parca ma al tempo stesso ricca negli arrangiamenti fa il resto. La “stranezza” se vogliamo è la voce di lui, Trevor Moss, acuta e nasale, che unita a quella cristallina di Hannah Lou crea questo sound inconsueto che può piacere o meno. Spesso cantano all’unisono ma si alternano anche nelle parti soliste e quando canta lui, nei vari ascolti che ho dedicato al disco (sempre per evitare il famoso aspetto del copia e incolla positivo e univoco che aborro, ricavato dai comunicati stampa, che penso impazzerà nelle recensioni da qui a poco, visto che il CD è appena uscito il 5 luglio), dicevo che in questi ascolti c’era un qualcosa che mi girava per la testa, quel senso di déjà vu che non riesci ad inquadrare ma ti ricorda qualcuno. Poi una luce si è accesa e le cose sono andate al loro posto: la voce è quasi identica a quella di Robin Williamson dell’Incredible String Band o quantomeno gli assomiglia in modo impressionante, anche se non del tutto nello stile musicale.

E questa non vuole essere una critica, tutt’altro: unito a quella sensibilità pop di cui si parlava prima (anche se i Fleetwood Mac non c’entrano un tubo, forse la voce strana alla Lindsay Buckingham?), alcuni brani, come la celestiale e bellissima ballata Making It Count hanno quel pizzico di magia insito nella buona musica. Nella parte centrale dell’album ci sono altri tre o quattro brani che sono percorsi da questo scatto qualitativo: penso alla deliziosa A Hill Far, Far Away, altro esempio di “pure folk pop for now people” o alla incalzante Long Way Round con il tocco del piano che aggiunge profondità al suono delle chitarre acustiche. Questo a dimostrazione che non sempre la presenza di personaggi come Dan Carey (più noto per avere collaborato con nomi come Hot Chip, Kylie Minogue e Emiliana Torrini) sia indice di sbragamento: i due pezzi mixati da Carey, oltre alla citata Making It Count, l’iniziale Spin Me A Rhyme, sono molto misurati nei suoni, quasi minimali, ma ricchi nei risultati sonori.

Ma è il vero produttore, Richard Causon, che dà quel tocco magico all’insieme, semplice e raffinato al tempo stesso, “quirky” direbbero gli inglesi, eccentrico, ma la mano di uno che ha collaborato tra gli altri con Ryan Adams, Rufus Wainwright, Alanis Morissette, Jayhawks, Kings Of Leon e tantissimi altri, si sente. Un brano di pop solare ed estivo come Big water forse non c’entra con il resto del disco ma è tanto divertente e coinvolgente, Trevor e Hannah centrano lo spirito alla perfezione. The Stargazer’s Gutter con le sue armonie vocali tra West Coast à la Mamas and Papas e i Simon And Garfunkel più scanzonati sempre intrisi di quella patina folk britannica è un altro momento delizioso, anche il finale fiatistico è quasi geniale. Cheap wine è una cover di un brano di Charlie Parr, un altro dei nuovi eroi del filone folk acustico.

La dolce Feel at ease per strani percorsi mentali mi ha ricordato una versione mena epica di The Battle of Evermore, il duetto tra Plant e Sandy Denny su Led Zeppelin IV mentre la quasi filastrocca di The Passing Of Time si riallaccia alla “inglesità” tipica dell’album. Quindi, ribadisco, piacevole senza essere essenziale ma ciò nondimeno un disco che si può inserire tranquillamente nella propria collezione e che resiste agli ascolti plurimi e prolungati, una “piccola” gradevole sorpresa.

D’altronde un duo che ha costruito la propria reputazione con tour tra piccole chiesette e locali della campagna inglese un po ‘ di fiducia la merita.

Bruno Conti