Un Poderoso Terzetto Di Rock-Blues! Mount Carmel – Real Women

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Mount Carmel – Real Women – Siltbreeze records

Nome biblico, ma vengono da Columbus, Ohio, per questo tosto terzetto che fa del rock-blues energico la propria Bibbia. Hanno già pubblicato un dischetto omonimo nel 2010 che qualcuno cita come fosse un EP, ma con sette brani per quasi quaranta minuti di musica, e due lunghe tracce intorno ai 10 minuti ciascuna, era più lungo di questo Real Women, che di brani ne ha nove, più compatti, poco più di mezz’ora di sano rock-blues, come se fossimo ancora in pieni anni ’70, agli inizi, quando gruppi come ZZTop in America e Humble Pie, avevano rilevato il pallino da formazioni come Cream, Free, Led Zeppelin ma anche Blue Cheer.

Ci sono piccole sfasature temporali nei nomi citati ma serve per inquadrare l’humus nel quale si muovono questi Mount Carmel, classica formazione da power trio con Matthew Reed, alla chitarra solista e ottimo vocalist e la sezione ritmica con Patrick Reed (parente? Direi fratello!) e il giovane batterista Kevin Skutbak, che alla pubblicazione dell’esordio aveva 17 anni, ma è ancora oggi un teenager dalle mani d’acciaio, nel senso che picchia sui tamburi come un forsennato, ma con ottima tecnica.

Dall’iniziale Swaggs dal suono denso e potente che ricorda gli Humble Pie di Steve Marriott ma anche riportata ai giorni nostri i Black Crowes più “cattivi” (che su Pie, Faces, Stones e Zeppelin, ci hanno costruito una carriera, ottima peraltro), si passa poi a Real Women che avrebbe potuto essere indifferentemente su un disco dei Cream o dei primi ZZtop, circa 1973/74. Oh Louisa avreste potuto trovarla su qualche vecchio vinile dei Free di Paul Rodgers e Paul Kossoff, stessa costruzione sonora e stessa grinta vocale e chitarristica, anche la ritmica ricorda i mai troppo lodati Fraser e Kirke.

Ognuno poi ci può vedere (e sentire) quello che vuole, sostituite i nomi con altri e il risultato non cambia, nel precedente disco c’è una lunghissima cover di Hear Me Callin’ dei Ten Years After di Alvin Lee, altro gruppo mai lodato abbastanza nel genere.

Be Somebody è un hard slow blues molto Claptoniano mentre Choose Wisely potrebbe ricordare il power chord garage dei citati Blue Cheer. Hear Me Now, più dark, sta a cavallo tra i Black Sabbath più blues degli inizi e gli Zeppelin e anche Don’t Make Me Evil è su quelle coordinate sonore. Rooftop, ormai ci siamo capiti, non si discosta neppure questa dal copione, peraltro soddisfacente per chi si nutre del genere. La conclusione è affidata a Lullaby che a chi scrive ricorda nuovamente gli ZZTop, ma, ripeto, potete riempire la casella “influenze” con i nomi che preferite (e forse se chiediamo a loro molti di questi nomi neppure li conoscono, ma sono lì che aleggiano nell’aria) e il risultato non cambia: solo del buon vecchio rock-blues con la chitarra che viaggia ben sostenuta da una solida ed inventiva sezione ritmica. Niente di più, ma la qualità è buona e costante, non delude le aspettative, per innovazione e ricerca cercate altrove, ma il rock è anche questo, onesto e piacevole.

Bruno Conti

“Southern Hard Rock”! Rob Tognoni – Boogie Like You Never Did

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Rob Tognoni – Boogie Like You Never Did – Music Avenue/blues Boulevard

Rob Tognoni è un “sudista”, anzi più che un sudista, viene da Down Under (anche se con quel cognome!), dal Queensland dell’Australia per la precisione e ormai ha una lunga carriera alle spalle. Viene considerato un ottimo chitarrista (famiglia Dave Hole per citare un altro australiano che però, per il sottoscritto, è decisamente più bravo) ed in effetti lo è, ma il suo genere più che il consueto e canonico rock-blues o power-trio si potrebbe definire southern hard rock. Influenze blues ce ne sono ma si tramutano con una abbondante innervatura di Hendrix, Ac/dc, ZZTop, il tutto suonato a volumi “heavy” con wah-wah che spesso imperversano dalle casse dei vostri impianti, nelle cuffiette o negli stereo della macchina (dove preferite): il buon Rob, se serve, aggiunge anche quella tastiera che fa tanto hard-rock anni ’70 ma anche progressive e psych, come nella tirata Spaceman dove ci dà una dimostrazione della sua perizia chitarristica. Altrove si dedica all’arte dello strumentale come nell’iniziale Reboot o all’hard rock di maniera come in The Broken String (con citazione hendrixiana nel testo), il tutto sempre di grana un po’ grossa, ma il genere lo richiede e ha i suoi estimatori, basta sapere cosa aspettarsi.

Oltre a tutto, tra i suoi estimatori, questi titoli non risulteranno neppure nuovi: ebbene sì, questo Boogie Like You Never Did è una raccolta, sono brani tratti dai 3 album pubblicati tra il 2008 e il 2011 sempre per la Blues Boulevard, 2010dB, Capital Wah e Ironyard Revisited, basta saperlo visto che lo scoprite solo aprendo il digipack del CD. Ogni tanto, come nella bluesata, Can’t See The Smoke o nella title-track il boogie sudista alla ZZTop prende il sopravvento ma la voce, discreta ma non memorabile non aiuta, anche se la chitarra mulina sempre i suoi assoli con vigore e buona tecnica. Però ci sono anche molti brani dalle sonorità scontate e risapute come Light Of day mentre in altri momenti come nella riffata The Rain (due giri di chitarra ed è subito La Grange) si agita il piedino con piacere. Tanto per non continuare a citare titoli che non conoscete, ci siamo capiti, se amate del rock energico senza troppe finezze ma suonato con la giusta carica e dove le chitarre suonano già sentite ma sincere questo album fa per voi.

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Oltre a tutto mentre scrivo questa recensione, leggo (e sento) che è già uscito un ulteriore nuovo disco di Rob Tognoni, Energy Red, questa volta per la Dixiefrog; la formula è sempre quella ma stavolta ci sono anche alcune cover che esplicano ulteriormente i gusti del nostro axe slinger. Una Can’t You See molto “raffinata” tratta dal repertorio della Marshall Tucker Band, un omaggio ai conterranei Crowded House con Better Be Home Soon e una inconsueta acustica As Tears Go By dal repertorio degli Stones, ma già in passato Tognoni aveva infilato una cover di San Francisco in un vecchio album.

Quindi potete scegliere se acquistarli entrambi, se amate il genere o non avete gli album precedenti, oppure passare la mano, in fondo non siamo di fronte ad un disco fondamentale (o due), si può anche tralasciare, piacevole se volete passare un’oretta a fare dell’air guitar di fronte allo specchio, che è sempre uno sport casalingo!

Bruno Conti  

Very Heavy, Very Hard! Guitar Pete – Raw Deal

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Guitar Pete – Raw Deal – Grooveyard records 

Vero nome Peter Vincent Brasino, quindi uno dei “nostri” (e se è per questo il batterista è Anthony Bernardo e l’executive producer Joe Romagnola)! Luogo di provenienza New York City. Genere musicale: uhm vediamo, power trio rock blues, più rock che blues, tipo Blindside Blues band dei giorni nostri (coi quali condividono l’etichetta) o per risalire al passato, Frank Marino, Pat Travers,gli ZZTop di mezzo, Robin Trower, Point Blank e Blackfoot. Quindi tra southern rock molto ma molto duro, hard rock classico, molti hendrixiani come vedete, non escluso l’originale che era stato abbondantemente omaggiato nel precedente Live At the Blues Warehouse.

Cosa vi dovete aspettare? Chitarre a manetta con wah-wah in overdrive, ritmica tra Black Sabbath e improvvise accelerazioni, vocione alla Billy Gibbons dei vecchi tempi, una cover di Gimme Back My Bullets dei Lynyrd Skynyrd dove fanno una fugace apparizione anche delle chitarre acustiche e una armonica e i tempi si placano momentaneamente. Per il resto, chitarra, assoli, chitarra, assoli, ho dimenticato qualcosa? Chitarra!

Per essere sinceri, alla fine del CD, da segnalare, c’è una bella versione di nove minuti del classico slow di Nick Gravenites Love Me Or I’ll Kill You, il classico blues lento potente e tirato. Guitar Pete è molto bravo, una tecnica notevole, ma se considerate di grana grossa Bonamassa (che è di un’altra categoria) qui sfociamo nel Very Heavy Very Hard se vogliamo parafrasare il titolo del famoso disco degli Uriah Heep! Tra le diversioni, lo strumentale vagamente funky Mudslinger e l’altro mid-tempo Dead and gone, nonché il riff zeppeliniano di Too far Gone. All’inizio c’è la sequenza tiratissima di Raw Deal, Battle Cry e All Fired Up con gli ingredienti citati prima.

Per chi ama le “sensazioni forti”.

Bruno Conti

Più Stevie Ray Che Jimi Ma Sempre Chris Duarte Group – Blues In The Afterburner

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Chris Duarte Group – Blues In The Afterburner – Blues Bureau/Provogue/Edel              

Se Infinite Energy dello scorso anno segnalava un deciso ritorno in forma per Chris Duarte, questo nuovo Blues In The Afterburner mi sembra il suo migliore in assoluto dai tempi di Texas Sugar/Strat Magick quello che lo aveva segnalato come il migliore contendente per il trono vacante di erede di Stevie Ray Vaughan. Lo so che l’ho già scritto altre volte, ma che volete farci, sono monotono, mi ripeto, anche se questa volta la qualità dell’album giustifica la fiducia. Decimo album della sua discografia (anche se esisterebbe un Chris Duarte & The Bad Boys pubblicato nel 1987 in una tiratura di 1100 copie!) segnala l’uscita del vecchio batterista della formazione, Chris Burroughs e l’utilizzo di due musicisti di studio per la registrazione del disco.

Non si direbbe perché il CD che ne è risultato è quello più coeso e riuscito dai tempi dell’esordio discografico. Duarte in una intervista parla anche di “Americana” per alcuni momenti dell’album ma mi sembra che in effetti il buon Chris abbia alzato il volume della chitarra a 11 e realizzato i suoi migliori assoli a livello discografico in tutti i brani contenuti in questo Blues In The Afterburner che tiene fede al suo titolo e mi sembra nettamente superiore al suo quasi omonimo Afterburner degli ZZTop in ambito Texas Blues.

Pronti:via, Another Man è una partenza sparata nel migliore stile alla SRV con la chitarra di Duarte che comincia a mulinare note e assoli alla grande con la sezione ritmica che ricrea il classico groove ciondolante alla Vaughan (non sarà originale ma suona un gran bene e per vie indirette si risale fino a Jimi). Make Me Feel So Right ha tempi più accelerati, vagamente rock and roll alla Johnny Winter con le mani che scorrono velocissime sul manico della chitarra. Bottle Blues è appunto un torrenziale hard blues texano che avrebbe incontrato l’approvazione di Stevie Ray mentre Milwaukee Blue  nonostante il titolo è  uno di quei brani con derive country/Americana ma sempre con “tiro” da rocker. Hold Back The Tears è una lunga traccia di stampo psichedelic/hendrixiano dove Duarte improvvisa liberamente alla pari con i migliori chitarristi in circolazione. Summer’s Child ha delle sonorità jazz latine più raffinate mentre Searching For you è un ferocissimo hard-rock che non lascia cadere la tensione chitarristica di questo disco che non ha momenti di stanca a differenza di altre sue prove discografiche nel passato, la chitarra rilancia continuamente i suoi temi con verve ed inventiva e una grande tecnica. Grana grossa nei suoni ma finezza nello stile.

Black Clouds Rolling è un fantastico slow blues tra Red House e Texas Flood dove Chris Duarte instilla tutta la sua passione per i due musicisti citati e il risultato ripaga l’ascoltatore appassionato di chitarra. Don’t Cha Drive Me Crazy è un R&R leggerino redento dal solito notevole lavoro della solista. Born To Race è un’altra feroce cavalcata di stampo rock-blues  con il nuovo batterista Aron Haggerty che utilizza il suo miglior groove alla Mitch Mitchell. I’ve Been A Fool è l’altra escursione in territori country che interrompe la tensione emotiva del disco (e non c’entra molto con il resto, ma son ragazzi, del 1963, lasciamoli divertire). Gran finale pirotecnico con lo strumentale jazzato Prairie Jelly dove tutti e tre gli strumentisti improvvisano in piena libertà.

Come dicevo nella recensione dell’album precedente chris%20duarte (sono monotono): per amanti della chitarra! Esce tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre.

Bruno Conti