Per Gli Amanti Del Rock “Robusto”, Magari Non Raffinatissimo. Tyler Bryant And The Shakedown – Truth And Lies

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Tyler Bryant And The Shakedown – Truth And Lies – Spinefarm Records

Il primo disco di Tyler Bryant con gli Shakedown, Wild Child, pubblicato nel 2013, era stato preceduto da un potente battage pubblicitario e da una sorta di sponsorizzazione da parte di vari artisti famosi, da Eric Clapton a Jeff Beck, passando per Vince Gill, che ne avevano parlato come di un nuovo fenomeno della chitarra, una sorta di erede di Stevie Ray Vaughan. Il ragazzo è bravo, ma come testimonia la presenza nella band del secondo chitarrista Graham Whitford, figlio di Brad, degli Aerosmith, il tipo di sound a cui dobbiamo riferirci è quello: anche se sono originari del Texas, operano in quel di Nashville, una delle principali capitali della musica americana commerciale, niente country, ma un suono decisamente mainstream,che partendo dal rock-blues vira spesso verso un hard rock alquanto di maniera, come testimoniato dal primo album, buono senza entusiasmare, passando per il “difficult” second album che quattro anni dopo aveva certificato più che progressi qualche passo indietro https://discoclub.myblog.it/2018/01/17/il-famoso-secondo-difficile-album-tyler-bryant-the-shakedown-tyler-bryant-the-shakedown/ .

In questo terzo disco non si cambia, il mio parere è personale ovviamente: se amate il vostro rock hard and heavy probabilmente qui troverete pane per i vostri denti. Insomma siamo più sul versante rock-blues che su quello blues-rock, discrimine sottile ma efficace per inquadrare i quattro giovanotti, che dal vivo sono sicuramente efficienti e coinvolgenti, ma nei dischi di studio convincono di meno. Per restare nella similitudine con gli Aerosmith, siamo più verso quelli commerciali e “tamarri” (no, quello lo sono sempre stati) della seconda parte della carriera rispetto ai “nuovi Stones americani” degli anni ’70, richiami a Led Zeppelin, Yardbirds e soci ci sono sempre, ma molto più tenui, a favore di un rock appunto più di maniera e da classifica, manca mi sembra quel guizzo o quel tocco melodico di classe, anche se l’impegno però  non manca, paiono gli stessi difetti dei dischi meno riusciti di Black Keys e Gary Clark Jr.

L’iniziale Shock And Awe, uno dei due singoli, oscilla tra Led Zeppelin, riif alla Jeff Beck era Yardbirds e un hard più convenzionale, sempre infarcito di coretti che vorrebbero ampliarne l’appeal commerciale, e le sferzate della solista di Tyler Bryant; On To The Next,  il secondo singolo, riff e lavoro della batteria molto nerboruti, voce filtrata e minacciosa e improvvise scariche chitarristiche, rimane sempre sulle stesse coordinate e applica la stessa formula Hard rock. Ride è più lenta e cadenzata, chitarra leggermente distorta ed acida, ma sempre quella sensazione di canzoni parzialmente irrisolte, nonostante il lavoro del produttore newyorchese Joel Hamilton ( buon pedigree, ha lavorato anche con Black Keys e Tom Waits); non manca qualche ballatona come Shape I’m In, intro acustica e poi un buon crescendo melodico che sfocia nel solito assolo di Bryant, e anche Judgement Day ricorda quelle ballate un po’ ruffiane alla Aerosmith.

Eye To Eye e Panic Button tornano a virare sul classico hard rock della band, sempre più anni ’90 che anni ’70, gli assoli torcibudella di Tyler non sempre bastano ad alzare del tutto la qualità di una musica a tratti abbastanza scontata. Drive Me Mad con qualche richiamo ai Deep Purple di Fireball è più vivace e mossa, ma Without You torna nel rock routinario, al di là di un assolo formidabile del giovane Bryant. Trouble è un’altra ballata mid-tempo con vaghi accenni blues, mentre Out There con i suoi accenti acustici quanto meno indica un tentativo di tentare altre strade sonore e offre un buon lavoro in modalità slide della chitarra, poi subito dimenticati nella bombastica Cry Wolf e nella pretenziosa Couldn’t See The Fire. Insomma siamo sempre dalle parti del secondo album: bravo chitarrista, tanta grinta e se siete in astinenza da hard-rock potere provare questa specialità, molto fuoco, ma ogni tanto l’arrosto sa di bruciato, più bugie che verità, comunque le virtuali tre stellette di stima ed incoraggiamento per l’impegno mostrato.

Bruno Conti

Un Disco Dal Vivo Veramente “Mitico”, Anzi Due! Gov’t Mule – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre Parte 2

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Gov’t Mule  – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre

2 CD + 2 DVD Deluxe/ Mascot/Provogue – Esce il 19 Luglio

Per chi non si accontenta della versione in 2 CD di cui abbiamo parlato ieri vediamo cosa troviamo in più e di diverso nella versione Deluxe 2 CD + 2 DVD, anzi prima vediamo cosa non c’è delle due serate tenute nello scorso aprile: manca la cover di Effigy dei Creedence, Unring The Bell, Mr. High And Mighty, il bis finale con I’ll Be The One, un brano solista di Haynes, che incorpora la Blue Sky Jam, è questo è un vero peccato, Rocking Horse dalla prima serata e anche una Tributary Jam, a favore di un paio pezzi ripetuti più volte, comunque in diverse versioni, sia nella parte audio che video. Per la serie “purtroppo”, parlo per i portafogli degli acquirenti, bisognerà avere entrambe le edizioni::quella Deluxe, seguendo sempre il formato CD doppio, inizia con Hammer And Nails, la cover del brano degli Staple Singers, che era su Deep End Vol. 2, dal soul dell’originale al blues a tutta slide della loro rilettura, seguita da una granitica e lunghissima Thorazine Shuffle, oltre dodici minuti di super jam per uno dei loro cavalli di battaglia sin dai tempi di Dose, sempre da quel disco anche Larger Than Life, altro pezzo rock di quelli tosti, Forsaken Savior da Shout, contiene una citazione della bellissima Sad And Deep As You di Dave Mason, Broke Down On The Brazos è un altro massiccio pezzo rock costruito su un pantagruelico riff di basso di Carlsson, Endless Parade è una splendida ballata ripresa da High And Mighy, lirica e malinconica, con un altro assolo da manuale di Haynes, Lola Leave Your Light On è un’altra scarica zeppeliniana da Dèjà Voodoo e Blind Man In The Dark è la quintessenza del suono dei Gov’t Mule, potenza devastante, classe, improvvisazione alla ennesima potenza, tra wah-wah impazziti e ritmica in libertà, e sempre da quel periodo arriva anche Raven Black Night, altro limpido e complesso esempio della loro musica, traccia che chiude il primo CD della versione Deluxe quadrupla.

In apertura del secondo CD, TravelingTune, versione alternata, ancora più allmaniana, e una durissima Stone Cold Rage, nuovamente dal disco del 2017, di Whisper In Your Soul su Shout c’era una bella versione cantata con Grace Potter, qui viene forgiata in una strana ed inconsueta versione quasi psych-soul, sorniona e ricercata, mentre molto bella è la blues and soul ballad Little Toy Brain, con Warren sempre splendido alla solista, canzone che placa un attimo gli animi prima del pezzo forte dell’intero concerto, un magnifico e lunghissimo medley di oltre 17 minuti di Trane ed Eternity Breath della Mahavishnu Orchestra, che poi sfocia in una jam costruita intorno a una sontuosa St. Stephen dei Grateful Dead, con tutti e quattro i musicisti in grande spolvero ai rispettivi strumenti, per un quarto d’ora di grandissima musica (come se il resto non bastasse), minchia se suonano, scusate il francesismo (però, delitto di lesa maestà, questo medley non è stato inserito nella parte video del doppio DVD) . Un attimo per riprenderci e arriva un altro brano da Revolutions, una breve ma epica Pressure Under Fire e pure Fool’s Moon da Deep End Vol. 1 non è malaccio, si fa per dire, sempre rock magistrale, che precede l’altra versione di Revolutions Come…Revolutions Go, ancora 10:45 magici tanto per gradire e dallo stesso album anche Bring On The Music che dà il titolo a questo Live, altro brano notevole, dall’inizio in sordina, solo percussioni e chitarre e tastiere accarezzate, fino all’ingresso vigoroso della ritmica e il “consueto” crescendo strumentale, tra pause ed improvvise ripartenze che poi confluiscono nella ripresa di Traveling Tune (Part 2) che concludeva il concerto del 28 aprile e pure questo doppio CD magnifico.

Il doppio DVD splendidamente ripreso con ben nove telecamere dal fotografo e regista Danny Clinch riporta un corposo estratto dai due concerti, pizzicando sia dalla versione standard che da quella deluxe, 23 brani in tutto, sempre non seguendo la sequenza originale, ma con interviste con la band, riprese dietro le quinte, fotografie ed altre chicche,  pur se con la pecca appena citata. Concludendo, in ogni caso, in una parola, “mitico”.

Bruno Conti

Un Disco Dal Vivo Veramente “Mitico”, Anzi Due! Gov’t Mule – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre Parte 1

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Gov’t Mule  – Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre2 CD + 2 DVD Deluxe Esce il 19-07/ 2 CD Mascot/Provogue

Quest’anno la band americana festeggia i 25 anni di carriera (anche se il primo album omonimo fu pubblicato nel 1995): nato come un side project di Warren Haynes e Allen Woody, all’epoca entrambi negli Allman Brothers, poi il gruppo è diventato una delle migliori realtà del rock americano, con dieci album di studio, più alcuni EP, dischi collaterali, progetti di revisione di altri CD, e almeno altrettanti dischi dal vivo ufficiali pubblicati in questo arco di tempo. Ma se andiamo a anche a vedere il materiale Live distribuito tramite il loro sito http://mule.net/ si raggiungono quantità spropositate: comunque anche per festeggiare la firma di un nuovo contratto di distribuzione con la Mascot/Provogue, dove comunque avevano già lavorato in passato, ecco che esce ora questo Bring On The Music – Live At The Capitol Theatre in diversi formati, tra cui abbiamo estrapolato per parlarne, la versione Deluxe in 2 CD e 2 DVD che affianca la versione standard in 2 CD. Perché, in un attentato ai nostri portafogli, le due edizioni contengono materiale quasi completamente diverso a livello brani e quindi toccherebbe averle entrambe (ma occhio perché ci sarà anche un bundle limitato con la versione in 4 CD + 2 DVD): si tratta di un estratto quasi completo (manca comunque qualcosa) delle due serate registrate e riprese il  27 e 28 aprile del 2018 al Capitol Theatre di Port Chester, NY (una delle due location predilette in assoluto da Haynes, insieme al Fillmore).

Lo so perché sono andato a controllare sul sito https://www.setlist. che riporta le tracklist complete dei due concerti: direte voi, ma non era più semplice pubblicare i due concerti integrali (come fanno per quelli che vendono direttamente sul sito), magari anche nella sequenza originale? Certo, ma dovendo complicarci la vita, hanno preferito optare per questa soluzione complicata che mescola e riallinea la sequenza dei  due concerti. Quindi andiamo a vedere cosa dobbiamo aspettarci, partendo dalla versione standard in 2 CD. Se non avete voglia di leggervi tutto, sappiate comunque che, come al solito, si tratta di svariate ore di grande musica rock, con la solita quota di chicche imperdibili ad insaporire un menu di per sé gustosissimo, e quindi non si può farne a meno. Non facciamo proprio una track by track completa del tutto (comunque quasi), se no fra un paio di mesi siamo ancora qui, ma guardiamo comunque in profondità i contenuti: il primo CD edizione standard si apre con Travelin’ Tune (Part 1) che è la canzone che apriva il concerto del 28 aprile (o l’undicesima del 27 aprile? Chi può dirlo, quindi non ci poniamo più il problema), comunque trattasi di uno dei brani di Revolutions Come…Revolutions Go, tra le poche, tre in tutto se non ho visto male, che non raggiungono i cinque minuti. In ogni caso i quattro, Haynes, Abts, Louis e Carlsson, partono subito alla grande, ma con un pezzo diciamo più “gentile” , più rootsy, anche senza la steel della versione di studio, rispetto al rock dirompente di gran parte del concerto, deliziosa comunque.

A seguire arriva, da By A Thread, una potentissima cover del traditional Railroad Boy, grande rock-blues con gagliardo uso di slide, da parte di Haynes, mentre la versione di Mule, oltre i dieci minuti, lo conferma come uno dei pezzi apicali della loro storia, come avrebbe detto Abantuono “Viuulenza”, ma con classe zeppeliniana, rilanci continui ed interscambio anche con l’organo e il synth, con Abts che picchia come un fabbro appunto alla Bonzo Bonham. Beautifully Broken era su Deep End 1, potremmo definirla una hard ballad, più tranquilla, ma non mancano le scariche rock tipiche dei Muli e un bellissimo assolo di Warren, poi tocca a Drawn That Way, un altro dei brani di Revolutions, altro pezzo di grande impeto, molto scandito e tirato senza requie con accelerazione finale micidiale. Nel frattempo non si segue più la sequenza del concerto originale e arriva la splendida southern ballad The Man I Want To Be, che ricorda certe cose degli Allman, compreso il ficcante assolo di chitarra. La prima sorpresa arriva con la frenetica Funny Little Tragedy (Shout!), con grande giro di basso di Carlsson, che quasi inevitabilmente porta alla citazione nella parte centrale di Message In A Bottle dei Police, o viceversa, per poi tornare al tema originale; a seguire troviamo Far Away, un brano del 2000, sempre in versione ampliata, una ballata scura che parte lentamente e poi si dipana in crescendo, fino ad un acidissimo e quasi psichedelico assolo di Warren anche in modalità wah-wah.

Altra sorpresa in arrivo con la cover di Sin’s A Good Man’s Brother, un vecchio brano dei Grand Funk Railroad, che non eseguivano in concerto dal 2002, un pezzo di vibrante e gagliardo rock americano targato anni ’70, Mr. Man era su Dèjà Voodoo, altra bomba rock “riffatissima” che sembra uscire da qualche vecchio vinile dei Deep Purple, con Danny Louis molto Jon Lord alle tastiere. Dark Was The Night Cold Was The Ground è il vecchio traditional arrangiato da Blind Willie Johnson, che a sua volta Haynes aveva trasformato in un roccioso blues-rock per la versione di studio di Revolutions Come… qui ancora più grintoso in una versione monstre di oltre 10 minuti, intro pianistica, poi arriva la slide ed un groove che ricorda molto i Led Zeppelin di Physical Graffiti, grande brano. Life Before Insanity  che apre il secondo CD è un pezzo dall’aria più sudista, nuovamente allmaniano, con una bella melodia ricorrente, prima di passare a Thorns Of Life, uno dei brani migliori del disco del 2017, con Warren che lavora di fino su timbri e tonalità della propria chitarra nell’atmosfera sospesa della canzone, prima di scaricare insieme ai suoi pards tutta la potenza di fuoco della band, dieci minuti poderosi, poi replicati nell’altrettanto lunga title track dell’ultimo album (di cui vengono eseguiti ben 9 dei 12 brani, d’altronde era il Revolutions Come…Revolutions Go Tour), altro brano “swingin’ rock”, ancorato da un bel giro di basso e dalle divagazioni dell’organo, prima di una incantevole jam, quasi jazzata nella parte centrale strumentale e poi cambio di tempo verso un blues-rock cadenzato e infine di nuovo al tempo originale, con Louis impegnato anche alla tromba, oltre che all’organo.

Anche No Need To Suffer era su Life Before Insanity, altro lento dalle atmosfere sospese ed avvolgenti, per rimanere in tema Zeppelin siamo dalle parti di Houses Of Holy, altro tipico brano in crescendo con piano elettrico sullo sfondo e poi l’esplosione di un splendido assolo di chitarra torcibudella di Haynes, Dreams & Songs viene da Revolutions…, una dolente southern ballad con uso slide, tra Allman e Lynyrd Skynyrd, prima di passare alla lunghissima Time To Confess, che era su The Deep End 2, con accenni reggae e improvvise fiammate rock, che confluiscono nella devastante jam strumentale nella parte centrale, con un altro assolo mostruoso di Warren, che poi ci regala un’altra chicca come la cover di Comeback dei Pearl Jam, una primizia nel repertorio dei Muli, un pezzo non notissimo della band di Vedder, sul loro omonimo disco del 2006, una vibrante confessione ad una compagna che non c’è più, cantata con empatia e partecipazione da Haynes, che si immerge a fondo nella canzone, fino all’assolo lirico e liberatorio. World Boss era la traccia di apertura di Shout!, uno dei classici pezzi rock molto mossi dei Gov’t Mule, con qualche elemento hendrixiano nello svolgimento,  brano che conclude questo doppio CD nella versione standard.

Nella seconda parte del Post vediamo cosa contiene la versione Deluxe in 2 CD e 2 DVD.

Bruno Conti

La Sua Prima Volta Dal Vivo In Europa. Paul Butterfield Band – Live At Rockpalast 1978

paul butterfield band live at rockpalast

Paul Butterfield Band – Live At Rockpalast 1978 – CD/DVD MIG/Made In Germany

Prosegue la doverosa e nutrita serie di pubblicazioni discografiche dedicate a Paul Butterfield: dopo la recente ristampa del doppio Live del 1970 https://discoclub.myblog.it/2019/05/15/uno-splendido-disco-restaurato-e-ristampato-butterfield-blues-band-live/ , alcune registrazioni inedite del periodo anni ’60 con Bloomfield e Bishop, il box dell’opera omnia 1965/1980, il live inedito dei Better Days, ora tocca a questo disco Live At Rockpalast del 1978, che segnò la prima esibizione dal vivo dell’armonicista e cantante americano in Europa, sotto il moniker Paul Butterfield Band. Volendo proprio essere completamente onesti il concerto era giù uscito una decina di anni fa, ma non nel formato CD+DVD, come Blues Rock Legends Vol. 2, però non essendo più disponibile da tempo, chi lo aveva mancato al primo giro potrebbe farci un pensierino in quanto si tratta di un buon concerto che illustra un lato più vicino al rock, al funky, al soul (presenti comunque anche nella versione anni ’70 di Butterfield), oltre all’immancabile blues: e anche la band che accompagna Paul in questo concerto, registrato alla mitica Grugahalle di Essen per la televisione tedesca il 9 settembre del 1978, è abbastanza inconsueta.

Una sezione ritmica “nera” (ma questo era normale fin dagli inizi della Butterfield Blues Band), con Ernest “Boom” Carter, uno dei primi batteristi della E Street Band, e Bobby Vega al basso, partito con il funky di Sly Stone e la jazz-fusion di Ronnie e Hubert Laws, ben due chitarristi elettrici, di quelli tosti, il rientrante Buzzy Feiten, già nella PBBB sul finire degli anni ’60 (Woodstock compresa), e Peter Atanasoff, poi praticante dell’alternative rock negli anni ’90 con Tito & Tarantula ed altri, quindi niente tastiere e fiati. Il suono è perciò più grintoso, duro e tirato rispetto ad altri periodi della formazione. Lo dimostra subito l’iniziale Fair Enough, una gagliarda esplosione di funky-rock, con le chitarrine impazzite di Feiten e Atanasoff, il basso super rotondo di Vega, su cui si innesta l’armonica di Butterfield, un po’ coperta nel mixaggio, ma sempre capace di grandi virtuosismi in questo strumentale; One More Heartache, un brano di Smokey Robinson, era già nel repertorio del gruppo dal lontano 1967, un pezzo soul gioioso virato verso il blues elettrico con maestria, grazie alla voce potente del nostro, con chitarre ed armonica a dividersi gli spazi solisti. Fool In Love, con un wah-wah travolgente, ricorda per certi versi il suono nerboruto della J.Geils Band, rock e blues che vanno a braccetto https://www.youtube.com/watch?v=T0FTz8msonc , per poi stemperarsi nelle classiche 12 battute di una ritmata e solenne New Walking Blues, di nuovo con l’armonica in grande spolvero, anche se il suono rimane decisamente “elettrico”.

La successiva It’s Alright sposa nuovamente l’arena rock, sia pure di qualità, in auge in quegli anni, poco blues, ma una buona ballata struggente. Di nuovo blues-rock con una travolgente Going Down di Don Nix, a tutte chitarre e con un sound ispirato dalla versione di Jeff Beck, anche se l’armonica cerca di farsi strada nell’impeto quasi hard della band, mentre la classica Born Under A Bad Sign di Booker T. via Albert King, è chiaramente ispirata dalla rilettura dei Cream, sempre in modalità hard-rock. Just When I Needed You Most  è una ballata francamente alla camomilla, scritta da Randy VanWarmer e che forse ci poteva essere risparmiata, in quanto non c’entra molto con il passato glorioso di Butterfield, che comunque si riscatta nella conclusiva lunghissima Be Good To Yourself, da sempre uno dei centrepiece dei concerti dell’armonicista di Chicago, dieci minuti abbondanti dove il blues (rock) venato di funky/soul riprende il sopravvento nella dinamica del concerto, tra chitarre fiammeggianti  e l’armonica suonata sempre con vigore https://www.youtube.com/watch?v=dT0K7pgjzgw . Il DVD contiene anche una intervista di 10 minuti. Una delle ultime oneste prove del buon Paul che il 4 maggio dell’87 ci lascerà a causa di una overdose, neppure a 45 anni. Peccato.

Bruno Conti

Una Dichiarazione Di Intenti Sin Dal Titolo: A “Sorpresa” Un Eccellente Disco! Peter Frampton Band – All Blues

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Peter Frampton Band – All Blues – Universal Music Enterprises

Sono passati quasi 50 anni (anzi sono cinquanta proprio quest’anno) dall’uscita del primo album degli Humble Pie (celebrata recentemente anche su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2019/03/25/humble-pie-la-quintessenza-del-rock-agli-inizi-e-poi-un-lungo-lento-declino-parte-i/ ), e per l’occasione Peter Frampton torna al blues, sempre condito da una forte componente rock, ma nell’occasione, visto che si tratta di un album incentrato quasi completamente su una selezione di famosi standard delle 12 battute, ancora più rigoroso, almeno nella scelta del materiale. L’album è attribuito alla Peter Frampton Band, ovvero Adam Lester (seconda chitarra/voce), Rob Arthur (tastiere/chitarra/voce) e Dan Wojciechowski (batteria), nomi direi non celeberrimi, ma…ci sono alcuni ospiti, per certi versi anche sorprendenti, come Kim Wilson, Larry Carlton, Steve Morse e Sonny Landreth, e il risultato mi sembra quello del miglior disco di Peter Frampton, da molto tempo a questa parte, magari con l’eccezione di qualche CD dal vivo celebrativo. Il nostro amico non ha più quei bei boccoli vaporosi che erano un suo tratto distintivo, ma non ha perso il tocco eccellente alla solista, tocco che ne aveva fatto uno dei chitarristi più gagliardi in ambito rock-blues, e pure con le migliori cifre di vendita, grazie all’ottimo Peter Frampton Comes Alive, multidisco di platino con oltre undici milioni di copie vendute, ma poi anche con una serie di altri buoni dischi, soprattutto negli anni ’70.

Ma bando alle nostalgie, anzi forza con la nostalgia, visto che questa volta è per una buona causa, il blues, che sembra essere uno dei generi che stranamente (e per fortuna) non passa mai di moda: I Just Want To Make Love To You era uno dei cavalli di battaglia di Muddy Waters e Etta James, ma l’hanno incisa decine di altri artisti, in ambito rock-blues per esempio i Foghat, e Frampton, nel presentare il disco, ha ricordato che la sua passione per i brani blues è stata rivitalizzata anche dal fatto di averne suonati una manciata a serata, nel recente tour insieme alla Steve Miller Band. La versione del brano appena ricordato si situa giusto al crocevia tra quella classica di Waters, grazie anche alla presenza di Kim Wilson all’armonica, e un suono più grintoso e vicino al rock, in ogni caso una versione sapida e potente, con la ritmica sul pezzo, le tastiere ben inserite, la voce di Peter che si è irrobustita con il passare degli anni e la chitarra che lavora di fino ma anche di forza su uno dei riff più celebrati del genere. She Caught The Katy è è uno standard scritto da Taj Mahal e Yank Rachell, che ricordiamo anche nella versione dei Blues Brothers, la parafrasi (mi è scappato) di Frampton, con la chitarra molto impegnata in continui soli e rilanci, mi ha ricordato, per strane associazioni di idee, un sound alla Jeff Healey, ma anche con rimandi a certo southern rock di qualità, mentre Georgia On My Mind non si può certo definire uno standard blues, o meglio uno standard lo è di certo, e giustamente non potendo misurarsi con la versione di Ray Charles, Frampton decide saggiamente di trasformarlo in una ballata strumentale suadente e struggente, con la sua chitarra che confeziona un assolo dove tecnica e feeling vanno a braccetto con gusto sopraffino, grande assolo.

Can’t Judge A Book By The Cover in origine era stata scritta da Willie Dixon per Bo Diddley, poi negli anni, dai Cactus in giù, è diventato un must anche per i rockers, il nostro amico decide quindi di unire il riff e il drive alla Diddley con un sound più muscolare e tirato, con grande lavoro di slide che ricorda un poco i suoi trascorsi negli Humble Pie; Me And My Guitar, se la memoria non mi inganna era un pezzo di Freddie King, un altro brano ricco d vigore, con la chitarra di Frampton sempre in grande spolvero, a conferma che il tocco magico non si perde con il trascorrere degli anni, ragazzi se suona. E che dire di una ricercata e soave traccia strumentale come All Blues, tutta tecnica e tocco, un duetto jazzato dove Frampton rivaleggia con Larry Carlton a chi è più raffinato nel trattare questo classico di Miles Davis, entrambi ben spalleggiati dal piano di Arthur; eccellente anche la rilettura di The Thrill Is Gone, una fantastica versione di questa meraviglia di B.B. King, rispettosa il giusto, ma con Frampton (ottimo anche a livello vocale) e Sonny Landreth a scambiarsi licks e soli di chitarra con una fluidità quasi disarmante.

E in Going Down Slow, il duetto con Steve Morse, l’atmosfera si fa più rovente, sempre senza esagerare e trasformare il tutto in caciara, le chitarre ci danno dentro alla grande, ma il suono rimane chiaramente e decisamente ancorato al miglior blues elettrico, quasi rigoroso nel suo dipanarsi, con Peter e Chuck Ainlay, che hanno prodotto il disco negli studi Phoenix di Frampton a Nashville, optando per un tipo di suono molto caldo e ben delineato. Altro omaggio a Mastro Muddy in una vibrante I’m A King Bee, la quintessenza del Chicago Blues, anche se forse per l’occasione manca un poco di nerbo, ma è un parere personale e comunque il breve ritorno della chitarra in modalità talk box (giusto un assaggino in ricordo di Show Me The Way) giunge quasi a sorpresa, potremmo dire “Show Me The Waters  https://www.youtube.com/watch?v=NaeNQifZp5I . Gran finale con un altro super classico di Freddie King, la magnifica  ballatona Same Old Blues, suonata quasi alla Clapton https://www.youtube.com/watch?v=EuU1hwJkBRU , con la chitarra che viaggia fluida che è un piacere, ottimo finale per un album veramente bello ed inaspettato, e che mi sento di consigliarvi caldamente.

Bruno Conti

Un Classico Power Trio “Nero” Di Grande Potenza. Dennis Jones Band – WE3 Live

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Dennis Jones Band – WE3 Live – Blue Rock Records

Questo signore nasce a Baltimore nel Maryland nel 1958, quindi I 60 anni li ha passati anche lui: ha vissuto anche in Europa per un periodo e dalla metà degli anni ’80 la sua residenza è a Los Angeles in California. Un curriculum forgiato soprattutto attraverso la permanenza, come secondo chitarrista, nella Zac Harmon Band, poi dagli anni 2000 ha creato un proprio trio la Dennis Jones Band, classico power trio, o meglio forse non classico, visto che sono tre musicisti di colore, comunque suono potente ispirato da Jimi Hendrix era Band Of Gypsys e Srevie Ray Vaughan, oltre che dai grandi nomi del blues, soprattutto quelli dello stile urbano, elettrico. Cinque dischi in studio, e ora questo WE3 Live, registrato alla Brewer Creek Brewery di Wilbaux, Montana, non esattamente una delle mecche della musica live. Comunque il risultato è eccellente, 13 brani originali di Jones e una cover di Born Under A Bad Sign, di un altro Jones, Booker T, e di William Bell, un classico per Albert King (che la registrò anche con Stevie Ray Vaughan), ma anche per i Cream.

Il problema usuale e principale di questi album, per chi non vive negli USA (ma anche lì non devono essere proprio facili da trovare) è purtroppo la reperibilità, ma ormai lo sappiamo, Jones ha anticipato di parecchio questa tendenza sempre più imperante nel mercato indipendente, dandosi alla auto distribuzione sin dagli inizi della carriera solista. Il pubblico presente al concerto non sembra molto numeroso, ma appare entusiasta e soddisfatto da quanto ascolta: Dennis Jones ha anche una bella voce, grintosa e con sfumature ricche di soul, i suoi due soci, Sam Correa al basso e Raymond Johnson alla batteria, formano una sezione ritmica di tutto rispetto; il disco è inciso molto bene, con un suono nitido e ben delineato, e poi c’è il solismo dirompente della  Stratocaster del nostro amico, che mescola impeto ed eccellente tecnica, come è subito evidente fin dalla iniziale Blue Over You, dove le mani di Jones volano sul manico della sua chitarra in modo fluente ed incalzante. In When I Die, un bello shuffle, il timbro vocale ricorda quello di un altro grande “colored” del rock-blues come Phil Lynott dei Thin Lizzy, la chitarra è molto SRV, mentre la lunga Passion For The Blues cita nel testo coloro che lo hanno influenzato negli anni, Robert Johnson, Muddy Waters, Etta James, Johnny Winter, Stevie Ray Vaughan, in una sorta di passaggio di consegne ideale, con la chitarra sempre in grande evidenza, visto che Jones è sì un virtuoso dello strumento, ma non della categoria “esagerati” https://www.youtube.com/watch?v=VtKoUdb2LZI .

Stray Bullet, come l’iniziale Blue Over You è una canzone che verte sulle delusioni d’amore, uno degli argomenti tipici nel blues (e non solo), c’è qualche rimando al Jimi più vicino al R&B, e quindi anche a Robert Cray, nel sound sognante della solista, con la vorticosa Hot Sauce che va a tempo di boogie e cita il riff di Third Stone From the Sun nell’assolo. Don’t Worry About Me è un altro “bluesaccio” ruvido, temprato nel funky e nell’errebì, seguito da Super Deluxe altro shuffle che è un veicolo per il fluido solismo del chitarrista, sempre sulla lunghezza d’onda del grande Jimi; Enjoy The Ride è di nuovo più funky e sensuale, mentre You Don’t Know A Thing About Love ha più di un retrogusto latineggiante, sempre misto a quel soul’n’blues raffinato tipico di molti pezzi di Jones, ma poi esplode nel solito assolo energico. Kill The Pain, nel gioco continuo di citazioni all’interno dei brani, parte con Black Velvet di Alannah Myles e poi ritorna di continuo al suono dell’immancabile Hendrix, fonte continua di ispirazione, Big Black Cat, sempre con la chitarra in overdive, un ritmo intricato e qualche citazione jazzy è un altro ottimo esempio della classe e della tecnica del nostro amico, che ritorna al funky-blues per Devil’s Nightmare, prima di regalarci un altro ottimo shuffle blues nella travolgente I’m Good. In chiusura la citata Born Under A Bad Sign che più che alla versione dei Cream rende omaggio, anche con wah-wah innestato, all’Hendrix febbrile e sfrenato di Voodoo Chile, grande brano comunque e molto bravo questo Dennis Jones.

Bruno Conti

Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte II

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Seconda parte.

Gli Anni Della Consacrazione 1971-1973

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Proprio il 28 e 29 maggio del 1971 vengono tenuti al Fillmore East di New York, quattro concerti leggendari  (due al pomeriggio e due alla sera, allora usava così), più o meno con delle scalette simili, come testimoniato dal cofanetto quadruplo in CD Performance Rockin’ The Fillmore, The Complete Recordings, uscito nel 2017, ma che all’epoca, nel classico formato del doppio album, fu pubblicato a novembre, e che arrivò al 21° posto delle classifiche di Billboard, vendendo più di mezzo milione di copie.

Si tratta di uno dei doppi Live forse meno conosciuti e celebrati di altri anche inferiori come qualità e contenuti, ma gli Humble Pie, ancora con Frampton in formazione, sono agli apici della loro potenza sonora, con un set incendiario che oltre alle riletture già citate di I’m Ready, Stone Cold Fever e Rollin’ Stone, comprende anche svariate altre cover: la breve Four Day Creep di Ida Cox,  che apre le procedure, con ugole spiegate e le chitarre a fronteggiarsi a tempo di boogie, con Ridley e Shirley che rispondono colpo sul colpo alla coppia Marriott/Frampton, dopo I’m Ready e Stone Cold Fever che rivaleggiavano come potenza di fuoco con i migliori Led Zeppelin, arriva una chilometrica, più di 23 minuti, versione di I Walk On Gilded Splinters di Dr. John, che dalle volute voodoo dell’originale si trasforma appunto in una devastante performance rock-blues, che tra lunghe pause, ripartenze improvvise, assoli di armonica e di chitarre strapazzate senza pietà, celebra il rito del rock-blues più focoso ed impulsivo che si poteva vedere all’epoca sui palcoscenici americani.

Dopo i 16 minuti di Rollin’ Stone, più soul che blues, arriva anche HallelujahI Love Her So, il brano classico di Ray Charles che la band piega con impeto ai propri voleri, pur mantenendo lo spirito dell’originale, per poi chiudere con un altro brano dal repertorio del “Genius”, una incandescente I Don’t Need No Doctor, piena della furia rock’n’rollistica di Steve Marriott, allora 24enne e non ancora provato dagli stravizi con alcol e droghe che da lì a poco gli faranno perdere il filo della storia.

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Ma nel 1972 tutto funziona ancora alla grande: Dave “Clem” Clempson, arrivato in precedenza dai Colosseum per sostituire Frampton nel tour europeo (approdato anche a luglio del 1971 al Vigorelli di Milano, pochi giorni dopo la mattanza dei Led Zeppelin, come spalla dei Grand Funk Railroad), si limita ad essere la seconda chitarra, mentre quasi tutte le composizioni di Smokin’ (****) sono di Steve Marriott, ed il disco, registrato a febbraio, esce a marzo ‘72, entrando per la prima volta al n° 6 negli States e al 20° posto in Inghilterra.

Diventando il loro disco di maggior successo ed enfatizzando quel tipo di sound su cui i Black Crowes hanno costruito, meritatamente, metà della loro carriera (l’altra metà con i Led Zeppelin, e qualche tocco di Faces): il disco è prodotto dallo stesso Steve che però comincia ad avere problemi di salute al termine delle registrazioni, dove spiccano il rock’n’soul con wah-wah di Hot’n’Nasty , il blues carico e selvaggio di The Fixer, la splendida ballata tra soul e gospel You’re So Good For Me con Doris Troy e Madeline Bell alle armonie vocali, con finale estatico https://www.youtube.com/watch?v=0L_AcS6zBSs .

C’mon Everybody di Eddie Cochran viene rallentata ad arte, ma è sempre di una potenza inaudita con Marriott che canta come un uomo posseduto dal R&R, Old Time Feelin’ è un blues acustico cantato da Ridley, con Alexis Korner al mandolino, mentre nella cover di Road Runner/Road Runner’s ‘G’ Jam, c’è Stills ospite alla chitarra, e non possiamo dimenticare 30 Days In The Hole, uno dei loro brani più famosi, a  tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=sdXjm8pZMws , di cui ricordo una versione gagliarda dei Gov’t Mule, per non parlare di un lungo slow blues formidabile come I Wonder, con assolo di wah-wah da sballo https://www.youtube.com/watch?v=KE1y1AUoQrs .

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Eat It (***1/2), un altro doppio album, esce nella primavera del 1973, registrato nello studio casalingo di Marriott, è ancora un successo nelle charts americane, dove arriva fino al 13° posto, un disco che impiega in pianta stabile le Blackberries,  un trio composto da Venetta Fields, Clydie King e Sherlie Matthews, e che accentua l’anima R&B e soul della band, senza tralasciare il rock: il disco alternava una facciata di pezzi di Marriott, una di cover, di nuovo pezzi originali e poi cover, tra i pezzi di Steve molto buone l’iniziale Get Down To It, la dichiarazione di intenti Good Booze & Bad Women, la melliflua Is It For Love, l’ondeggiante Drugstore Cowboy, la vibrante Black Coffee di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=oqWNGNRX_4s , e le sofferte I Believe To My Soul di Ray Charles e That’s How Strong My Love is, famosa nella versione di Otis Redding, ma l’hanno incisa anche gli Stones, che Marriott omaggia poi con una Honky Tonky Women scintillante, tratta dalla quarta facciata del disco, registrata dal vivo a Glasgow, concerto che si conclude con una versione monstre di oltre 13 minuti di Road Runner dove le chitarre di Clempson e Marriott ruggiscono con forza.

L’inizio della fine 1974-1975

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Nel  febbraio del 1974 esce Thunderbox (***), ancora un buon album che ha un discreto successo negli USA, ma in Inghilterra non viene neppure pubblicato: sette cover e cinque originali, ancora con la presenza delle Blackberries (dove è rimasta solo la Fields) e Mel Collins ospite al sax, la title track potrebbe passare con il suo riff e per il cantato di Marriott, per un brano degli AC/DC se decidessero di darsi al R&B, buone le cover di I Can’t Stand The Rain di Ann Peebles e della delicata Anna Go To Him di Arthur Alexander, che avevano fatto anche i Beatles, la voce di Steve è sempre eccellente ma il suono non è più quello potente dei dischi precedenti, fin troppo annerito e funky, comunque Ninety-Nine Pounds, Every Single Day e la cover bluesy con uso slide e armonica di No Money Down di Chuck Berry non dispiacciono.

Con la stonesiana Oh La-De-Da che ha lampi del vecchio splendore. In quel periodo Steve Marriott si candida ad entrare appunto negli Stones in sostituzione di Mick Taylor, ma ovviamente, per i problemi di compatibilità con un altro cantante non male, tale Mick Jagger, non se ne fa nulla. Anche il disco solista di Marriott registrato nei ritagli di tempo, tra un disco degli Humble Pie e l’altro, viene “confiscato” dalla A&M e i nastri appaiono ai giorni nostri nell’orrido album della Cleopatra intitolato Joint Effort, di cui leggete in altra parte del blog https://discoclub.myblog.it/2019/03/11/dischi-cosi-brutti-negli-anni-70-non-li-avrebbero-mai-pubblicati-ma-oggi-purtroppo-si-humble-pie-joint-effort/ . Nel frattempo Steve, che comincia a da avere grossi problemi con alcol e droga, di ritorno da un ennesimo tour negli Stati Uniti, scopre che non ci sono più soldi sul conto in banca, e quindi su sollecitazione del manager Dee Anthony decide di registrare un altro disco per la A&M, con la produzione e soprattutto il mixaggio del rientrante Andrew Loog Oldham.

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Il risultato finale del disco pubblicato non piace a nessuno all’interno della band e in effetti Street Rats (*1/2) che esce nel febbraio del 1975 è piuttosto bruttarello: forse, e dico forse, si salvano le tre cover “soulizzate” di brani dei Beatles, We Can Work It Out, Rain e Drive My Car, anche se quest’ultima drammatizzata e cantata da Ridley è alquanto penosa, Greg canta anche con risultati disastrosi Rock And Roll Music di Chuck Berry e altri tre brani. Dopo il tour di addio la band si scioglie, anche se si parla brevemente di proseguire con Bobby Tench, il vecchio cantante del Jeff Beck Group Mark II, ma non se ne fa nulla.

La Reunion Di Inizio Anni ’80.

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Però alla fine del 1979, proprio con Tench come secondo vocalist e chitarrista, e il nuovo bassista Anthony “Sooty” Jones, decidono di provarci ancora e registrano non uno ma ben due album, che in America escono per la Atco, mentre in Inghilterra, per la serie le sfighe non finiscono mai, vengono pubblicati dalla Jet Records di proprietà del primo manager degli Small Faces,  quel Don Arden (babbo di Sharon, la moglie di Ozzy Osbourne): On To Victory (**) esce nel 1980 e non è neppure orribile come Street Rats,  ma solo un filo migliore; la voce di Marriott è ancora il suo principale atout,però il sound per lunghi tratti è confuso e pasticciato, salverei forse Baby Don’t You Do It, un vecchio brano Motown, che faceva anche la Band e la struggente cover di My Lover’s Prayer dell’amato Otis Redding, ma gli anni ’80 sono iniziati e dal sound si sente, anche se il disco almeno vende.

Go For The Throat (**) , il loro decimo e ultimo album, che viene pubblicato a giugno 1981, non è molto meglio: c’è giusto un po’ di energia superiore nell’iniziale All Shook Up, dove quantomeno le chitarre si fanno sentire, e si salva anche la ripresa della vecchia Tin Soldier degli Small Faces che entra in classifica, e negli altri brani, anche se non c’è di nulla di memorabile almeno sembra che ci sia una maggiore convinzione e grinta, con le chitarre che a tratti ringhiano come ai vecchi tempi. Ma durante la tournée promozionale Marriott si ammala, scopre di avere l’ulcera e quindi le date rinviate, vengono poi cancellate e la casa discografica li scarica.

Una fine ingloriosa. Dopo alcuni anni difficili in cui si ritira nel circuito dei clubs e dei pubs, Marriott agli inizi degli anni ’90 contatta Frampton per scrivere alcune canzoni nuove ed un tentativo di reunion degli Humble Pie, ma il 20 aprile del 1991, Steve Marriott muore orribilmente nell’incendio che distrugge il suo cottage, causato forse da una sigaretta dimenticata accesa prima di andare a dormire. Stendiamo un velo pietoso sul tentativo di reunion del 2002 con l’album Back On Track, dove Ridley e Shirley, ancora una volta con Bobby Tench, tentano di far rivivere il vecchio marchio.

Meglio andarsi a cercare alcuni degli album dal vivo postumi pubblicati nel corso degli anni: Natural Born Boogie del 2000 con le vecchie BBC Sessions, il Live At The Whisky A Go-Go ’69 con un concerto strepitoso, solo 5 brani ma epici, uscito su CD nel 2000 per la Sanctuary, magari anche In Concert con il King Biscuit Flower registrato al Winterland di San Francisco nel 1973. E per i completisti più scatenati i due box della serie Official Bootleg, il primo da 3 CD e il secondo da 5 CD, la qualità sonora non è sempre eccellente, ma ci sono alcune performances memorabili.

That’s All.

Bruno Conti

Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte I

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Quando nel gennaio del 1969 Steve Marriott, avendo appena terminato la sua avventura con gli Small Faces, decide di dare l’avvio ad una nuova band, ovvero gli Humble Pie, il musicista londinese ha da poco compiuto 22 anni, ma è tutti gli effetti un veterano sia del pop che del nascente rock britannico. Con gli Small Faces ha avuto un successo clamoroso, sia a livello di singoli che di album, ma in quattro anni di carriera intensa, a causa di uno sciagurato contratto firmato ad inizio carriera con Don Arden, e nonostante fosse anche un icona dello stile Mod e, si mi passate il bisticcio, della moda di Carnaby Street, Marriott si rende conto che il suo conto in banca non è particolarmente florido. E nonostante il passaggio con la Immediate di Andrew Loog Oldham le cose non erano migliorate di molto, quindi dopo l’uscita dello storico album Ogdens’ Nut Gone Flake, che rimane al primo posto della classifica inglese per sei settimane nell’estate del 1968 https://discoclub.myblog.it/2018/12/31/correva-lanno-1968-6-la-ristampa-speriamo-definitiva-di-un-piccolo-capolavoro-small-faces-ogdens-nut-gone-flake-50th-anniversary/ , e riceve anche giustamente critiche entusiaste per il suo stile psichedelico a cavallo tra rock e pop, il nostro amico decide che è tempo di voltare pagina, insoddisfatto della sua immagine troppo legata al pop imperante (per quanto di sopraffina fattura, aggiungo io, ma questa è un’altra storia), proprio durante il concerto di Fine Anno abbandona il palco per iniziare una nuova avventura.

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Gli Immediate Years.
Solo che commette un errore madornale: rimane con l’etichetta di Loog Oldham, ex manager degli Stones, e firma quindi un nuovo contratto con la Immediate Records, che però all’insaputa di Steve versa in cattive acque, visto che già in precedenza non aveva pagato molte delle royalties dovute agli Small Faces per le loro vendite, ma evidentemente questo lo si saprà solo sul finire del 1970, quando l’etichetta andrà in bancarotta. All’inizio dell’anno 1969 nasce però questa sorta di supergruppo (uno dei primi) formato oltre che da Marriott, da Peter Frampton, che non ha ancora compiuto 19 anni, ma è reduce dal successo di una band come gli Herd, con tre Top 20 nelle classifiche, benché molto legata, almeno nella visione di Peter, al pop adolescenziale (per quanto non fossero poi così male, ma anche i Beatles e gli Stones agli inizi non erano completamente soddisfatti della loro immagine).

Insieme a loro il bassista Greg Ridley, che arriva dagli Spooky Tooth, e il giovanissimo batterista Jerry Shirley, che di anni non ne aveva ancora compiuti 17. I quattro entrano negli Olympic Studios di Londra sotto la guida del produttore Andy Johns, fratello del leggendario Glyn, e a sua volta uno dei talenti emergenti in quel campo: per l’occasione iniziano a registrare vario materiale che poi verrà pubblicato nei due album e nel singolo di esordio Natural Born Bugie, che però arriva nei negozi solo ad agosto, preceduto dalle uscite di altre band affiliate a quel nuovo heavy-blues-rock che sta prendendo piede in Inghilterra (ma anche e soprattutto negli Stati Uniti), come quello di Free e Led Zeppelin, questi ultimi guidati dalla voce di Robert Plant, da sempre grande fan di Steve Marriott, fin dai tempi degli Small Faces, di cui gli Zeppelin avevano “utilizzato” il brano You Need Loving (a sua volta una “riscrittura” di un pezzo di Willie Dixon per Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=tp0jZ4BGuDw ) in cui Plant, che lo ammise all’epoca, utilizzava un fraseggio vocale molto simile a quello di Marriott, che però non se la prese più di tanto.

Il singolo arrivò al 4° posto delle classifiche inglesi, ma il successo americano, come era stato per gli Small Faces, rimase una chimera. Comunque il singolo era già un ottimo esempio del rock sanguigno a doppia chitarra solista della band, cantato a turno dai due chitarristi e dal bassista, anche se firmato dal solo Marriott, ha qualche parentela sia con Get Back dei Beatles, per l’uso del piano elettrico, che con il nascente rock-blues, grazie alla voce negroide e potente di Steve. Il primo album As Safe As Yesterday Is (****) esce sempre ad agosto, ma arriva solo al 32° posto delle classifiche UK e ha zero successo negli States: dove però in una ottima recensione su Rolling Stone del 1970, firmata dal futuro punk negli Angry Samoans Mike Saunders, viene usato per una delle prime volte il termine heavy metal. Anche se l’album non è tra i più “duri” degli Humble Pie, che però in molti brani iniziano a “riffare” a destra e a manca, con grande forza e classe, mentre in altri indulgono in un folk-rock pastorale, post mod sound modificato e spunti dei sempre amati da Marriott, blues e soul: il disco, a mio modesto parere, è uno dei loro migliori in assoluto, la title track è un pezzo epico, di grande intensità, e anche Bang ha una forza devastante con le chitarre che mulinano, mentre Ridley pompa il basso alla grande e Shirley picchia come un disperato sui tamburi.

I’ll Go Alone ha un riff devastante simile a quello di Communication Breakdown degli Zeppelin, chi ci sarà arrivato prima https://www.youtube.com/watch?v=9_fBvAbf5d8 ? Mentre Alabama ’69 ha una prima parte folk-blues in linea con il titolo, poi con sitar e flauto aggiunti siamo in pieno trip tra orientale e pastorale; e all’inizio del disco c’è una cover fantastica di Desperation degli Steppenwolf (non a caso i primissimi a usare il termine heavy metal in Born To Be Wild https://www.youtube.com/watch?v=egMWlD3fLJ8 ) , cantata a piena ugola da Marriott, senza dimenticare lo psych-rock di Stick Shift con Marriott alla slide, la trascinante Butter Milk Boy, sempre con le twin guitars assatanate, insomma si fatica a trovare un brano debole, con Peter Frampton che anche a livello vocale risponde colpo su colpo. A differenza del precedente disco, Town And Country (***1/2), esce a sorpresa a  novembre sempre del ’69, sulle more dei grossi problemi della casa discografica, che lo pubblica sperando di bloccare la procedura di bancarotta.

Ma il disco, senza promozione, praticamente sparisce subito dai negozi: peccato perché l’album, concepito nel cottage di Arkesden, una dimora del 16° secolo, l’unica proprietà rimasta a Steve Marriott (credo la stessa dove troverà poi la morte nell’incendio appunto della sua casa nell’aprile del 1991), era diverso dal precedente, a tratti più morbido, ma non privo delle sferzate hard-rock tipiche della band, per parte della critica fu addirittura superiore al primo, che comunque il sottoscritto preferisce. Tra i brani da ricordare la raffinata ballata acustica Take Me Back di Peter Frampton, la bluesata The Sad Bag Of Shaky Jake, un brano di Marriott che i Black Crowes avranno sicuramente apprezzato, il blue eyed soul di Cold Lady, il rock-blues della gagliarda Down Home Again, l’intimista Every Mothers’ Son ancora di Steve, la potente cover di Heartbeat di Buddy Holly, la quasi psichedelica Silver Tongue e la quasi west-coastiana Home And Away https://www.youtube.com/watch?v=LG8VhDzP_LE .

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Gli Anni ” Americani”,  prima parte

Nel 1970 arriva un nuovo manager Dee Anthony, e una nuova etichetta americana, la A&M: il primo disco l’omonimo Humble Pie (***1/2), sempre prodotto da Glyn Johns e sempre registrato agli Olympic Studios di Londra, contiene anche una deliziosa ballata country-folk come la satirica e autoironica Theme from Skint (See You Later Liquidato)r di Steve Marriott, ovvero “Tema di Sono Al Verde (Ci Vediamo più Tardi Liquidatore! https://www.youtube.com/watch?v=cNK2Wc284E0 ), ed è un disco interlocutorio, ma comunque di buona fattura, che contiene un brano notevole come la loro cover di I’m Ready, dell’accoppiata degli amati Dixon/Waters, che sarà un cavallo di battaglia dei loro infuocati concerti negli USA.

Ottime anche l’iniziale Live With Me, una lunga rock ballad dalle atmosfere sospese, la delicata Only A Roach, una ode alla cannabis a tempo di country, con BJ Cole alla pedal steel, la dura e tirata One Eyed Trouser Snake Rumba, tipica del loro sound, mentre il lato più gentile e sognante è rappresentato dalla eterea Earth and Water Song, scritta da Peter Frampton, che lavora anche di fino alla sua elettrica, mentre il boogie-blues potente di  Red Light Mama, Red Hot!, ancora di Marriott, illustra il lato più sanguigno della band e l’ottima Sucking on the Sweet Vine di Greg Ridley, che la canta, sembra quasi un brano dei Genesis o dei King Crimson.

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L’anno successivo, a marzo del 1971, sempre registrato a Londra con Glyn Johns, esce Rock On (****), il primo disco a fare capolino nelle classifiche americane, solo al 118° posto, ma è un inizio, poi alimentato da una serie di concerti fantastici sul suolo americano che ne alimentano la leggenda di rockers intemerati: il disco contiene Shine On di Frampton, che poi farà parte del suo repertorio futuro (anche in Frampton Comes Alive), con tre formidabili vocalist aggiunte come P P Arnold, Doris Troy, Claudia Lennear, ma soprattutto i futuri cavalli di battaglia dal vivo, la devastante Stone Cold Fever, con un riff memorabile, e la epica Rollin’ Stone di Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=ys-AXAry3Yk , con l’aggiunta delle robuste Sour Grain e Strange Days, della delicata A Song For Jenny, dedicata alla prima moglie di Marriott (inseguita a lungo), del funky-rock di The Light, ancora di Frampton, che sembra quasi un brano dei Little Feat, completano un album tra i loro migliori in assoluto.

Fine della prima parte, segue…

Bruno Conti

Niente Di Nuovo All’Orizzonte, Ma Suonato Con La Solita Classe. Robin Trower – Coming Closer To The Day

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Robin Trower – Coming Closer To The Day – Mascot/Provogue

Torna Robin Trower, il grande chitarrista inglese, uno dei migliori rappresentanti di quello stile a cavallo tra rock e blues che da sempre è il suo marchio di fabbrica: per il disco n°23 di studio della sua lunga carriera, più una decina di live, un decina di compilations e cinque album con l’amico scomparso Jack Bruce (d’altronde Trower ha compiuto 74 anni in questi giorni e i suoi inizi, prima con i Paramounts e poi con i Procol Harum, risalgono a circa la metà anni ’60), Robin ha deciso di accasarsi con una nuova etichetta, la Mascot/Provogue, che ormai sta cercando di rastrellare in giro per il mondo il meglio di quanto prodotto in ambito rock/blues. Non che questo significhi sostanziali cambiamenti di stile nel suo approccio, la formula è quella solita del power trio (anche se Trower in questo nuovo Coming Closer To The Day, come aveva fatto nel precedente Time And Emotion https://discoclub.myblog.it/2017/05/29/passa-il-tempo-ma-le-emozioni-rimangono-anche-senza-i-vecchi-amici-robin-trower-time-and-emotion/ , suona anche le parti di basso, lasciando al batterista Chris Taggart la parte ritmica principale), liquido e sognante, con le influenze hendrixiane sempre ben presenti, e il lavoro pregevole della immancabile Fender Stratocaster che è il suo fiore all’occhiello da sempre.

Registrato lo scorso anno allo Studio 91 di Newbury, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Sam Winfield, il disco presenta dodici nuove composizioni di Trower che riflettono filosoficamente sull’inesorabile scorrere del tempo, perché come ricorda lui stesso sin dal titolo dell’album  “Ormai mi trovo più vicino alla fine che all’inizio, ma questo non mi spaventa…”. In effetti sin dalla iniziale Diving Bell, dall’incedere lento e maestoso, il nostro amico ribadisce quello stile unico che per certi versi ne ha fatto una sorta di erede del Jimi Hendrix più “spaziale” ed estatico, con il pedale del wah-wah subito impegnato ad estrarre dalla sua solista quelle note lunghe e ricche di feeling che sono da sempre il suo tratto più caratteristico. Truth Or Lies ha un gusto più mosso e vicino al R&B classico, anche se la voce “ringhiante” e pigra di Trower, come al solito, non è particolarmente memorabile, pure se la chitarra “rimedia” abbondantemente, come ribadisce la title-track Coming Closer To The Day, dove il lavoro della solista è variegato e ricco di inventiva, anche se forse nell’album complessivamente,  al di là di qualche eccezione, non ci sono brani memorabili.

Una delle eccezioni è proprio lo splendido slow blues intenso e lancinante proposto nella notturna Ghosts, dove Robin lascia libero sfogo alla propria ispirazione “inimitabile”; Tide Of Confusion è il presunto singolo che ha preceduto l’album, un po’ più mossa e “commerciale” vagamente alla ZZ Top e con una voce femminile a contrappuntare quella di Trower. The Perfect Wrong è un altro rock-blues di quelli più cattivi, con un riff marcato e qualche parentela ai Dire Straits del periodo di mezzo, con il wah-wah mordente che è ancora una volta il punto di forza della canzone, Little Girl Blue è una ballata sospesa e assorta, raffinata e con un tocco jazzy, con Someone Of Great Renown più scandita e grintosa, ma come molti altri pezzi poco incisiva, al di là del lavoro chitarristico che è sempre al centro della costruzione melodica, mentre Lonesome Road, una riflessione sulla vita in giro per il mondo a suonate la propria musica, è nuovamente un blues lento dove viene fuori il classico suono hendrixiano del miglior Trower, ricco di maestria e tecnica sopraffina. E pure Tell Me è una ennesima (piccola) variazione sul tema, con Don’t Ever Change che lo denuncia anche nel titolo e nel suono, così come la conclusiva Take Me With You. Quindi solita musica, buona e suonata con classe, ma niente di nuovo all’orizzonte.

Bruno Conti

Il Blues Rocker Greco Ci Mancava! Sakis Dovolis Trio – Cross The Line

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Sakis Dovolis Trio – Cross The Line – Grooveyard Records  

Bisogna ammettere che la Grecia, a livello di musica rock, non sia mai stata una delle nazioni più presenti: ci ricordiamo tutti gli Aphrodite’s Child di Demis e Vangelis, ma poi per il resto, almeno per me, è notte fonda su tutta la linea. A parte le terribili vicissitudini finanziarie con UE e Fondo Monetario, i nostri vicini ellenici si sono fatti notare a livello sportivo con il tennista emergente Stefanos Tsitsipas, e adesso ci provano di nuovo con il chitarrista Sakis Dovolis, un buon esponente del classico Power Trio style. Il musicista greco, almeno all’ascolto di questo Cross The Line, mi sembra appartenere alla categoria dei solisti “esagerati”, quelli che tecnicamente sono indubbiamente proficienti, ma dove potrebbero bastare poche note, ce ne infilano in quantità spropositate, suonate a velocità supersoniche, spesso  a discapito del feeling e del gusto, che non sempre sono tra i loro principali attributi.

E’ vero che nel power trio è richiesta molta “forza bruta”, ma maggiori finezza e varietà non guasterebbero, specie se dici di ispirarti a gente come Jimi Hendrix o al suo “erede” Srevie Ray Vaughan. Nel caso di Sakis Dovolis e del suo trio, anche l’etichetta per cui esce questo disco indica la direzione musicale: per  la Grooveyard Records, il cui motto è “The Sound Of Guitar Rock”, infatti incidono gruppi e solisti che si ispirano parecchio all’heavy rock degli anni ’70, oltre che al power trio classico, ma anche blues-rock molto robusto, virtuosi della 6 corde, quindi pure questo disco fa parte della categoria. Poi ce ne sono di più bravi e meno bravi, vediamo Dovolis in che categoria di “virtuosi” rientra. Da qualche parte ho visto paragoni con il suono degli Screamin’ Cheetah Wheelies, ma quella band era molto più varia e poi aveva un cantante portentoso nella persona di Mike Farris, mentre il nostro Sakis, per quanto sia cantante diciamo adeguato, non è certo a quei livelli: disco autarchico greco, prodotto dallo stesso Dovolis con Stavros Papadopoulos, sezione ritmica Fotis Dovolis (parente?) al basso, e Nick Kalivas alla batteria, il disco parte con un brano All Over You, che per dirla con un personaggio di Abatantuono è “Viulenza” sonora pura, fatta comunque abbastanza con costrutto, anche qualche spunto melodico qui e là, inframmezzato tra scale velocissime.

 

Già in Come On Dovolis innesta a manetta il pedale wah-wah e le influenze di Jimi sono ancora più evidenti,  Everything è più funky e ricca di groove, ma gli assoli sono sempre “carichi”, come pure in I’m An Angel che si avvicina alle scorribande di Stevie Ray Vaughan, al quale è esplicitamente dedicata la conclusiva Legacy, un raro lento brano strumentale dove oltre alla fluente tecnica del chitarrista greco si apprezza anche un tratto di maggiore finezza e feeling https://www.youtube.com/watch?v=_VAO_lKkts4 . Prima c’è spazio anche per un tuffo nei territori sudisti dell’unica cover del disco, una Nasty Dogs & Funky Kings targata ZZ Top dove il southern boogie dei texani viene ancora più caricato di elementi hard; Cross The Line, dopo un abbrivio più bluesy è sempre molto orientata verso un rock a tratti scontato, per quanto ben suonato e con assoli come piovesse. Insomma siamo dalle parti di chitarristi come Lance Lopez, Phillip Sayce, Eric Gales, quelli che vivono a pane, Hendrix e Vaughan, come ribadisce una violentissima Burn It Down, oppure il sinuoso strumentale sempre a tutto wah-wah Shades Of Blue https://www.youtube.com/watch?v=8-glSCK7nl0 , mentre nella incalzante Show Me Your Love si insinua qualche raffinato  tocco funky-jazz, ma è un attimo e siamo di nuovo all’hard rock quasi di marca Black Sabbath della rocciosa Devil’s Road. Direi che è tutto: complessivamente disco “duretto” ma di buona qualità, se amate il genere.

Bruno Conti