Joe Bonamassa – L’Erede Di Eric Clapton O “Solo” Un Grande Chitarrista? Parte II

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Seconda Parte

La Carriera Solista Seconda Parte 2010-2010, Gli Anni Della Consacrazione: Black Country Communion, Collaborazioni Con Beth Hart, Rock Candy Funk Party, Sleep Eazys

A marzo esce il primo disco della nuova decade

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Black Rock – 2010 Mascot Provogue ***1/2 Registrato appunto ai Black Rock Studios nell’isola greca di Santorini il disco sancisce anche il successo commerciale della musica di Bonamassa in giro per tutto il mondo: ancora un brano alla Led Zeppelin come Steal Your Heart Away del bluesman Bobby Parker apre il CD, seguito da una canzone di John Hiatt (per un breve periodo anche lui “cliente” di Shirley) I Know A Place, anche questa duretta, Quarryman’s Lament, influenzata dal folk greco, prevede l’uso di flauto e bouzouki, mentre Spanish Boots, uno dei classici di Jeff Beck, è un altro potente rock-blues. Tra le altre cover, interessanti quelle di Bird On A Wire di Leonard Cohen, di nuovo con elementi folklorici e un violino insinuante, mentre Three Times A Lady di Otis Rush è un solido blues shuffle, e ottima pure la cover di Night Life di Willie Nelson, che vede la presenza di una ancora pimpante B.B. King, e un ottimo uso di fiati e archi, per non parlare della vivace Look Over Yonder’s Wall, un pezzo di Freddie King e il blues anni ‘20 Baby You Gotta Change Your Mind di Blind Boy Fuller e interessante la di nuovo acustica e cooderiana Athens To Athens. Per mantenere la media dei due dischi all’anno a fine anno esce anche il primo album dei Black Country Communion, il supergruppo formato con Glenn Hughes, di Trapeze e Deep Purple, Jason Bonham e Derek Sherinian dei Dream Theater, disco per certi versi anticipato dalle sonorita hard rock di alcuni brani di Black Rock. Li vediamo tutti quattro insieme qui sotto (anzi 5 compreso il Live).

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Black Country Communion – 2010 Mascot Provogue ***1/2 Il sound è evidentemente un omaggio a quello delle classiche band hard rock anni ‘70, in primis Led Zeppelin e Deep Purple: Glenn Hughes, basso e voce è la forza trainante della band, scrive quasi tutti i testi delle canzoni, mentre la musica appartiene ad entrambi, con qualche aiuto dagli altri, come direbbe Abatantuono “viulenza”, Hughes è un ottimo cantante, superiore a Bonamassa, specie nel genere, Joe che “si limita” a suonare la chitarra, sfogando tutta il suo amore per la musica hard, non tutto nel disco brilla, e gli odiatori del Bonamassa “casinaro” stiano a distanza, ma The Great Divide un brano tra Gary Moore e Deep Purple, la lunga cover di Medusa dei Trapeze, un pezzo dall’anima prog, Song Of Yesterday, firmata da Hughes e Bonamassa, tra Zeppelin, Free e qualche citazione Hendrixiana, non sono male, come pure la lunghissima canzone corale conclusiva Too Late For The Sun, oltre 11 minuti, con Bonamassa e Sherinian a dividersi gli spazi solisti, specie nella estesa coda strumentale.

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Black Country Communion 2 – 2011 Mascot Provogue ***1/2 il canovaccio è quello, lo stile sonoro pure, i quattro picchiano sempre come fabbri, qualche variazione sul tema in Faithless, con il suono della chitarra di Joe che rimanda ai Cream, ma Hughes è sempre dalle parti di Purple e Zeppelin, mentre An Ordinary Son è un tributo alla famiglia di Bonamassa, che lo ha sempre sostenuto nella sua carriera, notevole pure il blues lancinante Little Secret: questo è quello che avevo scritto sul disco nella mia recensione dell’epoca “In definitiva: derivativo, già sentito mille volte, con tanti assoli, una voce sopra le righe, tutti gli ingredienti di un disco di musica rock, va bene, hard rock, ma ogni tanto ci vuole”, confermo. Neanche un anno ed ecco che esce, il doppio dal vivo (ma era già uscito a fine 2011 il DVD)

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Live Over Europe – 2012 Mascot Provogue ***1/2 stesso discorso dei precedenti, con un paio di cover aggiunte al menu https://www.youtube.com/watch?v=w82V4gsSW-4 : Burn dei Deep Purple, mentre Sista Jane cita nella coda Won’t Get Fooled Again degli Who e Bonamassa riprende la propria The Ballad Of John Henry. A fine anno esce il terzo album di studio, Bonamassa impegnato anche nella sua carriera solista appare poco come autore e anche il suo rapporto con Hughes inizia a deteriorarsi (tradotto, i due non si possono più vedere).

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Afterglow – 2012 Mascot Provogue ***1/2 Prendo di nuovo a prestito quanto scritto dal sottoscritto all’epoca: “Niente di nuovo, ma solo del sano buon vecchio rock, suonato come Dio comanda, vedremo se sarà il loro ultimo capitolo. Nella prima tiratura c’è anche un DVD con il making of e quattro video delle canzoni”. Fine della prima fase, dopo essersene dette di tutti i colori sembrava che la storia fosse finita, e invece

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Black Country Communion IV -2017 Mascot Provogue Mi faccio aiutare ancora dal mio amico che vedo tutte le mattine allo specchio, che scrisse “Con una certa dose di autoironia, il banner che annuncia l’uscita del nuovo album dei Black Country Communion recita, lo riporto in inglese perché fa più scena: “They Said It Would Never Happen!”. E invece è successo, dopo la brusca separazione del 2012, dovuta a quelle che erano state appunto definite inconciliabili divergenze tra Joe Bonamassa e Glenn Hughes, torna il quartetto anglo-americano (Hughes e Bonham sono inglesi) con un quarto album che, forse in omaggio ad una delle loro fonti di ispirazioni sonore, si intitola BCC IV”. Le tre stellette e mezza costanti di tutti gli album, sono ovviamente dirette agli amanti del genere. Nel frattempo il nostro amico, sempre più bulimico a livello discografico nel 2011, a inizio anno, pubblica anche

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Dust Bowl – 2011 Mascot Provogue ***1/2 un altro disco accolto da ottime critiche, con un sound per certi versi più rootsy, visto che il lato più rock lo sfogava con i BCC. Nella gagliarda Slow Train un ottimo blues-rock va di slide alla grande, mentre nella title track ci sono citazioni morriconiane e qualche tocco folk grazie all’uso di strumenti della tradizione greca, nella parte del disco registrata a Santorini. Bellissimo il duetto con John Hiatt nella deliziosa Tennessee Plates e anche quello con Vince Gill nel country-blues Sweet Rowena che mi ha ricordato molto certe cose di Lyle Lovett. Visto che nel 2011 erano pappa e ciccia ce n’è anche uno con Glenn Hughes in una eccellente Heartbreaker dal repertorio dei Free. Kevin Shirley, di cui spesso si dimentica l’importanza nelle scelte di Bonamassa, produce da par suo, con un suono molto ben delineato e sempre “vivo”: ovviamente non mancano i pezzi blues, come The Meaning Of The Blues, un originale di Joe, e la cover di You Better Watch Yourself di Little Walter. Tra le “stranezze” di un musicista che è anche un music lover e ama tutti i generi, pure la rilettura di un altro pezzo di Tim Curry, come l’intensa No Love On The Street, dove va di wah-wah alla grande e una canzone di Barbra Streisand (?!?) Prisoner trasformata in una incantevole blues ballad.

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E per citare un modo di dire, non c’è il due senza il tre, nel corso dell’anno esce il frutto di una nuova collaborazione, questa volta con una grande voce femminile, ovvero Beth Hart, un incontro che gioverà a tutti e due, la cantante californiana si trova un grande chitarrista e il musicista newyorchese una delle più valide voci del panorama rock attuale, con la quale esplorare anche soul, R&B, canzone d’autore e standard della canzone americana. Vediamo a seguire gli album registrati insieme, partendo da

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Don’t Explain – 2011 Mascot Provogue ***1/2 Complessivamente 3 stellette e mezza, ma nel CD ci sono alcuni brani dove la chimica tra i due fa apparire delle piccole perle, che poi si ripetono anche negli album successivi: qui vorrei ricordare Sinner’s Prayer un pezzo di Ray Charles, dove sembra di ascoltare l’accoppiata Rod Stewart/Jeff Beck, con Joe al bottleneck e il nuovo tastierista Arlan Schierbaum in grande spolvero, Chocolate Jesus di Tom Waits dove la voce ricorda molto quella di Mary Coughlan, la jazzata e soffusa Your Heart Is As Black As Night di Melody Gardot, Don’t Explain di Billie Holiday, cantata con grande trasporto, e a proposito di grandi voci la cover di I’d Rather Go Blind di Etta James è fenomenale, quasi alla pari con l’originale, e con un assolo superbo di Bonamassa, uno dei migliori della sua carriera, ottima anche Ain’t No Way dove la Hart si misura anche con Aretha Franklin, e lì si soccombe, dopo una strenua difesa, sulle ali della slide di Joe.

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Seesaw 2013 Mascot/Provogue ***1/2 L’istinto mi direbbe di aggiungere mezza stelletta al giudizio per ogni disco, ma mi trattengo per riservarlo al doppio dal vivo. Anche qui parecchi brani fantastici: lo swing di Louis Armstrong Them There Eyes, fiati in spolvero e Beth Hart che fa la gattona, una Nutbush City Limits dove l’accoppiata Joe e Beth rivaleggia con la soul revue di Ike & Tina Turner, la super blues ballad I’ll Love You More Than You’ll Ever Know, scritta da Al Kooper e con un assolo da manuale di Bonamassa, una intensa Strange Fruit di Billie Holiday, e di nuovo l’accoppiata Etta ed Aretha in A Sunday Kind Love e Seesaw dove la Hart si supera come interprete, mentre Joe cesella sullo sfondo.

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Live In Amsterdam – 2014 Mascot Provogue 2 CD DVD**** Oltre ai brani già ricordati nei singoli album, riproposti anche nel doppio dal vivo, Joe e Beth, sostenuti dalla formidabile band di Bonamassa ci regalano un Live tra i migliori della decade: le versioni di I’d Rather Go Blind https://www.youtube.com/watch?v=UEHwO_UEp7A  e I’ll Love You More… sono fantastiche, tra i brani aggiunti spiccano il blues di Freddie King Someday After a While per Bonamassa e la ballata pianistica Baddest Blues per la Hart, in ambito soul Rhymes di Al Green che scatena il pubblico e Something’s Got A Hold Of Me di nuovo della James, in ambito rock una travolgente Well, Well che rinverdisce i fasti di Delaney & Bonnie. Dopo cinque anni tornano con quello che è forse il loro migliore disco in coppia in studio.

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Black Coffee – 2018 Mascot Provogue **** Mi faccio aiutare ancora da quanto scritto dal sottoscritto in passate recensioni: “Beth Hart e Joe Bonamassa presi singolarmente sono, rispettivamente, la prima, una delle più belle voci prodotte dalla musica rock negli ultimi venti anni, potente, grintosa, espressiva, eclettica, con una voce naturale e non costruita,, il secondo, forse il miglior chitarrista in ambito blues-rock (ma non solamente) attualmente in circolazione, entrambi degni eredi di quella grande tradizione che negli anni gloriosi della musica rock, quindi i ’60 e i ’70, sfornava di continuo nuovi talenti che ancora oggi sono i punti di riferimento per chi vuole ascoltare della buona musica”: in Black Coffee evidenziano di nuovo queste caratteristiche, anche grazie alla presenza di nuovi elementi nella band di Bonamassa, Reese Wynans alle tastiere, Michael Rhodes al basso, la sezione fiati e la pattuglia di coriste, guidate da Mahalia Barnes, tra i brani spiccano Give It Everything You Got un pezzo di Edgar Winter in vesione soul revue, con wah-wah di Joe a manetta, Damn Your Eyes, un ennesimo brano di Etta James che ci permette di gustare la voce della Hart, ottima anche Lullaby Of The Leaves della Fitzgerald, di nuovo con rimandi a Mary Coughlan, tra i pezzi più rock Joy di Lucinda Williams, per la seconda volta reinterpretata dalla accoppiata Beth e Bonamassa https://www.youtube.com/watch?v=mkS-q5hq7qY , che poi si esibisce in una versione di Sittin’ On Top Of The World, vicina a quella dei Cream.

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Per evitare che l’articolo si trasformi in un saggio, vista l’immane quantità del repertorio del nostro amico, cerco di sintetizzare molto di più il repertorio, magari per argomenti, vediamo una selezione di dischi dal vivo che nella seconda decade del 2000 si moltiplicano: sono otto, escluso quello appena citato, a cui sono da aggiungere i 4 DVD della serie Tour De Force Live In London- Mascot Provogue ***1/2 usciti in contemporanea nel 2013 e poi in doppi CD nel 2014, e relativi a quattro concerti tenuti a Londra a marzo in diverse venue, dove a seconda della capienza cambiava il tipo di repertorio, mentre il titolo per ognuno era appunto Tour De Force, e sono tutti molto belli.

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Però tra le cose migliori del suo repertorio Live c’è sicuramente Beacon Theatre: Live From New York – 2012 Mascot Provogue 2 CD DVD **** due serate speciali al famoso teatro di New York, dove, come nella data londinese alla RAH del 2009, Joe invita sul palco alcuni ospiti: Beth Hart, per la immancabile e strepitosa I’d Rather Go Blind e Sinner’s Prayer, John Hiatt con due suoi brani, Down Around My Place e I Know A Place, infine Paul Rodgers che canta Walk In My Shadow e Fire In The Water dei Free, mentre Bonamassa può rendere omaggio al grande Paul Kossoff, tra le chicche della serata anche Midnight Blues di Gary Moore e Young Man’s Blues degli Who via Mose Allison.

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Poi nelle decade parte un sorta di tour discografico dei grandi teatri: An Acoustic Evening at the Vienna Opera House – 2013 Mascot Provogue 2 CD – 2 DVD –  Blu-Ray**** ovvero Joe Bonamassa goes acoustic, ma a modo suo, con altri quattro musicisti sul palco della casa dei Wiener Philarmoniker, oltre a Bonamassa che suona qualsiasi tipo di chitarra, meno quelle elettriche, in modo egregio, ci sono mandolino, violino, mandola, harmonium, nyckelharpa e qualsiasi tipo di percussione, suonata da Lenny Castro. Nessuno dei suoi idoli della chitarra rock e colleghi aveva mai fatto una cosa del genere, riuscita perfettamente https://www.youtube.com/watch?v=v8lOSERcJFE .

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Nel 2015 non è in un teatro ma in una delle location più suggestive del mondo, l’anfiteatro naturale vicino a Denver Muddy Wolf at Red Rocks – 2015 Mascot Provogue 2 CD DVD **** Come dice il titolo una serata speciale dedicata a Muddy Waters e Howlin’ Wolf, perché Joe (e penso anche il fido Kevin Shirley) cercano sempre un’idea particolare per rendere questi eventi unici https://www.youtube.com/watch?v=GbIr9CUfjZ8 . Una serata speciale sul Chicago Blues della Chess, come lo avrebbero suonato queste grande icone, ma anche i suoi idoli, Beck, Page e Clapton e Jimi Hendrix, di cui riprende nella parte finale della serata Hey Baby (New Rising Sun), grande concerto.

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Lo stesso anno, sempre per la serie dei teatri esce anche Live At Radio City Music Hall – 2015 Mascot Provogue CD+DVD **** meno di 80 minuti, un’altra fantastica performance nella location newyorchese, con un repertorio molto diverso da quello di altri concerti. L’anno successivo approda sulla West Coast, in un altro teatro storico, di Los Angeles

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Live at the Greek Theatre – 2016 Mascot Provogue 2 CD DVD**** Questa volta quale è l’argomento del concerto? Una serata speciale dedicata ai tre grande King del blues, Freddie, Albert e B.B., nell’ordine di apparizione dei loro brani, e, manco a dirlo, un altro disco dal vivo strepitoso https://www.youtube.com/watch?v=qoX0Olfqziw . Lo stesso anno viene registrato (pubblicato l’anno dopo) anche Live at Carnegie Hall: An Acoustic Evening 2017 Mascot Provogue 2 CD DVD **** che non è la replica americana del concerto di Vienna, ma per il 15° disco dal vivo, Bonamassa si presenta sul palco in veste acustica, però accompagnato da una Big Band di nove elementi (lui incluso) con musicisti anche da Cina ed Egitto, per una serata tipo quelle della serie Unpuggled, quando sul palco erano comunque la metà di mille.Altro ottimo concerto.

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Fedele alla sua filosofia del “una pensa e cento ne fa), poi tocca alla serata della British Blues Explosion Live2018 Mascot Provogue 2 CD 2 DVD **** dopo il tributo ai tre Re del blues questa volta tocca alla triade inglese dei “Re” della chitarra, ovvero Jeff Beck, Eric Clapton e Jimmy Page, registrato nell’estate del 2016 nel cortile dell’Old Royal Naval College di Greenwhich, nei sobborghi di Londra: questa volta Bonamassa e la sua band ci danno dentro alla grande, pescando anche nel repertorio di Cream. Jeff Beck Group e Led Zeppelin. L’ultimo live, per ora, fa parte di nuovo della serie dei teatri, siamo Down Under in Australia in un’altra delle location più suggestive del mondo Live at the Sydney Opera House – 2019 Mascot Provogue ***1/2 uscito solo in singolo CD, niente DVD, per ora, ma esistono le immagini, registrato, come il precedente nel 2016, a parte una cover di Mainline Florida di Clapton, solo materiale originale dai suoi dischi di studiohttps://www.youtube.com/watch?v=ntBsXyImdKI . A proposito completiamo la lista delle uscite della decade, a parte Royal Tea del 2020, di cui vi ho parlato recentemente https://discoclub.myblog.it/2020/10/24/saluti-da-londra-abbey-road-joe-bonamassa-royal-tea/ , “solo” altri quattro dischi di materiale nuovo.

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Driving Towards The Dayligth – 2012 Mascot Provogue ***1/2 dopo Dust Bowl che era un disco più “rootsy” questo nuovo ha un suono più duro, molte cover, anche “lavorate” come Stones In My Passway di Robert Johnson, che sembra un pezzo dei Led Zeppelin, come pure il riff inziale di Whole Lotta Love era contenuto in Who’s Been Talking di Howlin’ Wolf https://www.youtube.com/watch?v=L-wz2gxGucM , nell’ambito ballate la rara title track, un pezzo di Danny Korchmar, e sempre in ambito blues (rock) I Got What You Need di Wilie Dixon per Koko Taylor, alla Bluesbreakers, e per la serie l’eclettismo impera, un Bill Withers, un Tom Waits, un Buddy Miller e un Jimmy Barnes.

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Different Shades of Blue2014 Mascot Provogue ***1/2 tutte canzoni originali, a parte la cover iniziale di Hey Baby (New Rising Sun) di  Hendrix, nessuna memorabile, ma una qualità media ottima, visto che c’è spazio anche per blues e soul https://www.youtube.com/watch?v=i7-CTdeRk2s  , grazie alla presenza costante dei fiati.

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Blues Of Desperation – 2016 Mascot Provogue ***1/2 la title track ha sempre elementi degli amati Led Zeppelin, come pure Mountain Climbing molto Jimmy Page, You Left Me Nothin’ But the Bill and the Blues va di boogie, mentre nella tirata e gagliarda This Train Reese Wynans innesta una marcia barrelhouse, Drive ha un approccio più elettroacustico benché sempre con l’uso della doppia batteria https://www.youtube.com/watch?v=euMNVyuqmwo , No Good Place For The Lonely è una blues ballad alla Gary Moore e What I’ve Known for a Very Long Time è uno slow blues alla B.B. King con uso fiati.

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Redemption – 2018 Mascot Provogue ****per il disco numero 13, tra i migliori in studio di Bonamassa si torna di nuovo ad un approccio più roots, nella corale title track tra gli autori troviamo anche Dion, e un assolo micidiale di Joe, nel disco questa volta solo un batterista, ma due chitarristi aggiunti, Doug Lancio e Kenny Greenberg, The Ghost Of Macon Jones è un country-rock and western di ottimo impatto dal ritmo galoppante, con Jamey Johnson, notevole anche un torrido slow blues elettrico, con uso fiati e piano, come Love Is A Gamble dove Joe Bonamassa scatena ancora una volta tutta la sua verve chitarristica in un lancinante assolo e Molly O, tra Led Zeppelin e Black Country Communion, (quasi) la stessa cosa dirà qualcuno.

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Facciamo un breve passo indietro che tra il 2013 e il 2017, nei ritagli di tempo Joe ha registrato anche quattro album con i Rock Candy Funk Party, un side project dove in teoria Bonamassa è solo ospite, ma in questa band si diletta anche a mettere in mostra la sua passione per fusion, jazz-rock e funky, come da nome della band, il migliore anche in questo caso direi che sia il doppio Rock Candy Funk Party Takes New York: Live at the Iridium – 2014 2CD + DVD ***1/2.

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E sempre in ambito strumentale ad aprile è uscito, sotto pseudonimo, ma lo sanno tutti chi suona, ovvero Bonamassa con tutta la band al completo più John Jorgenson e Jimmy Hall dei Wet Willie, anche l’eccellente disco degli Sleep Eazys – 2020 Easy To Buy – Hard To Sell – Mascot/Provogue***1/2 un omaggio al suo vecchio mentore e maestro Danny Gatton, ma anche al suono di Roy Buchanan e Link Wray, tra i grandi maestri della chitarra elettrica. Ci sarebbero poi da ricordare miriadi di collaborazioni nei dischi di chiunque, ma almeno la citazione della produzione del bellissimo disco da solista di https://discoclub.myblog.it/2019/03/05/anche-lui-per-un-grande-disco-si-fa-dare-un-piccolo-aiuto-dai-suoi-amici-reese-wynans-and-friends-sweet-release/ è doverosa. Forse non sarà l’erede di Eric Clapton (e neppure di Jeff Beck, Jimmy Page e Jimi Hendrix), ma è sicuramente uno dei migliori chitarristi degli ultimi anni. Peccato faccia pochi dischi!

Bruno Conti

Dopo 50 Anni E’ Ancora Un Disco Attualissimo! The Kinks – Lola Versus Powerman And The Moneygoround, Part One

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The Kinks – Lola Versus Powerman And The Moneygoround, Part One – ABKCO/BMG CD – Deluxe 2CD – Super Deluxe 3CD/2x45rpm Box Set

Continuano le riedizioni potenziate per i cinquantesimi anniversari degli album dei Kinks, una serie cominciata stranamente da The Village Green Preservation Society e continuata lo scorso anno con Arthur https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/cofanetti-autunno-inverno-7-unaltra-bella-ristampa-per-un-piccolo-classico-the-kinks-arthur-or-the-decline-and-fall-of-the-british-empire-50th-anniversary/ : ora è la volta di uno dei lavori più famosi del gruppo dei fratelli Ray e Dave Davies, ovvero Lola Versus Powerman And The Moneygoround, Part One, meglio conosciuto come Lola Versus Powerman o più semplicemente Lola, presentato in diverse versioni delle quali la più lussuosa è l’immancabile cofanetto con tre CD, il solito bel libro ed un paio di 45 giri con le copertine rispettivamente delle edizioni italiana e portoghese di Lola e Apeman (e per la gioia degli acquirenti, per il terzo anno su tre il formato del box è diverso, una cosa che finora era prerogativa dei R.E.M.).

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Lola è come dicevo poc’anzi un album molto popolare presso i fans del gruppo britannico, in gran parte grazie all’omonimo singolo che narra la storia, scandalosa per l’epoca, di un ragazzo che conosce un travestito in un club di Soho (ma il brano venne censurato non per le tematiche scabrose ma bensì per un riferimento alla Coca-Cola, al punto che Davies nella “single version” da passare nelle radio dovette ricantare la parte iniziale sostituendo “Cherry Cola”), canzone che ha dalla sua una melodia tra le più dirette di Ray ed un ritornello che è ormai entrato nell’immaginario collettivo  . L’album è il solito concept che in questo caso se la prende, adottando la consueta feroce ironia, con il music business, le case discografiche e tutto ciò che vi ruota intorno come manager, produttori e giornalisti, mentre la musica è un melting pot di generi che vanno dal rock al country alla ballata fino alla musica anni trenta, ed oltre alla title track ha nella deliziosa e solare Apeman un altro classico assoluto della band https://www.youtube.com/watch?v=RRDSv4ed8_I . Il primo CD del box contiene il disco originale in stereo più qualche bonus track: oltre alle canzoni già citate possiamo dunque riassaporare la trascinante The Contenders, che si apre come una country song e si trasforma subito in un grintoso rock’n’roll elettrico, la splendida ballata pianistica Strangers https://www.youtube.com/watch?v=8ioKKnhaByw , con echi di The Band, il moderno vaudeville Denmark Street, l’ottima rock ballad Get Back In Line https://www.youtube.com/watch?v=qUaWuZD_Og8 , la riffata Top Of The Pops.

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E ancora: il puro vintage pop The Moneygoround https://www.youtube.com/watch?v=TyjHiWQjjw4 , la bellissima This Time Tomorrow, senza dubbio una grande canzone, la grintosa e chitarristica Rats, scritta e cantata da Dave, ed il country-rock Got To Be Free. Le sei bonus tracks erano già presenti nella versione doppia dell’album uscita nel 2014, e a parte quattro mix in mono di altrettanti brani ci sono due versioni alternate di Apeman e The Moneygoround, quest’ultima con una nuova traccia vocale di Ray incisa nel 1972. E veniamo agli altri due CD: evito di citare i missaggi alternativi sia mono che stereo dal momento che sono inediti per modo di dire e servono solo ad allungare il brodo, e parto da una interessante serie di medley intitolati Ray’s Kitchen Sink, in cui sono state create versioni esclusive di alcuni pezzi mettendo insieme demo, takes alternate, strumentali e live, il tutto con i commenti dei due fratelli Davies registrati apposta per questo box nella cucina di Ray, con tanto di testi del dialogo riportati nel libro (e meno male, visto che Dave parla che sembra avere un piccione intero in bocca); le canzoni interessate da questa operazione sono Lola, Got To Be Free, The Contenders, This Tine Tomorrow, Get Back In Line, Rats, Powerman, A Long Way From Home e Strangers.

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Poi abbiamo una notevole take alternata della stupenda This Time Tomorrow forse addirittura superiore all’originale https://www.youtube.com/watch?v=a7c7mJH8RwY , la rockeggiante outtake The Good Life, una bellissima Apeman dal vivo in versione cajun tratta dall’unplugged del 1994 To The Bone e, sempre dal vivo, Get Back In Line registrata alla vigilia di Natale del 1977 https://www.youtube.com/watch?v=Qyad2GRfpGg , una strepitosa Lola del 2010 di Ray Davies con la Danish National Chamber Orchestra & Choir e A Long Way From Home di Ray & Band all’Austin City Limits del 2006 https://www.youtube.com/watch?v=eVeogLcfmwE . Per finire, due pezzi rari dal film TV della BBC The Long Distance Piano Player (l’inedita Marathon ed una diversa Got To Be Free, entrambe con Fiachra Trench al pianoforte), altrettanti dalla colonna sonora del film Percy del 1971 (Moments e The Way Love Used To Be), un work in progress di Apeman ed il pop-rock Anytime, altra outtake di buon livello che sarebbe dovuta uscire come singolo ma poi rimase in un cassetto. Il fatto che il titolo completo di questo album recitasse alla fine “Part One” non significa che esista una seconda parte: i Kinks nel 1971 cambieranno registro e pubblicheranno lo splendido Muswell Hillbillies, altro capolavoro e forse il mio album preferito in assoluto del gruppo londinese: già attendo il cofanetto.

Marco Verdi

Joe Bonamassa – L’Erede Di Eric Clapton O “Solo” Un Grande Chitarrista? Parte I

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Gli Esordi 1991-1996

Quando nel 1991 il nostro amico, alla ricerca di un contratto, viene “gentilmente” rifiutato da varie etichette discografiche, ha solo 15 anni, ma una forte passione per la musica, allora decide di provare con un gruppo e astutamente chiama con lui alcuni “figli di”: c’è Waylon Krieger, il cui babbo Robby militava nei Doors, Berry Oakley Jr. negli Allman Brothers, alla batteria Erin Davis, il figlio di Miles, l’unico senza pedigree personale è “Smokin’ Joe” Bonamassa (giuro!), figlio di Len, che non era famoso, ma aveva un negozio di chitarre, e quindi il destino di Joseph Leonard era già segnato.

joe-bonamassa-age-16-jams-with-robben-fordNato a New Hatford, un sobborgo di Utica, nello stato di New York, nel 1977, Joe fin dalla più tenera età era stato cresciuto a pane e musica, il padre gli faceva sentire i dischi di Eric Clapton e Jeff Beck, che qualche influenza devono pur averla lasciata, come trainer alla chitarra a 11 anni gli fu affiancato Danny Gatton, a 12 apriva per i concerti di B.B. King, quindi stesso palco ma non insieme presumo, ma non c’ero.

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Nel 1994 i Bloodline pubblicano il primo omonimo album per la Emi/Capitol ***, me lo sono andato a (ri)sentire per scrivere questo articolo e devo ammettere che non era poi un brutto disco, Berry Oakley, che aveva sostituito il primo cantante, oltre a suonare il basso, aveva una bella voce e Joe, con l’aiuto di Krieger junior, alla chitarra già si sapeva fare, andatevi a sentire (se trovate il CD nell’usato) il rimarchevole lavoro al wah-wah in Dixie Peach, o il lavoro delle due soliste all’unisono nello strumentale sudista The Storm, alla produzione doveva esserci Phil Ramone, poi fu chiamato Joe Hardy (Tommy Keene, Georgia Satellites, Green On Red), loro amavano il blues(rock) ma l’etichetta gli chiedeva hard rock, comunque il lungo lentone Since You’re Gone ha qualche elemento alla Lynyrd Skynyrd, che li usarono come band di supporto nel 1995 https://www.youtube.com/watch?v=TuW_6YApSGg .

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La Carriera Solista, Prima Parte 2000-2009

Nel 2000 la Okeh, una succursale della Epic/Columbia gli propone un contratto, grazie alla reputazione che si era fatto nell’ambiente, e lo stesso anno arriva il primo album

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A New Day Yesterday – 2000 Okeh/Epic ***1/2

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A New Day Now 20th Anniversary – 2020 JR Adventures/Mascot Provogue ***1/2

Mettiamo insieme le due edizioni del primo disco di Joe Bonamassa, che secondo me più o meno si equivalgono come valore: quella del 2000, registrata ai Pyramid Recording Studios di New York, si avvale della produzione di Tom Dowd, uno dei grandissimi che ha “creato” alcuni dei più bei dischi della storia del rock, tra i quali parecchi proprio di Eric Clapton, del quale Bonamassa per molti è una sorta di erede (se mai si vorrà ritirare, per ora Slowhand annuncia ma poi per fortuna ci ripensa): anche se per altri, pochi ma tignosi, Joe è solo un “casinaro”, benché il sottoscritto appartiene assolutamente, come la maggioranza degli ascoltatori del buon rock, del blues e di tutti i generi che suona il nostro amico, ai suoi estimatori. Chiarito questo concetto continuiamo, anzi iniziamo ad esaminare la sua copiosa discografia. Tornando a A New Day Yesterday, tra i fattori negativi c’è la presenza di una band che lo accompagna non proprio di prima fascia, onesti musicisti, ma Creamo Liss al basso e Tony Cintron alla batteria, per quanto bravi, alzi la mano chi a parte questo disco li hai mai sentiti nominare (Cintron, ho controllato, suona comunque in parecchi dischi di fusion e jazz); tra i lati positivi la presenza come ospiti di Rick Derringer a chitarra e voce in Nuthin’ I Wouldn’t Do (For a Woman Like You), un ottimo brano di Al Kooper, in If Heartaches Were Nickels uno splendida canzone di Warren Haynes, ci sono Gregg Allman a voce e organo e Leslie West alla seconda chitarra  https://www.youtube.com/watch?v=yRem6f0bmIE (che misteriosamente scompaiono nella versione del ventennale di A New Day Now), in un brano, ma è marginale, c’è anche il babbo di Joe, Len alla chitarra.

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Tra i plus della versione 2020 c’è l’ottimo lavoro di masterizzazione e mixaggio di Kevin Shirley che ha attualizzato il sound (per quanto la versione di Dowd suonava ottimamente) e inserito le nuove parti vocali di Bonamassa che le ha volute reinciderle con la sua voce attuale, più matura, calda e sicura, rispetto al giovane Joe del 2000, non disprezzabile comunque già all’epoca. Tra le bonus della nuova edizione ci sono tre brani del 1997, scritti con Steven Van Zandt e prodotti dallo stesso, francamente non memorabili, tra cui una irriconoscibile I Want You di Dylan, veramente bruttarella. Molto bello in entrambe le versioni il trittico di canzoni iniziali, Cradle Rock di Rory Gallagher https://www.youtube.com/watch?v=hVyhZ6rEbkI , Walk In My Shadow dei Free e A New Day Yesterday dei Jethro Tull https://www.youtube.com/watch?v=h1TAQa-IP8I , oltre alla cover conclusiva di Don’t Burn Down That Bridge di Albert King, che indicano che la stoffa del fuoriclasse è già presente.

Nel 2001 nel corso del tour americano di 60 date viene registrato il suo primo album dal vivo

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A New Day Yesterday Live – 2002 Premier Artists ***1/2 nel 2004 anche DVD con tre tracce aggiunte. La formazione che accompagna Bonamassa è il classico power trio, con Eric Czar al basso e Kenny Kramme alla batteria. La data è il dicembre 2001 a Fort Wayne, Indiana: il repertorio verte soprattutto su materiale tratto dal disco di studio, prima di Cradle Rock c’è una breve jam dove Joe va di slide, mentre la band sembra rocciosa anziché no, come testimoniano versione gagliarde dei pezzi di Gallagher, Free, un medley strumentale strepitoso di Steppin’ Out, lato Clapton e Rice Pudding di Jeff Beck https://www.youtube.com/watch?v=KntOQU-Sqkg , mentre c’è una lunga I Know Where I Belong, uno dei brani migliori scritti da Bonamassa per il disco di studio, anche A New Day Yesterday dei Jethro Tull è preceduta da un lungo assolo del nostro al wah-wah, a dimostrazione che il musicista newyorchese era già un axeman fantastico e dal vivo un grande perfomer, come confermano potenti versioni di Walk In My Shadow https://www.youtube.com/watch?v=dv6vmWF8ZRE  e dell’intenso slow blues If Heartaches Were Nickels. Negli extra del DVD, che sarebbe il formato da avere, ci sono una improvvisazione per chitarra che precede Are You Experienced di Jimi Hendrix e Had To Cry Today dei Blind Faith di Clapton, che poi darà il titolo al 4° album di studio del 2004  https://www.youtube.com/watch?v=xjQvapPsfa8. Già allora Bonamassa comincia a sviluppare la sua bulimia discografica, con almeno un disco di studio all’anno, oltre a Live a go-go e progetti collaterali con altre band nel futuro.

Visto che la produzione è immane (circa una cinquantina di dischi e DVD in venti anni) per evitare di trasformare l’articolo in un romanzo cercherò di concentrare i contenuti, ma dubito di farcela. Sempre nel 2002 esce

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So It’s Like That – 2002 Medalist **1/2 prodotto da Cliff Magness, noto per il suo lavoro con Avril Lavigne (?!?): un disco di transizione, dove Bonamassa scrive tutti i brani insieme ad altri, il lavoro della chitarra è spesso fantastico come nella iniziale My Mistake, ma molte delle canzoni virano verso un hard rock di maniera, per quanto Czar e Kramme siano una buona sezione ritmica, Joe all’epoca non era ancora un grande autore, e non si vive di soli assoli, per quanto nello shuffle blues della title track e nella lunga e tirata Mountain Time ci dia dentro alla grande. Ma già l’anno dopo realizza un disco quasi completamente dedicato alle 12 battute, sin dal titolo, uno dei suoi migliori in assoluto

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Blues DeLuxe – 2003 Medalist Records **** Anche ottimo il produttore Bob Held, pure lui con un passato “metallurgico” qui però dimenticato, il repertorio è impeccabile, Jon Paris di winteriana memoria viene aggiunto all’armonica e Benny Harrison all’organo: You Upset Me di B.B,.King, con un approccio non dissimile da quello di Gary Moore, il boogie Burning Hell di John Lee Hooker dove sembra di ascoltare gli ZZ Top, i Canned Heat o Johnny Winter https://www.youtube.com/watch?v=zDoJPKR7Xz4 , una formidabile versione appunto del super lento Blues DeLuxe di Jeff Beck, con un assolo soffertissimo https://www.youtube.com/watch?v=7hQPDQidI2c , e ancora la funky Man Of Many Words di Buddy Guy, l’acustica Woke Up Dreamng scritta dallo stesso Joe, che firma anche l’ottima blues ballad I Don’t Live Anywhere, degna dei Bluesbreakers di Mayall, prima di andare di bottleneck in una fremente Wild About You Baby di Elmore James, e lavorare di fino in Long Distance Blues di T-Bone Walker, prima di scatenare la potenza della band in Pack It Up di Freddie King e nello strumentale Left Overs di Albert Collins, e il rigore blues di Walking Blues di Robert Johnson. Insomma Bonamassa mette a frutto gli anni di ascolto sui dischi del babbo, mentre l’anno dopo esce il primo disco per la Provogue con il ritorno al rock-blues, ma variegato e raffinato di

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Had To Cry Today – 2004 Mascot Provogue ***1/2 Bob Held è di nuovo il produttore, i musicisti (che ho rivalutato, ascoltando i dischi, dopo anni che non li sentivo) sono gli stessi del precedente CD: un misto di cover e brani originali di Bonamassa, che migliora come autore, con delle punte di eccellenza in Never Make Your Move To Soon dal repertorio di B.B. King, bonamassizzata (se si può dire) per l’occasione, una vorticosa Travelin’ South di Albert Collins a tutta slide, l’intenso lento Reconsider Baby di Lowell Fulson, fatto anche da Clapton e Gregg Allman, molto buona anche l’elettrocustica Around The Bend, dai retrogusti country, firmata dal nostro amico, che poi rende omaggio prima a Danny Gatton nella twangy Revenge Of The 10 Gallon Hat, alla faccia di chi dice che non abbia una grande tecnica, e anche all’amato Eric nella cover di Had To Cry Today, il bellissimo pezzo di Steve Winwood per i Blind Faith , dove gli assoli di Bonamassa rivaleggiano con quelli di Manolenta https://www.youtube.com/watch?v=XPYpPwGm5GY , eccellente anche lo strumentale acustico Faux Martini con influenze flamenco. A questo punto il nostro rovina un po’ la media delle uscite perché nel 2005 non esce nulla, ma l’anno dopo ecco arrivare

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You And Me – 2006 Mascot Provogue – ***1/2 il primo album con il produttore Kevin Shirley, che d’ora in avanti sarà alla guida di tutti i suoi dischi. Solita formula, rock con venature blues o viceversa, ma nuova band, Carmine Rojas al basso, che rimarrà con Joe fino a metà della successiva decade, Jason Bonham alla batteria, solo in questo album (ma poi presenza costante nei Black Country Communion), forse scelto anche perché nel disco c’è una cover di Tea For One dei Led Zeppelin, dove per la prima volta Shirley inizia ad usare gli archi in un disco di Bonamassa, che rilascia un assolo da sballo, grande versione comunque https://www.youtube.com/watch?v=mkpIsv7XHLE , cantata splendidamente da Doug Henthorn, che poi apparirà spesso come vocalist aggiunto negli anni a venire, Rick Melick è alle tastiere. Molto buone anche l’iniziale High Water Everywhere una cover di Charley Patton, molto rock 70’s, Bridge To Better Days tra Free, Bad Company e Foghat con Pat Thrall alla seconda chitarra, Asking Around For You una blues ballad con archi, So Many Roads di Otis Rush, ma la faceva anche Peter Green con John Mayall e Gary Moore. E che dire di una inconsueta e swingata I Don’t Believe di Bobby Bland, o del tradizionale con slide acustica Tamp Em Up Solid che faceva pure Ry Cooder, alla faccia di nuovo di chi dice che Bonamassa non sia eclettico e capace di suonare tutti gli stili, come dimostrano l’epica Django o il blues puro di Your Funeral My Trial di Sonny Boy Williamson tramutato in un rock violento, con il giovanissimovirtuoso dell’armonica L.D. Miller, all’epoca 12 anni, non si sa poi che fine abbia fatto, ma forse non era disponibile John Popper. L’anno successivo in estate esce il settimo album di studio

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Sloe Gin – 2007 Mascot Provogue ***1/2 il primo disco ad entrare nelle classifiche americane, ben al 184° posto, per quanto in alcuni paesi europei la fama di Bonamassa cominci a diffondersi. Quasi in equilibrio brani originali e cover, 6 a 5, e un altro nuovo ingresso nella formazione con l’arrivo di Anton Fig alla batteria, da allora sempre presente sullo sgabello in tutti gli album, una garanzia con la sua classe mista a forza esplosiva, a seconda di quello che serve. Ball Peen Hammer, un intenso brano in bilico tra acustico ed elettrico di Chris Whitley apre l’album, con il solito uso degli archi di Shirley, a seguire One Of These Days uno dei classici rock-blues originali dei Ten Years After, con Joe alla slide  , Seagull, una morbida ballata dei Bad Company di Paul Rodgers, Sloe Gin è una robusta cover orchestrale di un pezzo di Tim Curry, il vecchio protagonista del Rocky Horror Picture Show, non manca il blues-rock di Another Kind Of Love, un brano non molto conosciuto di John Mayall, Bonamassa poi si confronta con il blues lento e tirato di Black Night, un brano di Charles Brown e a sorpresa con una intricata cover di Jelly Roll, un pezzo acustico di John Martyn, e infine uno strumentale orientaleggiante come India. Un altro bel disco, che viene bissato sul finire dell’anno dal secondo album live

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Shepherds Bush Empire – 2007 Mascot Provogue **** Solo 5 brani, ma non è un mini CD, spiccano i 15 minuti clamorosi di Just Got Paid, il famoso pezzo degli ZZ Top, da sempre uno dei cavalli di battaglia dei suoi show, quando usa la famosa Gibson a freccia e parte per la stratosfera del rock, in un medley che include anche una fantastica Dazed And Confused dei Led Zeppelin, eccellenti anche le cover di Walk In My Shadow e Blues DeLuxe https://www.youtube.com/watch?v=x-EhuaZN-XE . Dal vivo non delude mai, tanto che a breve distanza esce un altro CD dal vivo, il doppio

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Live From Nowhere In Particular – 2008 Mascot Provogue ***1/2 registrato durante il tour di Sloe Gin, dal quale vengono estratti cinque brani, ma anche gli altri dischi sono ben rappresentati: ottime Bridge To Better Days, So Many Roads, il medley esotico di India/Mountain Time e quello di Just Got Paid questa volta accoppiata con Django, l’intermezzo acustico con If Heartaches Were Nickels e Woke Up Dreaming, oltre alla conclusiva A New Day Yesterday con lunga citazione finale di Starship Troopers degli Yes https://www.youtube.com/watch?v=ptMM2DKDH5Y . L’anno successivo esce

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The Ballad Of Joe Henry – 2009 Mascot Provogue ****, uno dei suoi migliori dischi di studio, che ottiene un buon successo di vendite in giro per il mondo, soprattutto in Inghilterra e Olanda dove entra nella Top 30. La title track adattata da un brano di Mississippi John Hurt, vive su un equilibrio sonoro tra sfuriate zeppeliniane e inserti orchestrali ricercati, Stop è una bella ballata della cantante pop britannica Sam Brown, Last Call è un furioso rock-blues scritto dallo stesso Joe, che ben si adatta all’uso della doppia batteria (Bogie Bowles) e della chitarra ritmica di Blondie Chaplin. Nell’album per la prima volta a tratti cominciano ad apparire i fiati e lo spettro musicale si allarga, come nella cover di Jockey Full Of Bourbon di Tom Waits, o in quella di Funkier Than A Mosquito’s Tweeter, un brano scoppiettante con uso di fiati di Ike And Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=cqV9XkgIsZM , oppure nel duro swamp-rock di As The Crow Flies di Tony Joe White https://www.youtube.com/watch?v=tZvHPaIoR4Y . Sulla scia del successo Bonamassa arriva anche a registrare un doppio CD e DVD dal vivo

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Live from the Royal Albert Hall2009 2CD/2DVD **** il quarto della decade e uno dei migliori in assoluto della sua carriera, grazie alla location fantastica, al repertorio, alla presenza di un paio di ospiti, uno in particolare, di cui tra un attimo. Magari non ve ne frega niente, ma in quel periodo ho assistito anch’io ad un suo concerto a Milano e sono rimasto molto soddisfatto di quanto visto e sentito. Ormai la doppia batteria è un fatto acquisito, come la presenza dei fiati: vi consiglierei la versione in DVD, perché la parte visiva, specie per uno show alla RAH ha una sua importanza. Quasi due ore e mezza di spettacolo, 19 brani dove esplora tutto il proprio repertorio, con un suono “maestoso”: Django e The Ballad Of Joe Henry illustrano il suo lato più progressive e 70’s rock, So It’s Like That quello blues, con l’intermezzo rock citazionista di Last Kiss, poi c’è la lunga sequenza sulle 12 battute, So Many Roads, Stop!, prima di chiamare sul palco il suo idolo e mentore Eric “Slowhand” Clapton per un duetto/duello nella splendida Further On Up The Road, presenza che realizza un sogno, con i fiati che punteggiano il suono spesso durante il concerto https://www.youtube.com/watch?v=iz41Ea4Kfvk . Intermezzo acustico con la lunga Woke Up Dreaming e la scandita High Water Everywhere con doppia batteria. Di nuovo rock con Sloe Gin e Lonesome Road Blues, poi nella seconda parte di nuovo blues, prima con Paul Jones che sale sul palco con la sua armonica per Your Funeral My Trial, seguita da una strepitosa Blues DeLuxe fiatistica dove Bonamassa distilla il meglio dalla sua chitarra. E gran finale con il trittico finale, Just Got Paid degli ZZ Top con la sua Flying V, brano ricco di citazioni degli Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=0ThfM81Y0ng , la sontuosa e suggestiva Mountain Time https://www.youtube.com/watch?v=xiMqvPYPvQ0  e la deliziosa blues ballad Asking Around For You che conclude un concerto strepitoso.

Fine della prima parte.

Bruno Conti

Tra Nuovo E Vecchio, Un Outsider Da Scoprire Assolutamente. Steve Azar – My Mississippi Reunion

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Steve Azar – My Mississippi Reunion – Ride Records

Steve Azar è il classico artista di culto, un musicista che ha saputo muoversi tra stili diversi: il country dei primi dischi, la roots music, il soul bianco e nero, lui definisce la sua musica “Delta Soul” , e ha anche fatto un disco con questo titolo, e quindi il blues rimane sullo fondo, visto che viene proprio da Greenville, Mississippi, una delle patrie delle 12 battute. Steve è un cantautore prestato al blues, o forse viceversa, visto che le canzoni se le scrive e se le canta, magari come nel precedente eccellente Down At The Liquor Store, recensito tre anni fa e in cui era accompagnato dai King’s Men, una pattuglia di musicisti che in passato aveva suonato con alcuni Kings, da Elvis a B.B. , da cui il patronimico https://discoclub.myblog.it/2017/10/17/quasi-un-piccolo-classico-del-rock-steve-azar-the-kings-men-down-at-the-liquor-store/ .

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Ma essendo un artista indipendente cerca sempre di sfruttare al meglio il materiale che incide: già Delta Soul conteneva un misto di canzoni nuove (quattro) e rivisitazioni di vecchi brani incisi ex novo (cinque), ma in questo My Mississippi Reunion Azar fa un ulteriore passo avanti, costruendo una sorta di concept album alla rovescia, dedicato alla sua terra di origine, una serie di brani , undici in tutto, di cui otto estratti da vecchi album, alcuni rimasterizzati, altri reincisi, più tre canzoni nuove, di cui una registrata con Cedric Burnside, un perfetto caso di riciclo ecodiscografico, nulla si butta, tutto si riutilizza. Se poi i suoi dischi sono pure poco conosciuti, è una ulteriore spinta per avvicinarsi alla sua musica.

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Anche nelle canzoni nuove, prevale comunque lo stile discorsivo e cantautorale di Steve, in possesso di una bella voce piana, con uno spiccato gusto per le melodie, come per esempio la delicata Rosedale posta in apertura, inizio attendista, con acustiche, organo, piano, violino e archi, poi entra con il botto il resto del gruppo, la musica si anima, sembra di ascoltare ancora una volta i grandi cantautori degli anni ‘70, sparo un po’ di nomi? Guthrie Thomas, i texani doc, ma anche Springsteen, Mellencamp, nelle loro derive più roots https://www.youtube.com/watch?v=LgIO5P0JZt0 , mentre nel secondo brano Midnight, ancorato da un basso pulsante, citerei pure il primo Dirk Hamilton, e come affinità elettive magari gente come Jim Lauderdale, Lyle Lovett o Marty Stuart, quelli che danno del tu al country d’autore , anche se con vocalità e stili differenti, ma la qualità non manca in un brano arioso ed avvolgente, dove spunta anche una tromba e poi c’è un bellissimo assolo di chitarra https://www.youtube.com/watch?v=uz40V0o-myU ; il richiamo del blues è molto più marcato nella sanguigna Coldwater, un duetto a due voci con Burnside, che suona anche una slide tangenziale che impreziosisce questo bellissimo brano, firmato come tutti quelli contenuti nel CD dallo stesso Azar https://www.youtube.com/watch?v=YP6R7OXshrY .

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One Mississippi è un brano commissionato nel 2017 a Steve dal governatore dello stato della Magnolia per il bicentenario, un pezzo mosso e brioso che potrebbe rimandare al sound dei grandi Amazing Rhythm Aces https://www.youtube.com/watch?v=SB5BL8qi8kQ , anche Flatlands che era su Indianola, l’album del 2007 (e pure su Delta Soul), è un pezzo rock tirato e chitarristico, di nuovo con una bella slide in evidenza, con la band che gira alla grande https://www.youtube.com/watch?v=VDI6rhU5rVs , seguita da Rena Lara, un ottimo country got soul posto in apertura di Down At The Liquor Store, con chitarra e organo molto presenti ed inserimenti dei fiati, per un brano veramente bello. Greenville era la canzone che chiudeva il disco appena citato, una ballata pianistica, che ricorda in modo impressionante Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=AWzRfuEw_4A .

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Sweet Delta Chains viene da Slide On Over Here del 2009, un funky fiatistico coinvolgente, con piano elettrico e chitarre che ricordano il blues-rock meticciato dei Little Feat, grazia anche a una slide malandrina https://www.youtube.com/watch?v=jcDXmqcuv4E ; viceversa Indianola, dal disco omonimo, è una bella ballata mid-tempo sudista, con interplay tra armonica e bottleneck, sempre cantata con grande partecipazione da Azar, con Mississippi Minute, estratta da Delta Soul Volume One, un altro brano in bilico tra rock e blues, con una bella acustica “Harrisoniana”, e in chiusura troviamo Highway 61, il brano scritto con il bravo James House che apriva il disco appena ricordato, con la Weissenborn in primo piano insieme all’organo, pure questa una bella canzone della serie non solo blues https://www.youtube.com/watch?v=RhV7qBNJdFo , per questo riassunto con nuovi brani di questo musicista che si conferma un outsider di lusso da scoprire assolutamente.

Bruno Conti

Il Disco Rock’n’Roll Dell’Anno? The Dirty Knobs – Wreckless Abandon

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The Dirty Knobs – Wreckless Abandon – BMG Rights Management CD

Dopo l’inattesa e dolorosa scomparsa di Tom Petty avvenuta nel 2017 gli Heartbreakers si sono giocoforza dedicati all’attività di sessionmen di lusso, ed uno dei più attivi in tal senso è stato Mike Campbell, grandissimo chitarrista e vera colonna portante del suono degli Spezzacuori insieme al piano di Benmont Tench: prima è entrato a far parte, un po’ a sorpresa devo dire, dei Fleetwood Mac insieme a Neil Finn dopo il licenziamento di Lindsey Buckingham (ed il fatto che per la seconda volta l’ex marito di Stevie Nicks sia stato rimpiazzato da DUE musicisti – la prima fu nel 1987 – la dice lunga sulla sua bravura), e poi ha potuto dedicarsi a tempo pieno alla sua band “dopolavoristica” The Dirty Knobs, da lui formata nel 2001 ma che fino ad oggi si era limitata a qualche esibizione dal vivo.

In effetti mi ero sempre chiesto, anche durante i periodi di massimo splendore di Petty e della sua band, come mai un musicista del talento di Campbell non avesse pensato ad un album da solista, dal momento che oltre alla grande abilità chitarristica Mike è anche un valido songwriter (oltre a molti brani insieme a Petty ha infatti collaborato alla scrittura con fior di colleghi, come la stessa Nicks, Don HenleyThe Boys Of SummerJohn Prine, Roy Orbison, perfino Bob DylanJammin’ Me – e Roger McGuinn), poi nel 1999 l’ho sentito cantare in I Don’t Wanna Fight nell’album di Petty Echo, unico caso in tutta la discografia degli Heartbreakers, e ho capito perché. Nel 2016 però Campbell aveva dato prova di essere notevolmente migliorato alla voce nell’affrontare Victim Of Circumstance, il suo contributo al secondo album dei Mudcrutch, ma nonostante tutto mi sono stupito quando ho visto che nel primo album dei Dirty Knobs da poco uscito, intitolato Wreckless Abandon, il lead singer oltre che chitarra solista era proprio lui. Questa però è solo la prima sorpresa, in quanto ascoltando il CD mi sono reso conto di avere a che fare con un bellissimo album di puro rock’n’roll come oggi purtroppo non si fa quasi più, musica diretta, potente, chitarristica fino al midollo ma con una qualità compositiva notevole (le canzoni sono tutte di Campbell).

I “Pomelli Sporchi” sono un classico quartetto due chitarre-basso-batteria (oltre a Mike, Jason Sinay, Lance Morrison e Matt Laug), e la loro musica è un misto di rock, blues e boogie con le sei corde sempre in evidenza, ma come ho detto poc’anzi ci sono anche le canzoni e, sorprendentemente, la voce. La produzione, diretta ed asciutta, è nelle sapienti mani di George Drakoulias (che ricordo alla consolle per i primi due album dei Black Crowes, i migliori lavori dei JayhawksHollywood Town Hall e Tomorrow The Green Grass – nonché in The Last DJ di Petty), e come ospiti abbiamo Tench in un brano, Augie Meyers in un altro e soprattutto Chris Stapleton alla voce in due pezzi, che rende quindi il favore a Mike che è apparso di recente nel suo nuovo Starting Over; piccola curiosità: anche l’immagine di copertina ha origini illustri, essendo opera del noto designer tedesco di beatlesiana memoria (nonché bassista) Klaus Voormann, autore della mitica cover di Revolver.

Un indizio del livello del disco lo dà l’iniziale title track, rock’n’roll song chitarristica potente e coinvolgente, anzi direi irresistibile: la voce di Campbell è notevolmente migliorata (la sua chitarra non si discuteva neanche prima) ed è paragonabile a quella di Graham Parker, e la canzone stessa sarebbe potuta benissimo stare su un album di Petty & Heartbreakers. Pistol Packin’ Mama (brano nuovo, non il classico di Bing Crosby) è uno strepitoso country-rock elettrico, con Stapleton che duetta alla grande con Mike e Meyers che ricama da par suo con il farfisa per un cocktail decisamente trascinante; Sugar, dura e cadenzata, porta il disco verso sonorità rock-blues, un pezzo meno sfavillante dal punto di vista compositivo ma suonato sempre con grinta e perizia tecnica che vanno di pari passo. Molto buona anche Southern Boy, un boogie spedito come un treno dalle goduriose parti strumentali tra chitarre normali e slide, mentre I Still Love You è una rock ballad intensa e potente a dimostrazione che Mike se la cava benissimo anche con brani più lenti (ma le chitarre arrotano anche qua, basti sentire l’assolo finale). Irish Girl calma un po’ le acque, le chitarre sono acustiche e spunta anche un’armonica, per un pezzo dallo script superbo (a metà tra Dylan e Petty, manco a dirlo) e suonato alla grande, con Stapleton ancora presente ma solo alle armonie vocali: canzone splendida.

Fuck That Guy vede invece Chris coinvolto come co-autore in un godibile e divertente rock’n’roll suonato in punta di dita, dal ritmo insinuante ed una slide malandrina sullo sfondo, mentre Don’t Knock The Boogie è appunto un boogie-blues alla John Lee Hooker ma suonato con la forza degli ZZ Top, che procede attendista fino alla strepitosa coda chitarristica finale (lo avrei visto bene su Mojo, ed anche il modo di cantare di Mike qui ricorda quello del suo ex principale). Anche la solida Don’t Wait ha cromosomi blues, ma stavolta vedo più influenze british alla Cream, con un bel riff circolare e drumming possente, a differenza di Anna Lee che è una deliziosa ballata acustica, quasi bucolica. Chiusura con Aw Honey, altro ruspante e travolgente rock’n’roll impreziosito dal piano di Tench, la gagliarda Loaded Gun, una fucilata elettrica in pieno petto, ed una ripresa strumentale di un minuto a base di slide acustica di Don’t Knock The Boogie.

Gran bel CD questo Wreckless Abandon, un lavoro sorprendente che dimostra che i Dirty Knobs sono molto di più di una “side band”: l’album è dedicato a Petty (che Mike definisce “il mio co-capitano”), e sono sicuro che da lassù il buon Tom apprezzerà senza remore. Senza dubbio tra i dischi dell’anno.

Marco Verdi

Dai Sobborghi Di Brooklyn Alle Rive Del Mississippi, Un’Altra Grande Voce. Bette Smith – The Good The Bad And The Bette

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Bette Smith – The Good The Bad The Bette – Ruf Records

Pettinatura Afro, corporatura prorompente, a Milano affettuosamente si dice “una bella paciarotta”, solo una piccola differenza grafica con l’altra Smith, la più famosa Bessie, anche se il genere non è proprio lo stesso, ma è passato un secolo, e non è un modo di dire: la nostra Bette Smith viene dai sobborghi di Brooklyn, NY, ha esordito tre anni fa con un disco Jetlagger, pubblicato dalla Big Legal Mess/Fat Possum Records, prodotto da Jimbo Mathus degli Squirrel Nut Zippers, che l’ha portata nel Mississippi, dove l’aspettavano Matt Patton, basso e Bronson Tew, batteria, che sono la sezione ritmica dei Drive-By Truckers, insieme ad altri musicisti, per registrare un album di funk/soul, R&B, rock, per sintetizzare diciamo blues contemporaneo, materiale in gran parte originale, ma con un paio di cover, un Isaac Hayes e I Found Love della coppia Maria McKee/Steve Van Zandt ai tempi dei Lone Justice, se vi capita cercatelo, perché ne vale le pena.

Ma stiamo parlando ora di questo The Good The Bad The Bette, chiara citazione Leone/Morricone, anzi ci siamo spinti ancora più in là, visto che la prima canzone del CD si chiama Fistful Of Dollars, ma le analogie con lo “spaghetti western” finiscono li: per la nuova missione lungo il Mississippi Patton e Tew sono sempre in pista, anzi sono loro i nuovi produttori, Jimbo Mathus era casualmente da quelle parti a dare una mano e suona organo e chitarra, l’etichetta è nuova, la tedesca Ruf Records, che se parliamo di blues e dintorni non si fa mancare nulla e quindi il risultato è di nuovo più che soddisfacente.

Adesso parliamo però di Bette Smith, cresciuta a pane e gospel, visto che il babbo era il direttore del coro di bambini della chiesa locale, ma lei era pure una grande appassionata di rock’n’roll, e nei lunghi anni di pratica di entrambe le passioni, a furia di cantare, deve avere consumato una parte della sua voce, visto che ora è roca e vissuta (si scherza), anche se questo non le impedisce di darci dentro alla grande nel nuovo album: organo, chitarra e fiati impazzano nella incalzante Fistful Of Dollars dove si apprezza la vocalità prorompente di Bette, a seguire arriva Whistle Stop una ballata delicata e malinconica dedicata alla madre scomparsa, dove la voce si fa più roca ed accorata, ben sostenuta da un arrangiamento complesso e curato.

Mentre in I’m A Sinner, voce riverberata e atmosfere tra psych e garage rock anni ‘60 Jimbo Mathus scatena la sua chitarra, e anche I Felt It Too non scherza quanto a grinta, un altro pezzo corale dove i musicisti si scatenano e la Smith lascia andare divertita la sua voce, con Mathus alle prese con un assolo distorto e selvaggio, doppiato da un sax in overdrive suonato da Henry Westmoreland  degli Squirrel Nut Zippers. Visto che era disponibile nei dintorni perché non utilizzare la chitarra di Luther Dickinson, e allora vai con il southern carnale di Sign And Wonders, sempre funzionale alla vocalità esuberante, ma mai sopra le righe, di Bette Smith, e non manca neppure una ode al suo amato cane, ripreso pure in un video legato all’album, nel funky, rock and soul della potente (I Wanna Be Your) Human.

Con Song For A Friend che ci riporta all’amato soul cantato con un timbro vocale quasi fanciullesco e buffo a tratti, diciamo piacevole ma non memorabile. In Pine Belt Blues la band torna a roccare e rollare, con una pattuglia di voci aggiunte che stimolano la brava Bette a darci dentro con più impeto, mentre in Everybody Needs Love, i pard Patton e Tew invitano il loro capo Patterson Hood a duettare con la Smith in un brano che come struttura sonora e melodia, anche se con un suono decisamente più grintoso, ha parecchie analogie nel ritornello con All You Need Is Love, se i Beatles avessero voluto farne un brano soul.

Per chiudere un’altra ballatona emozionale come Don’t Skip Out On Me, una storia di redenzione dove la nostra amica ha modo di mettere in mostra le sue indubbie doti vocali ancora una volta facendo ricorso ai ricordi dell’amato gospel della gioventù, e con uno splendido assolo di tromba, sempre di Westmoreland, che è la ciliegina sulla torta del brano, per un album complessivamente molto interessante e vario.

Bruno Conti

Torna La Band Di Austin Con Un Ennesimo Ottimo Album. The Band Of Heathens – Stranger

band of heathens stranger

The Band Of Heathens – Stranger – BOH Records

Nel 2018 avevano rivisitato con garbo e classe A Message From The People, uno dei capolavori assoluti di Ray Charles, riproposto attraverso la loro ottica sonora più rootsy e rock https://discoclub.myblog.it/2018/10/23/un-disco-storico-di-ray-charles-rivisitato-con-garbo-e-classe-band-of-heathens-a-message-from-the-people-revisited/ : due anni dopo i Band Of Heathens ritornano, con la produzione di Tucker Martine, che ha messo il suo stampo musicale, più etereo e ricercato sonicamente, con il nuovo album Stranger, registrato in trasferta per loro a Portland in Oregon, considerando che i cinque, originari di Austin, vivono tra California, North Carolina e Tennessee, e durante la pandemia si sono comunque abilmente ingegnati a realizzare una serie di video di deliziose cover, spesso con ospiti aggiunti, ognuno impegnato dalla propria casa, anche in concerti trasmessi in streaming (cercate su YouTube, perché meritano, per esempio una splendida versione di My Sweet Lord con Raul Malo, che vedete qui sotto.

Pandemia che indirettamente è in tema con il titolo del disco, che però è ispirato dal romanzo di Camus e da Straniero In Terra Straniera di Heinlein: Ed Jurdi e Gordy Quist, con le loro voci e chitarre, sono sempre alla guida della band, coadiuvati dalle tastiere di Trevor Nealon, che anche lui contribuisce vocalmente, come pure il bassista Jesse Wilson e il batterista Richard Milssap, alle intricate armonie che sono uno dei marchi di fabbrica del gruppo. Il suono è più complesso e con soluzioni più lavorate aggiunte da Martine, ma l’iniziale Vietnorm, scritta dal bassista Wilson, e con un marcato, benché non invasivo, impegno politico e sociale inconsueto nel loro songbook, immagina il ritorno di questo veterano del Vietnam Norm, che era un personaggio della sitcom Cheers, il tutto a tempo di scandito rock classico, con le solite influenze beatlesiane dei BOH, tra chitarre vibranti e fuzzy, tastiere insinuanti e melodie comunque molto piacevoli.

Ritmi sempre mossi anche in Dare, che tratta di fake news, di cui The Donald è (stato) uno specialista, armonie vocali mirabili, euforiche sonorità 60’s pop tra British invasion e Byrds/Buffalo Springfield, con chitarre tintinnanti e sound avvolgente.

La divertente Black Cat racconta la storia di un immigrato portoghese di più di 2 metri che fu tra i lavoratori impiegati nella costruzione del ponte di Brooklyn e poi entrò nella leggenda perché uccise a mani nude una pantera in un combattimento sotterraneo, il tutto naturalmente descritto a tempo di morbida psichedelia, tra spolverate di archi, tastiere misteriose, influssi orientaleggianti e chitarre che appaiono e scompaiono ai comandi di Martine.

Anche How Do You Sleep? tratta dei problemi della cattiva informazione, in una affascinante ballata elettroacustica, con goduriosi interscambi vocali tra Jurdy e Quist e spolverate di pop barocco, Call Me Gilded è una sorta di folk tune a tempo di valzer, sempre con le splendide armonie vocali della band presenti, magari con un leggero aumento del tasso zuccherino, ma sopportabile. South By Somewhere e Asheville Nashville Austin, sono entrambi brani che trattano della vita on the road, tra continui spostamenti per portare in giro la loro musica, e l’approccio è quello del sound classico della band, più roots e rock, anche se il produttore lavora più per aggiunta che per detrazione, benché mai in modo fastidioso, con una strumentazione ricca e ricercata, che vira in un country southern brillante nel secondo, dove appare anche una pedal steel https://www.youtube.com/watch?v=79uXntmFOYQ ; anche Truth Left tratta del tema dell’informazione, questa volta della sua eccessiva politicizzazione, una canzone vivace di impianto rock, con chitarre e tastiere a sorreggere le usuali ed eleganti divagazioni vocali del gruppo, con i consueti inserti orchestrali ed “effettistici” di Tucker Martine.

Today Is Our Last Tomorrow, tra arditi falsetti e le immancabili derive beatlesiane dei BOH, è sempre molto godibile, grazie anche a degli interventi decisi delle chitarre, mentre la conclusiva sognante ed ottimista Before The Day Is Done, con una voce femminile a renderla ancora più eterea, conferma questa svolta più ricercata e meno immediata del loro sound. Piacerà? Vedremo, comunque i Beatles avrebbero approvato e anche il sottoscritto ha apprezzato questo nuovo ottimo album della band di Austin.

Bruno Conti

Gli Anni Migliori Di Un Grandissimo Songwriter. John Prine – Crooked Piece Of Time

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John Prine – Crooked Piece Of Time: The Atlantic And Asylum Albums – Rhino/Warner 7CD Box Set

Una delle perdite più gravi di questo maledetto 2020 è stata certamente quella di John Prine, grandissimo singer-songwriter che al suo esordio era stato indicato come uno dei tanti “nuovi Dylan”, ma che in poco tempo riuscì ad affermarsi come uno dei più lucidi e talentuosi artisti in circolazione arrivando quasi al livello del grande Bob (che tra parentesi è sempre stato un suo sincero ammiratore). Oggi non sono qui per commemorare la figura di Prine (a tal proposito vi rimando al mio post di aprile https://discoclub.myblog.it/2020/04/08/uno-dei-piu-grandi-cantautori-di-tutti-i-tempi-a-73-anni-ci-ha-lasciato-anche-john-prine-ed-un-ricordo-di-hal-willner/ ), ma per parlare nel dettaglio del cofanetto da poco uscito Crooked Piece Of Time, un pratico box in formato “clamshell” che include i primi sette album del cantautore di Chicago, quattro pubblicati in origine dalla Atlantic e tre dalla Asylum, che vanno a formare il suo periodo sicuramente migliore e più fertile. I sette dischetti sono stati opportunamente rimasterizzati e sono presentati in pratiche confezioni simil-LP, con all’interno tutti i testi (tranne che nell’album Pink Cadillac) e con accluso un libretto che comprende le tracklist disco per disco (ma non i musicisti) ed un bel saggio dell’ormai onnipresente David Fricke, oltre ad un bellissimo ritratto di John in copertina realizzato appositamente per questo box dal pittore Joshua Petker.

Ma veniamo nel dettaglio al contenuto musicale del cofanetto (che ha anche un prezzo interessante, circa 40 euro).

John Prine (1971). Messo sotto contratto dalla Atlantic, che lo ha notato come opening act dei concerti di Kris Kristofferson, Prine entra in studio con il famoso produttore Arif Mardin (che sarà presente anche nei due album seguenti) e con musicisti del giro di Elvis (Reggie Young, Bobby Emmons, Bobby Wood e Gene Chrisman), oltre all’amico e collega Steve Goodman. John Prine è uno dei debutti più fulminanti della storia della nostra musica, il classico album da cinque stelle che a posteriori sembra più un greatest hits che un disco nuovo. Un vero capolavoro, con canzoni formidabili come Illegal Smile, Hello In There (il brano più bello di sempre sulle persone anziane), Sam Stone (pezzo del quale Roger Waters, grande fan di John, ha ripreso la melodia pari pari per la sua The Post War Dream, che apriva The Final Cut dei Pink Floyd), Paradise, Far From Me, Angel From Montgomery e Donald And Lydia: una sequenza impressionante, canzoni che molti autori non scrivono in una carriera intera.

Ma nel disco ci sono altri brani strepitosi come l’irresistibile country song Spanish Pipedream, l’elettrica Pretty Good (questa sì dylaniana), la divertente Your Flag Decal Won’t Get You Into Heaven Anymore, la prima di una lunga serie di canzoni dal testo esilarante, la vivace e swingata Flashback Blues.

Diamonds In The Rough (1972). Album diverso nelle sonorità rispetto al precedente, in quanto John si presenta con un ristretto gruppo di musicisti (tra i quali figura anche David Bromberg) e mette a punto un album influenzato dalla musica folk, country e bluegrass delle origini, nel suono più che nelle canzoni che sono tutte sue tranne la title track che è della Carter Family.

Anche qui i pezzi da novanta non mancano, come il puro country della limpida Everybody, la classica Souvenirs, una delle sue ballate più note, il scintillante folk tune The Late John Garfield Blues, le graffianti bluegrass songs The Frying Pan e Yes I Guess They Oughta Name A Drink After You, la deliziosa Billy The Bum, solo voce, chitarra e dobro ma un mare di feeling e l’intensa The Great Compromise, con John in completa solitudine.

Sweet Revenge (1973). Prine torna a sonorità più elettriche con un altro splendido disco, il migliore della decade dopo l’inarrivabile esordio, con sessionmen di Nashville non famosissimi ma che cuciono intorno alla voce del nostro un accompagnamento perfetto. L’album parte alla grande con il rock-soul-gospel della title track e poi mette in fila una serie di canzoni di primissima qualità: Please Don’t Bury Me e Grandpa Was A Carpenter sono due country-rock irresistibili, Dear Abby, acustica e dal vivo (a New York) fa morire dal ridere, Christmas In Prison è una delle sue migliori ballate di sempre.

Ma poi c’è l’ariosa Blue Umbrella che è una country song semplicemente sublime, il rock’n’roll di Onomatopeia, il delizioso valzerone The Accident, la pura e cristallina Mexican Home, per concludere con una trascinante cover del classico di Merle Travis Nine Pound Hammer.

Common Sense (1975). Registrato tra Memphis e Los Angeles con la produzione del grande Steve Cropper, questo album non contiene superclassici ma è sempre stato uno dei miei preferiti grazie ad una qualità compositiva media decisamente alta e ad un suono più rock del solito, merito anche degli interventi dello stesso Cropper, del bassista suo compagno negli MG’s Donald “Duck” Dunn, di Rick Vito alle chitarre, di una sezione fiati e con il contributo alle backing vocals da parte di Jackson Browne, Glenn Frey, J.D. Souther e Bonnie Raitt.

Gli highlights sono il rockin’ country con fiati dal sapore sudista Middleman, la squisita e solare ballata che intitola il disco, dal mood californiano (non per nulla partecipano Browne, Frey e Souther), l’honky-tonk Come Back To Us Barbara Lewis Hare Krishna Beauregard, dallo strepitoso ritornello con la Raitt alla seconda voce, le vibranti rock ballads Wedding Day In Funeralville e My Own Best Friend, quest’ultima con un godurioso intreccio di chitarre elettriche e slide, la caraibica e scoppiettante Forbidden Jimmy, l’errebi rockeggiante della notevole Saddle In The Rain e la stupenda ballata He Was In Heaven Before He Died, degna di stare sul primo album del nostro. Finale a tutto rock’n’roll con una travolgente cover di You Never Can Tell, classico di Chuck Berry.

Bruised Orange (1978). Prine, scontento di come la Atlantic gestisce la sua figura, si accasa alla Asylum per tre dischi (e le cose non andranno meglio), tentando senza successo di fare un disco con la produzione di Cowboy Jack Clement. Un po’ sfiduciato dall’esperienza John torna a Chicago e chiede aiuto all’amico Steve Goodman, che gli produce questo Bruised Orange che si rivela un altro grande lavoro, solo di poco inferiore a Sweet Revenge.

Si inizia alla grande con lo strepitoso country-rock cadenzato di Fish And Whistle ed il livello si mantiene alto anche alla distanza. There She Goes è un western swing decisamente gustoso, If You Don’t Want My Love, scritta insieme a Phil Spector, una languida ballata che svela il lato romantico di John, mentre le splendide That’s The Way The World Goes ‘Round, Bruised Orange e Sabu Visits The Twin Cities Alone sono giustamente entrate a far parte dei suoi classici. Infine, un cenno al brano che intitola questo cofanetto, che sembra Dylan con alle spalle The Band, ed alla deliziosa folk song The Hobo Song, con un maestoso coro che comprende ancora Browne ed anche Ramblin’ Jack Elliott.

Pink Cadillac (1979). Prine torna a Memphis e si fa produrre dai figli del mitico Sam Phillips, Jerry e Knox (ma due pezzi vedono alla consolle proprio il vecchio Sam): il problema però è che John questa volta non ha abbastanza materiale valido (ed anche quello che porta non è al livello solito), con il risultato che su dieci brani totali la metà sono cover.

Tra i pezzi originali segnalo la potente Chinatown, con chitarre e piano in evidenza, il rockabilly Automobile, l’elettrica e sanguigna Saigon e la ballata dal sapore soul Down By The Side Of The Road, forse il brano migliore del disco. Tra le cover spiccano i classici rock’n’roll Baby Let’s Play House e Ubangi Stomp e l’honky-tonk song di Floyd Tillman Cold War (This Cold War With You).

Storm Windows (1980). Ultimo album di John per una major prima di fondare la Oh Boy Records, Storm Windows è un altro disco splendido, registrato ai mitici Muscle Shoals Sound Studios di Sheffield, Alabama, sotto la produzione di Barry Beckett.

La ballata pianistica che intitola l’album è un mezzo capolavoro, ma poi abbiamo le due rock’n’roll songs Shop Talk e Just Wanna Be With You, una più coinvolgente dell’altra, la fulgida Living In The Future, brano rock tipico di Prine (quindi bello), la tersa ed incantevole country ballad It’s Happening To You, la cristallina Sleepy Eyed Boy, splendida anche questa, e la gentile One Red Rose.

Se non conoscete John Prine (ne dubito, se siete su questo blog) o più semplicemente non possedete tutti i suoi album, Crooked Piece Of Time è un cofanetto da non perdere.

Marco Verdi

Un’Altra “Scoperta” Dell’Infaticabile Mike Zito! Kat Riggins – Cry Out

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Kat Riggins – Cry Out – Gulf Coast Records

Anche in questo caso garantisce Mike Zito, che la produce e pubblica il disco per la propria etichetta: non è il primo album di Kat Riggins, ne ha già pubblicati almeno altri tre, più un EP e uno solo in streaming, ma la cantante nera (lo so che in tempi di politically correct qualcuno storce il naso, ma non è una offesa razzista, semplice constatazione che nella nostra musica si usa normalmente) si conferma una delle voci più interessanti delle nuove generazioni, benché la cantante della Florida abbia ormai compiuto 40 anni nel 2020, peraltro in ambito blues, soul e gospel, quelli che lei frequenta, direi quasi una giovinetta. Lo stile l’ho appena svelato, ma la Riggins ha quella che si suole definire “una voce della Madonna”, con inflessioni che rimandano a Koko Taylor, Etta James e Tina Turner, non esattamente le prime che passano per strada, ma in questo nuovo album prodotto da Zito, che ama le robuste sonorità rock, ci sono analogie pure con Dana Fuchs, Beth Hart e altre paladine del blues rock’n’soul moderno.

Prendiamo l’iniziale Son Of A Gun, ritmica rock gagliarda, riff di chitarra come piovesse, e la voce di devastante potenza della Riggins, Cry Out è un grande Texas blues, con Johnny Sansone all’armonica, brano che ricorda molto l’approccio della citata Koko Taylor, chitarra in primo piano, un organo vintage e la voce profonda e risonante sbattuta in faccia di Kat, che si trova a proprio agio anche nel funky fiatistico e sincopato di una brillante Meet Your Maker, voce che sale e scende, un tocco di raucedine che la rende sensuale, e grande controllo pure nel rock-blues tirato e cattivo di Catching Up, chiaramente farina del sacco di Zito che in questo tipo di brani ci sguazza e lascia andare la sua chitarra con libidine in un vibrante assolo, e anche l’heavy blues di Truth trasuda grinta e personalità, soprattutto quando si “incazza”, va beh diciamo si inquieta, e alza la voce. Dopo l’interludio a cappella di Hand In The Hand, non manca neppure il deep soul venato di gospel della splendida ballata Heavy dove si toccano profondità quasi alla Mavis Staples, fortificato dal ricercato lavoro alla slide di Zito e con un coro di voci di bambini ad aumentare nel finale il pathos del brano.

Nella di nuovo riffatissima Wicked Tongue arriva anche Albert Castiglia a dare una mano con la sua tagliente chitarra, che aumenta ulteriormente il tasso rock del pezzo con un assolo da sballo, mentre la band picchia di brutto e il testo cita anche la “maestra” Koko Taylor. Tornano i fiati e l’organo per la vibrante Can You See Me Now, sempre con chitarre fiammeggianti, che poi scatenano un pandemonio, come direbbe il buon Dan Peterson, nel robusto heavy blues della tirata Burn It All Down con il batterista Brian Zeilie che scandisce il tempo in modo granitico, ben spalleggiato dal bassista Doug Byrkit e dall’organo di Lewis Stephens spesso protagonista nell’album (in pratica la band di Mike), mentre Zito imperversa una volta di più. Molto bella anche la spumeggiante e con un groove quasi da revue alla Ike & Tina Turner On It’s Way, fiati in spolvero e un dinamico assolo di sax nella parte centrale, ma è un attimo e siamo al classico incrocio del blues, in un altro ottimo esempio di 12 battute con lo shuffle No Sale, dove ancora una volta non si prendono prigionieri e Mike Zito estrae il suo bottleneck per un’altra sfuriata delle sue e anche Sansone all’armonica si fa sentire, mentre la voce mi ha ricordato la Beth Hart più infoiata.

In chiusura un altro “lentone” intenso e ad alta intensità rock come The Storm, dove sembra che l’ottima Kat Riggins sia accompagnata dai Led Zeppelin per una scampagnata nei territori cari a Janis Joplin. Ottimo ed abbondante, assolutamente consigliato se amate le emozioni forti e la conferma che Zito raramente ne sbaglia una.

Bruno Conti

Più Di Dieci Anni Per Completarlo, Ma E’ Venuto Veramente Bene. Rev. Greg Spradlin & The Band Of Imperials – Hi-Watter

rev. greg spradlin and the band of imperials - hi-watter

Rev. Greg Spradlin & The Band Of Imperials – Hi-Watter – Out Of The Past Music

Jim Dickinson, grande amico e mentore di Greg Spradlin, muore nell’agosto del 2009: a questo punto il nostro amico decide che forse è arrivato il momento di completare quell’album che era in fase di registrazione da un po’ di tempo. Ma essendo un tipico rappresentante del Sud degli States (viene da Little Rock, Arkansas, dove è stato registrato parte dell’album, il resto sulle colline di Silverlake, nei pressi di LA, anche se non manca un certo spirito Swamp), più di tanto non può accelerare le procedure, anche per una lunga serie di contrattempi, anche importanti, comunque canzone dopo canzone, e in un arco di tempo di nove anni, il lavoro procede, il Reverendo aveva coinvolto altri amici per registrare l’album: un altro bravo chitarrista, che come Spradlin sappia suonare anche il basso, e all’occorrenza la batteria, un certo David Hidalgo che suona nei Los Lobos potrebbe andare bene, ma un batterista comunque ci vuole, che ne dite di Pete Thomas degli Imposters di Elvis Costello, al basso Davey Farragher (con una r però), che suona anche lui con Costello, ma in passato con Hiatt e e di recente con Richard Thompson, se non può venire facciamo noi, per le tastiere Rudy Copeland, uno che ha suonato con Solomon Burke e Johnny Guitar Watson, scomparso nel 2018 e sostituito da Charlie Gillingham dei Counting Crows, anche lui alle tastiere.

A questo punto, per produrre l’album con Greg, pure lui dall’Arkansas, arriva Jason Weinheimer, che è anche un chitarrista e ha fatto dei dischi con Steve Howell https://discoclub.myblog.it/2020/09/21/tra-jazz-e-blues-acustico-un-trio-molto-raffinato-steve-howell-dan-sumner-jason-weinheimer-long-ago/ , e per mixare l’album, visto che nel frattempo, dopo una lunga gestazione, lo abbiamo finito, Tchad Blake, che ha già lavorato con Hidalgo. L’album, oltre ad essere finito, è venuto anche bene, esce per una piccola etichetta, dal nome propedeutico,Out Of The Past Music, quindi non sarà facile da trovare, ma questa miscela di soul classico, gagliardo rock, blues e musica della Louisiana funziona alla grande, e Hi-Watter è un disco che vale la pena di ascoltare. Scusate se forse vi ho tediato con la lista dei nomi, ma secondo me nella musica contano, eccome se contano: vediamo dunque le canzoni.

Gospel Of The Saint è una piccola meraviglia tra gospel e soul, con un call and respone tra due voci, quella di Greg e Rudy, in modalità Billy Preston, che evoca anche il sound degli Staple Singers, una chitarra pungente, l’organo scivolante di Copeland e il ritmo ondeggiante della ritmica che trasuda serenità e gioia, Hell Or Hi-Watter è uno dei pezzi più tirati e robusti, con chitarre acidissime e organo che ci danno dentro di brutto, mentre Stainless Steel è una soul ballad maestosa, quelle che solo nel deep South sanno fare (per la verità anche la Band sapeva come maneggiare questo materiale), la fisarmonica aggiunge quel tocco di fascino in più interagendo con organo e chitarra ispiratissimi, Jessica Lee, Holly Bradley e Ashley Courtney (non so dirvi quale delle tre o forse tutte) aggiungono un sapido tocco vocale femminile.

Per l’alternanza di brani lenti ed iniezioni rock I Drew Six è un sano rock and roll, come quelli che babbo Jim Dickinson aveva insegnato ai figli Luther e Cody, e quel po’ po’ di musicisti che suonano nel disco, soprattutto le chitarre, fanno sudare gli strumenti in una veemente scarica di R&R; la successiva Don’t Make Me Wait sarà mica una ballata? Certo che sì, una di quelle che Greg Spradlin ascoltava da ragazzino sui dischi Stax della mamma, ma anche di Sam Cooke e Solomon Burke, vista la frequentazione dell’organista Copeland con il “King of Rock ‘n’ Soul“, con Rudy che restituisce quello che ha imparato, a seguire il riff’n’roll della cadenzata Go Big, sempre con chitarre inc…ose e cattive che essudano suoni senza tempo, ma sempre attuali. What Would I Do indovinate, sarà mica un lento, questa volta si va sul blues, uno slow con chitarra d’ordinanza che ricorda il Clapton più ispirato dei primi anni ‘70, e che assolo ragazzi!

Sweet Baby interrompe l’alternanza, un brano che ci riporta al suono degli Stones “americani”, con il plus di un organo alla Garth Hudson, un’altra perla di canzone che conferma la classe di Greg Spradlin anche come chitarrista, che infine congeda l’ascoltatore con la lunga The Maker, una canzone dedicata all’Onnipotente, un formidabile brano dove David Hidalgo e Spradlin incrociano le loro soliste in un duello senza limiti di squisita fattura, che potrebbe rimandare alle sfide tra Betts e Allman, o anche a quelle dei Los Lobos più ispirati. Che aggiungere di altro, grande disco, veramente una bella sorpresa!

Bruno Conti