John Fahey – The Master Of The American Primitive Guitar. 1978 Live At Audimax Hamburg

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 John Fahey – 1978 Live At Audimax Hamburg -Blast First Petite

Quando la prima immagine si sofferma sul “solito” presentatore del leggendario Rockpalast non siamo alla Grugahalle di Essen ma nel più intimo Audimax di Amburgo e il pubblico è comunque numeroso e attento. In quel 17 marzo del 1978 sale sul palco quello che viene presentato come The Master Of The American Primitive Guitar ossia John Fahey, o meglio dovrebbe salire perchè quando l’immagine si apre e Alan Bangs (ovvero la “voce storica” del Rockpalast) lascia la sedia per fare posto al musicista in questione non succede nulla, il pubblico rumoreggia divertito perché evidentemente vede qualcosa che noi non vediamo, fuori dall’inquadratura della telecamera. Poi finalmente arriva un eccentrico signore barbuto, in giacca e con occhiali e qui parte un altro siparietto, prima con la preparazione delle sue chitarre e dei suoi fingerpicks, poi si toglie gli occhiali e confessa di avere paura di suonare e l’imbarazzo viene percepito da un pubblico divertito ma compartecipe che si diverte anche alla cerimonia della svestizione della giacca.

Poi però una delle “leggende” della musica popolare americana inizia a suonare e il tempo si ferma. Si ritorna alla fine degli anni ’50 quando un giovane musicista nativo di Washington ma cresciuto a Takoma Park pubblicò appunto per la Takoma Records da lui fondata il suo primo disco Blind Joe Death che avrebbe dato il via a una lunga storia durante la quale Fahey avrebbe scoperto e lanciato anche Peter Lang e Leo Kottke ma soprattutto pubblicato una serie incredibile e straordinaria di dischi dove la chitarra acustica venne sviscerata fino al profondo del suo essere in uno stile per cui venne coniato il termine “American primitivism” mutuandolo dalla pittura, una tecnica che fondeva le sue influenze, musica sinfonica, il blues delle origini, la musica popolare country e bluegrass imparata da Jimmie Rodgers e Bill Monroe, per trasformarli in fantastici florilegi di arpeggi sempre più complessi con il passare degli anni.

Torniamo sul palco, John Fahey è nel pieno della sua maturazione artistica anche se da lì a poco per motivi finanziari avrebbe dovuto vendere la Takoma. Il concerto si apre con On The Sunny Side Of The Ocean seguita senza soluzione di continuità dalla complessa Hawaiian Two Step, il pubblico sembra rapito dalla prodigiosa tecnica del chitarrista americana e si gode la lunga Lion dai complessi giri armonici e dalle intricate improvvisazioni di Wine And The Roses. Il regista si sofferma di tanto in tanto sulla “chierica” di Fahey ma perlopiù segue, spesso in primo piano, le evoluzioni delle mani sulla chitarra vera festa per gli appassionati dello strumento ma anche gli amanti della buona musica si ritrovano a gustare uno dei più grandi musicisti partoriti dalla scena americana in una serata di grazia.

Sono dieci brani che non vi sto a ricordare tutti anche perché mi sembra di averli già citati nella anticipazione sulla uscita e comunque i titoli non sono poi così importanti trattandosi di brani strumentali, giusto per la cronaca e cosa stiamo ascoltando a livello di repertorio. Circa a metà concerto cambia chitarra, sfodera il suo bottleneck e procede a dimostrare la sua tecnica anche alla slide con lo strumento utilizzato a mo’ di lap steel o dobro appoggiato sul grembo, poi torna alla chitarra “tradizionale” anche se nel suo caso il termine è riduttivo. Si tratta di circa un’oretta di musica o poco più con una interessante e breve intervista alla fine dove John Fahey con imbarazzo, timidezza ma anche piacere parla di Leo Kottke, che gli ha insegnato a suonare più veloce, Bill Monroe che è stata una delle sue maggiori influenze e il fatto che ancora dopo trenta anni la ricerca dei ritmi è il suo principale interesse e non la tecnica in sé stessa. Nel 1996 Fahey con l’eredità del padre fonderà anche la Revenant Records una etichetta nata con l’intento di pubblicare oscuri dischi di Blues e Old Time Music di artisti spesso dimenticati con cura e grande attenzione anche alle confezioni. Proprio la Revenant quest’anno, nel decimo anno dalla sua scomparsa, ha pubblicato quel bellissimo cofanetto quintuplo intitolato Your Past Comes Back To Haunt You: The Fonotone Years 1958-1965 che unito a questo eccellente DVD andrebbe investigato con assoluta urgenza. Se avete seguito e amato Jack Rose negli ultimi anni con John Fahey risalite alla genesi di tutta (o quasi) la musica acustica. Non è musica facilissima ma ne vale la pena perchè vi rende la giornata più “piena”!

Bruno Conti

Non C’é Il Due Senza Il Tre – Johnny Winter – Live At Rockpalast 1979

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Johnny Winter – Rockpalast: Legends Vol.3 – Mig Records

Ultimamente mi capita spesso di occuparmi di Johnny Winter, come recensore e appassionato.
Questo è il terzo disco di archivio che esce in un arco temporale ristretto (meno di un anno) dedicato al grande chitarrista albino texano. A differenza delle Bootleg Series giunte al volume 7 di cui non è sempre chiara la provenienza, questo doppio CD (ma esiste anche il DVD) fa il paio con lo straordinario Live At the Fillmore East 10/3/70 in quanto a qualità sonora (buona) e contenuti. Mentre il concerto del 1970 è uno dei momenti migliori in assoluto della carriera di Winter questo doppio Live è appena un gradino al di sotto.

Siamo alla Grugahalle di Essen, casa del leggendario Rockpalast, nella notte tra il 21 e il 22 aprile del 1979, nella stessa serata hanno già suonato la J Geils band e Patti Smith (non male come programma) che rimane sotto il palco, incantata e munita del suo clarinetto, per eventualmente fare una jam con Winter. Che, come racconta l’organizzatore della serata, chiede di vedere il filmato del concerto registrato da Muddy Waters nella sua apparizione al Rockpalast del 1978 e dichiara la sua soddisfazione per il sound della band di Waters con ben sette elementi e quindi la non necessità di provare lui che di elementi ne ha solo tre nel proprio gruppo. Proprio un paio di anni prima Winter aveva prodotto per la sua Blue Sky una trilogia di album per il veterano di Chicago, a partire dal notevole Hard Again, che rimangono tra le cose migliori della sua discografia. Non solo, con Nothin’ But The Blues aveva realizzato un disco che gli aveva fatto vivere una sorta di seconda giovinezza in parte bissata con il successivo White Hot and Blue.

Quindi il periodo è quello, nella piena maturità del texano che incappa in una serata magica e chiede ed ottiene dagli organizzatori che il suo concerto dagli 80 minuti originali si possa espandere fino alle due ore (come alla RAI, ma solo per le “mitiche” serate dei varietà del sabato sera, per la musica al limite la sfumano). Il trio vede l’immancabile Jon Paris al basso e Bob Torello alla batteria e il repertorio è eclettico e micidiale allo stesso tempo: si parte con una fantastica (e lunghissima) versione del classico di Freddie King Hideway con la chitarra di Johnny Winter che cesella una serie di assoli degni dell’autore del brano.

Si prosegue con una Messin’ With The Kid che fa il paio come potenza di tiro della chitarra e grinta nella voce con quella che faceva il compianto Rory Gallagher. Walkin’ By Myself non è da meno e nei 18 minuti di Mississippi Blues dimostra perché è giustamente considerato uno dei più grandi chitarristi bianchi di tutti i tempi. Lo ribadisce nella cover inconsueta di un brano di Sleepy John Estes Divin’ Duck e nella versione come sempre terrificante del suo cavallo di battaglia Johnny B Goode dove la potenza devastante del riff immortale di Chuck Berry viene sublimata dalla solista inarrestabile di Winter. E questo è solo il 1° CD.

Nel secondo si parte con una versione ipnotica della classica Suzie Q di Dale Hawkins ma che tutti conoscono nella cover (magnifica) che facevano i Creedence. Tanto per gradire 13 minuti, una versione breve!  Segue un brano che si chiama Drum Solo, e che mai sarà? Provate ad indovinare? I’m ready non è quella di Muddy Waters ma una versione a velocità supersonica del brano di Fats Domino, blues e rock and roll dall’impatto devastante. I ritmi invece di rallentare vengono ancora più esasperati con una tiratissima Rockabilly Boogie e con un brano intitolato Medley che è l’occasione per sfoderare la sua proverbiale maestria alla slide guitar. Conclude in gloria una versione nucleare del classico degli Stones Jumpin’ Jack Flash.

E se volete sapere, Patti Smith se l’è proprio dimenticata ai bordi del palco. Ma penso che sarà rimasta comunque soddisfatta come il resto del pubblico.Una cosa che non sapevo, il nome dell’etichetta non riguarda gli aerei, ma sta per Made In Germany, uno pensa le cose più incredibili e poi…

Per la cronaca, il vecchio Johnny non molla, l’avevo visto male al Crossroads Guitar Festival di Clapton ma sembra di nuovo in discrete condizioni, take a look!

Bruno Conti

Così Non Ne Fanno Più Molti! Rory Gallagher – The Beat Club Sessions

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Rory Gallagher – The Beat Club Sessions – Capo/Eagle Records/Edel

Rory Gallagher è stato sicuramente una delle figure più carismatiche della scena musicale blues-rock Britannica (irlandese per la precisione) dalla fine degli anni ’60 quando esordiva con i Taste, un grande power-trio nato sulla scia dei Cream e poi come leader di un gruppo che ha portato il suo nome fino alla sua prematura morte avvenuta nel 1995 per le complicazioni in seguito ad un’operazione per sostituire il suo fegato distrutto da anni di problemi con l’alcol.

Gallagher era una specie di eroe nazionale in Irlanda, per valutarne la portata basta ricordare che il giorno della sua morte tutte le televisioni nazionali sospesero le trasmissioni per dare la notizia della sua morte (BBC compresa) e i funerali furono trasmessi in diretta nazionale. Rory Gallagher è stato sicuramente uno dei musicisti bianchi che meglio hanno applicato la lezione del blues alle scansioni del rock realizzando, soprattutto nei primi anni, una serie di album che ancora oggi rimangono tra le cose migliori mai uscite nell’ambito di quel genere definito per convenzione rock-blues: dischi come i 3 dei Taste e tra la produzione solista, il primo omonimo, Deuce, Blueprint e Tattoo, e i fantastici Live In Europe e Irish Tour sono quasi indispensabili per chi è un appassionato di Blues(rock) e di chitarra in particolare.

In possesso di una tecnica irruente, torrenziale, quasi rude ma capace anche di grandi virtuosismi alla slide e con la chitarra acustica, Gallagher è stato sicuramente uno dei dieci più grandi chitarristi nella storia del genere. Dal vivo soprattutto era quasi irrefrenabile, una vera forza della natura, con i suoi immancabili camicioni di flanella spesso a quadrettoni rossi e neri (così l’ho visto al Lirico di Milano nel 1971), la sua Fender scrostata e arrugginita ma con un suono unico da cui era in grado di ricavare un torrente di note, la sua voce cruda e appassionata, i suoi concerti erano degli eventi per chi vi assisteva. Negli anni successivi alla sua scomparsa è già stato pubblicato del materiale inedito: penso al doppio disco delle BBC Sessions ma anche al DVD Live At Montreux e al cofanetto triplo di DVD che raccoglieva le sue partecipazioni al mitico Rockpalast. Il Beat Club era la trasmissione che ha preceduto il Rockpalast, registrato negli studi di Brema tra il settembre 1965 e il dicembre 1972 ha visto transitare nei suoi studi la storia della musica rock, da Jimi Hendrix ai Led Zeppelin, passando per Santana, Who e mille altri, spesso in playback ma molte volte anche in performances dal vivo inedite.

Questo CD di Gallagher raccoglie il meglio delle sue tre apparizioni nella trasmissione tra il maggio del 1971 e il dicembre del 1972: accompagnato dai fidi Gerry McAvoy al basso e Wilgar Campbell alla batteria sciorina il meglio dei suoi primi due dischi di studio, 10 originali e due cover per un totale di 12 brani. Esiste anche una pubblicazione gemella in doppio DVD che oltre a questi brani dal vivo contiene un secondo dischetto con la storia della sua carriera, si chiama Ghost Blues.

Tornando al CD, diciamo che è strepitoso, dalla partenza sparatissima con una scatenata Laundromat, uno dei suoi cavalli di battaglia, con la chitarra che fischia, urla e strepita con il suo sound inconfondibile e poi l’ottima Hands Up molto raffinata, quasi jazzata in alcuni passaggi chitarristici e ancora l’eccellente Sinnerboy dalla partenza in sordina che poi si scatena in un’orgia di slide guitar che nulla ha da invidiare a vituosi come Winter, Cooder o Landreth, anzi! Una pausa acustica con Just The Smile dove le sue origini irlandesi si palesano e il blues con armonica di I Don’t Know Where I’m Going e poi un fantastico slow blues come I Could’ve Have Religion ancora con la slide in overdrive. Used to Be è un altro di quei blues-rock riffatissimi che erano il suo marchio fabbrica, imperdibile mentre In Your Town con la sua andatura boogie era un altro dei suoi brani più noti, qui in una versione devastante ancora con il suono della slide a dettar legge mentre la ritmica macina ritmi forsennati.

Should’ve Learned My Lesson è uno slow blues che, anche in questo caso, non ha nulla da invidiare a quel capolavoro che si chiama Since I’ve been Loving You che trovate sul terzo capitolo degli Zeppelin, entrambi sono dei miracoli di equilibri sonori e virtuosismo nell’ambito del blues, senti che roba!

Crest of a wave è un’altra grande canzone, questa volta rock puro, mentre Toredown è uno dei classici con cui si sono misurati i grandi della chitarra e Messin’ With The Kid, altro cavallo di battaglia, uno dei pezzi blues-rock più irresistibili di tutti i tempi.

Da non perdere!

Bruno Conti