Savoy Brown – La Band Più Longeva Del British Blues! Parte I

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Proseguendo nella nostra serie di monografie dedicate ad una disamina di alcune delle principali band britanniche, inserite in quel filone che è stato appunto definito British Blues, dopo Fleetwood Mac https://discoclub.myblog.it/2019/06/28/in-attesa-del-cofanetto-inedito-atteso-per-lautunno-ecco-la-storia-dei-fleetwood-mac-peter-green-un-binomio-magico-dal-1967-al-1971-parte-i/ , Ten Years After https://discoclub.myblog.it/2013/03/13/alvin-lee-1944-2013-il-chitarrista-piu-veloce-del-mondo/ , e ovviamente John Mayall, con e senza Bluebreakers https://discoclub.myblog.it/2019/05/20/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-i/ , questa volta ci occupiamo dei Savoy Brown, una delle band più longeve, in attività già dal 1965 e a tutti gli effetti, come dicono i nostri amici inglesi “still alive and well”, ancora vivi e vegeti, con una media di una o due nuove uscite discografiche all’anno, l’ultima pubblicazione risalente a fine agosto 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/10/05/non-e-ancora-finita-eccoli-di-nuovo-savoy-brown-aint-done-yet/ . Naturalmente nel conteggio non inseriamo i Rolling Stones, che sono i più longevi di tutti, e che ultimamente un paio di capatine dalle parti delle 12 battute le hanno fatte: per essere pignoli mancherebbero i Chicken Shack, di Stan Webb e Christine Perfect, e tutta una serie di band e solisti, di culto o meno, che stanno ai margini di questa scena, o in quanto predecessori del fenomeno, Yardbirds, Animals, Pretty Things, Manfred Mann, “eredi”, dai Free ai Taste, tra i “minori” la Climax Blues Band, i Groundhogs e la Keef Hartley Band passando per Cream, Jeff Beck Group, Led Zeppelin, che però sono fenomeni a sé stanti; poi ci sarebbe la “second wave” del movimento, che partendo a metà anni ‘70 dai Dr. Feelgood, a inizio anni ‘80 approda a gente come la Blues Band e i Nine Below Zero. Magari dedicheremo una puntata al “Best Of The Rest”. Comunque bando alle ciance e veniamo alla vicenda dei nostri amici Savoy Brown: naturalmente mi sono fatto un bel ripasso riascoltando i loro album e ho avuto la conferma che i migliori album come sempre sono quelli di inizio carriera, per quanto punte di eccellenza più saltuarie, ci sono state anche negli anni successivi e nel clamoroso ritorno attuale.

Gli inizi, che coincidono proprio con gli “anni migliori” 1965-1970

Nel febbraio del 1965 Kim Simmonds, “lider maximo” e tuttora alla guida della band, decide di formare a Londra, insieme ad un gruppo di amici, quello che sarà il primo nucleo della sua futura creatura, nsieme a Bryce Portius, uno dei primi musicisti neri a fare parte di una band blues (rock) inglese, che era il vocalist, a cui si aggiungono il tastierista Trevor Jeavons, il bassista Ray Chappell, il batterista Leo Manning e John O’Leary all’armonica, molti dei quali non arriveranno neppure ad incidere, in un tourbillon di sostituzioni, il disco di debutto, che esce sotto il moniker di

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Savoy Brown Blues Band – Shake Down – 1967 Decca ***1/2 Il produttore, quasi inevitabilmente, è il deus ex machina della scena britannica, ovvero Mike Vernon, una garanzia. Undici brani, quasi tutte cover, meno due pezzi: uno The Doormouse Rides The Rails, firmato da Martin Stone, aggiunto come secondo chitarrista solo per questo primo album, poi troverà “fortuna” con i Mighty Baby, band a cavallo tra psych-rock e progressive, di cui se volete approfondire c’è un box di 6 CD At A Point Between Fate And Destiny – The Complete Recordings, con l’opera omnia https://www.youtube.com/watch?v=UnWMLRQ5eW0 . L’altro brano è la lunga Shake ‘Em On Down un traditional arrangiato collegialmente dalla band, con l’aiuto dell’ottimo pianista Bob Hall, che appare in tre brani del disco, in cui spiccano vibranti versioni di I Ain’t Superstitious, Let Me Love You Baby, Black Night, I Smell Trouble, Oh Pretty Woman, It’s All My Fault, ma tutto il disco è eccellente https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , con la formula della doppia chitarra, che viene riproposta per il successivo

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Getting To The Point – 1968 Decca ***1/2 dove come chitarrista arriva Dave Peverett (in futuro nei Foghat come Lonesome Dave Peverett), ottimo alla slide, e il suo socio Roger Earl alla batteria, anche lui poi nei coriacei Foghat. C’è anche un nuovo ottimo cantante Chris Youlden, mentre Bob Hall rimane in pianta stabile, con il nuovo bassista Rivers Jobe. Come vedete il bandleader Simmonds applicava la formula della rotazione, come Mayall con i Bluesbreakers; la band eccelle negli slow blues, dove si apprezza la tecnica sopraffina di Simmonds e la voce potente di Youlden, tipo l’iniziale Flood In Houston https://www.youtube.com/watch?v=pEVKNz0fyZw , Honey Bee di Muddy Waters, Give Me A Penny dove sembra di ascoltare il Jeff Beck Group, la potente Mr. Downchild con doppia chitarra https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , ma anche i pezzi più mossi come You Need Love di Willie Dixon, brano poi trasformato dagli Zeppelin in Whole Lotta Love prendendo spunto soprattutto dalla versione degli Small Faces, ma anche da questa https://www.youtube.com/watch?v=r0AQL0RnXMU . L’anno successivo, con l’innesto di Tone Stevens, viene realizzato

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Blue Matter – 1969 Decca **** che viene considerato (insieme al disco successivo) il loro capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=N7wTOiYavCs&list=OLAK5uy_lrUqtRSmh00t70YCyznMN_4s_sjHEpfUE . L’uno-due iniziale con l’accoppiata Train To Nowhere e la minacciosa Tolling Bells è da sballo, ma spiccano anche le cover di Don’t Turn From Your Door di John Lee Hooker, e nella sezione live una superba Louisiana Blues di Mastro Muddy, con le chitarre di Kim e Dave che si inseguono, brano che è tuttora uno dei loro cavalli di battaglia, ottima anche una incendiaria It Hurts Me Too e il brano di Peverett May Be Wrong dove la band tira di brutto. Lo stesso anno, a distanza di pochi mesi, esce anche

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A Step Further – 1969 Decca **** altro disco che prosegue nella collaudata formula studio + live https://www.youtube.com/watch?v=Uybbl1wHWLo . E’ l’ultimo disco con Bob Hall al piano, che faceva da trait d’union tra il loro animo blues e quello più rock: Youlden firma quasi tutte le tracce della prima facciata in studio, tra cui spicca il solito “lentone” intenso Life’s One Act Play, dove appaiono anche gli archi, e spicca un assolo fantastico di Kim, e insieme a Simmonds, il vero tour de force Savoy Brown Boogie, registrato dal vivo a Londra nel Maggio 1969, un lungo medley ribollente di oltre 22 minuti, che incorpora Feel So Good, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Little Queenie. Purple Haze e Fernando’s Hideway. I Savoy Brown ai vertici della loro potenza, quando competevano alla pari con Ten Years After e Fleetwood Mac, con in più la presenza di Chris Youlden che era un cantante fantastico, sentire per credere., anche se poi la sua carriera solista sarà del tutto deludente. Ma prima di abbandonare registra ancora con loro nel 1969 l’ottimo

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Raw Sienna – 1970 Decca **** non più prodotto da Vernon, ma da Youlden e Simmonds, entrambi anche al piano in alcuni brani, oltre a scrivere la totalità delle canzoni: anche se qualcuno azzarda che Youlden avesse “problemi” di dipendenza e forse fu questa una delle ragioni del suo mancato successo come solista. In effetti in questo album troviamo Needle And Spoon, brano ricercato, come altri presenti nel disco, meno portato al boogie e più rivolto verso il formato canzone https://www.youtube.com/watch?v=R4rQvaL9qxE , come ribadiscono la fiatistica A Litte More Wine, dove Peverett va di slide alla grande, con il supporto di Youlden al piano, in un pezzo in stile Chicago o Blood, Sweat And Tears, come pure That Same Old Feelin’, con grande solo di Kim, reiterato nella superba Master Hare, dove appaiono anche gli archi, mentre anche l’ottima Is That So di Simmonds non scherza, un lungo brano strumentale molto raffinato con forti elementi jazzy. Tutto l’album è comunque solido e centrato, tra i loro migliori.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Da New York A Memphis, Tra Blues E Soul! King Solomon Hicks – Harlem

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King Solomon Hicks – Harlem – Mascot/Provogue

La Mascot/Provogue è sempre più lanciata nella ricerca di chitarristi e cantanti di talento da inserire nel proprio roster: l’ultimo, King Solomon Hicks, come orgogliosamente annuncia il titolo del suo” primo” album per l’etichetta americana, Harlem, viene proprio dal quartiere della Grande Mela, noto anche come la Upper Side di Manhattan, dove il giovane musicista di colore sotto la guida della madre ha iniziato a muovere i suoi primi passi fin da ragazzino, arrivando a pubblicare un disco già nel 2010, Embryonic, come chitarrista della Cotton Club All-Star Band, quando di anni ne aveva solo 14. Ora ne ha 24 e sulla copertina del nuovo album è ripreso con una chitarra che da lontano sembra una Gibson, ma in effetti è una Benedetto GA35, fatta a mano dall’omonimo maestro liutaio. E il disco è un misto di blues, jazz, soul, molto rock, gospel, funky, R&B, Il tutto al servizio di una voce calda e matura, e di uno stile chitarristico eclettico e sfavillante, dove tutte le componenti citate vengono messe in fila dall’ottimo produttore Kirk Yano.

Ed ecco quindi scorrere un misto di materiale classico e brani originali firmati da Hicks, accompagnato da una band dove militano elementi provenienti da Soullive, Lettuce, le band di Jack White, Hank Williams Jr e altri, più in un brano, come ospite, il vecchio batterista di Savoy Brown/Foghat Roger Earl. Nella presentazione del disco King Solomon ricorda che in questa fusione di stili vorrebbe inserire anche elementi più” moderni”, contemporanei rispetto al suono classico, ma, fortunatamente, mi sembra non ci siano riusciti: l’iniziale I’d Rather Be Blind (da non confondere con I’d Rather Go Blind di Etta James) è un pimpante brano dello stesso Hicks, tra blues e R&B, può ricordare lo stile Stax di Albert King, ma anche il suono Delmark dei primi anni ’70, piano e organo in bella evidenza, un ritmo scandito, la voce calda e suadente di Hicks, sembra quasi un brano uscito da Muscle Shoals (manco a dirlo), la chitarra disegna linee e licks classici senza cadere mai nello scontato, mentre una vibrante Everyday I Have The Blues è meno “swingata” rispetto a quella di B.B. King, decisamente più veloce e vicina agli stilemi delle band rock, con la solista in grande spolvero in una serie di interventi gagliardi, quasi allmaniani nel loro dipanarsi.

What The Devil Loves è un potente brano tra rock, blues e R&B, scritto da Fred Koller, con un magnifico Earl alla batteria e un impeto fluido e torrenziale nella chitarra del nostro; 421 South Main, uno dei pezzi originali, è un veloce shuffle battente con un florilegio di soliste furiose e un suono palpitante, mentre Love You More Than You’ll Ever Know, è proprio il brano di Al Kooper scritto per i Blood; Sweat & Tears, che negli ultimi anni sta vivendo una seconda giovinezza ( di recente Bonamassa e Gary Moore, ma in passato anche Donny Hathaway), la eccellente versione di Hicks ha tocchi jazzy e latineggianti alla Santana, ma anche un timbro di chitarra tra Peter Green e Moore, spaziale e lancinante al contempo. Headed Back To Memphis è un “bluesone” di quelli duri e puri, tosto il giusto, che illustra questo viaggio musicale da Harlem a Memphis con grinta e grande carica, sia vocale che strumentale, a riprova di una classe innata del giovane Solomon, che si difende egregiamente anche nel settore funky con una versione carnale del vecchio brano di Gary Wright Love Is Alive, che diventa uno strumentale tra sax e chitarrine wah-wah impazzite, sonorità sognanti un attimo e carnali e sensuali quello successivo.

Have Mercy On Me, se mi passate l’ossimoro, è un” indiavolato” gospel-rock preso a velocità da ritiro della patente, con Hicks e i suoi accoliti che ci danno dentro alla grande, e pure Riverside Drive quanto ad intensità non scherza, altro strumentale poderoso con la solista pungente del giovane King Solomon di nuovo in grande spolvero in sonorità quasi futuribili ed hendrixiane, ottimo pure It’s Alright , altro fremente e scandito blues di ottima fattura. In conclusione troviamo una versione ardente e magnifica di Help Me, il classico di Sonny Boy Williamson, riletto con grinta, feeling e una perizia tecnica alla chitarra veramente ammirevoli. Il disco esce il 13 marzo.

Bruno Conti