Ecco Un Disco Che Para Normale Ma Bada Ben Bada Ben Bada Ben…E’ Normale! Alice Cooper – Paranormal

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Alice Cooper – Paranormal – Ear Music/Edel 2CD

(NDM: la settimana scorsa ho introdotto il nuovo singolo di Mick Jagger con una frase rubata a Renzo Arbore, mentre questa volta non ho resistito e, giocando con il titolo del disco, ho utilizzato il tormentone di Ezio Greggio nei panni di Mr. Taroccò, nella gloriosa trasmissione anni ottanta Drive In).

Oggi mi occupo di un artista che farei ricadere nella categoria “piaceri proibiti”, grazie alla consueta magnanimità di Bruno: c’è da dire che solitamente tendo a non approfittare del suo buon cuore, trattando solamente di dischi che, pur se da una diversa angolazione, si possono in ogni caso far ricadere all’interno dell’immenso calderone della buona musica, anche se poi i gusti sono sempre gusti. La carriera di Vincent Damon Furnier, meglio conosciuto come Alice Cooper, ha attraversato diverse fasi: a parte gli esordi sotto l’ala protettiva di Frank Zappa (uno che il talento lo sapeva riconoscere), la sua golden age furono certamente i primi anni settanta, con dischi come Love It To Death, School’s Out, Billion Dollar Babies fino al capolavoro Welcome To My Nightmare, album grazie ai quali inventò praticamente un genere, lo shock-rock, legato più ai testi ed alle esibizioni dal vivo teatrali e grandguignolesche, appunto scioccanti per l’epoca (ma con una gran dose di ironia, cosa che ovviamente non fu capita dalla maggior parte dei “benpensanti”), che alla musica registrata in studio, che era sì rock duro, ma neanche più di tanto (per fare un esempio, sia Deep Purple che Black Sabbath all’epoca erano molto più “pesanti”).

Nella seconda parte della decade, complici anche i problemi personali legati all’alcolismo, la musica di Cooper scivolò verso un rock più prevedibile anche se non disprezzabile, con via via sempre più elementi pop e perfino new wave, ma con sempre minori vendite. Il successo ritornò dal 1986 in poi, allorquando Alice si reinventò come uno dei portavoce dell’allora imperante “hair metal”, con dischi come Constrictor e soprattutto Thrash (trainato dal famoso singolo Poison): praticamente un altro cantante. Dagli anni novanta ad oggi Cooper ha gestito la sua immagine sfornando album sempre di buon successo, ma quasi sempre all’insegna di un heavy rock piuttosto prevedibile, anche se le zampate non sono mancate, soprattutto quando il nostro si è ispirato alle sonorità anni settanta (come in The Last Temptation del 1994 e soprattutto in Welcome 2 My Nightmare del 2011, chiaro seguito del famoso album del 1975, e fino ad oggi il suo ultimo lavoro, a parte il divertissement degli Hollywood Vampires insieme a Joe Perry e Johnny Depp). Oggi Alice torna con questo Paranormal, e se ho deciso di parlarne sul blog è perché si tratta di un disco ben fatto, di rock’n’roll un po’ meno hard del solito (ma comunque molto potente), un album che, pur non essendo un capolavoro, si lascia ascoltare secondo me con piacere, grazie anche alla sua durata breve (solo 34 minuti, ma come vedremo c’è un’appendice).

La produzione è nelle mani esperte di Bob Ezrin, che è anche l’uomo dietro tutti i migliori dischi di Cooper, Welcome To My Nightmare compreso, e vede la partecipazione di ospiti importanti quali Larry Mullen, il batterista degli U2 (in quasi tutti i brani), il bassista dei Deep Purple, Roger Glover, il leader degli ZZ Top, Billy Gibbons, oltre al chitarrista Steve Hunter (già con Alice, e con Lou Reed, negli anni settanta, è uno dei due di Rock’n’Roll Animal) e la originale Alice Cooper Band al completo in alcuni brani (meno Glen Buxton che non è più tra noi). E poi c’è Vincent/Alice, che canta in maniera normale e senza calcare troppo sull’aggressività e, piaccia o no, è sempre un personaggio di grande carisma. Il disco si apre con la title track, una rock ballad vigorosa dal ritmo in crescendo e suono molto “classic rock”, perfetta per i concerti, con Cooper che canta con voce regolare un motivo che “acchiappa” all’istante, e con una bella accelerazione sul finale. La breve Dead Flies è potente e sostenuta, anche se è priva di una vera e propria melodia: Alice se la cava comunque con mestiere, ma non è tra le mie preferite (ma i fan più metallari la apprezzeranno); Fireball invece unisce forza, ritmo e songwriting, un rock’n’roll tutto adrenalina e chitarre, non male, mentre Paranoiac Personality, che è il primo singolo, ha un inizio che rimanda ai seventies, ritmo cadenzato ad Alice che canta con il suo tipico stile, ed il pezzo risulta godibile grazie anche al ritornello.

La chitarra inconfondibile di Gibbons introduce Fallen In Love, un rock-blues roccioso e decisamente elettrico (le chitarre sono tre), un brano che non è distante dagli ZZ Top più duri, Dynamite Road ha quasi un mood punk-rock, con il nostro che gigioneggia da par suo, mostrando di avere ancora energia da vendere nonostante l’età non più verde, Private Public Breakdown ha un bel riff ed un motivo tra i più immediati, niente di trascendentale ma anche questo è rock’n’roll. La ficcante Holy Water ha addirittura una sezione fiati ed è tra le meno dure, mentre Rats è un altro rock’n’roll con un’alta dose di steroidi e sezione ritmica formato macigno; la conclusiva The Sound Of A è una suggestiva ballata tipica di Cooper, con un’atmosfera cupa e viziosa ma intrigante. Questo per quanto riguarda il Paranormal vero e proprio, ma c’è anche un secondo CD (non è un’edizione deluxe, pare che non esista proprio in versione singola) con altri due brani in cui il nostro è con la sua band originale, e sono tra i migliori: Genuine American Girl è un rockabilly neanche tanto hard, decisamente trascinante ed orecchiabile (forse la mia preferita), You And All Of Your Friends è più classica, ma ha un buon tiro ed un bell’assolo di slide di Steve Hunter. Ci sono anche sei brani registrati dal vivo a Columbus, Ohio nel 2016, No More Mr. Nice Guy, Under My Wheels, Billion Dollar Babies, Feed My Frankenstein, Only Women Bleed, School’s Out, sei classici del passato nei quali Alice spinge decisamente di più sul pedale dell’heavy rock, così da accontentare anche i fans più giovani che magari resteranno dubbiosi davanti al sound “classico” di Paranormal, disco che invece per il sottoscritto è tra i più positivi di Alice Cooper, almeno negli ultimi trent’anni.

Marco Verdi

Il Loro Canto Del Cigno? Se Sarà Così, Un Addio Con Stile! Deep Purple – Infinite

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Deep Purple – Infinite – earMUSIC/Edel CD – CD/DVD – 2LP/DVD – Box Set CD/DVD/2LP

Nel 2013 i Deep Purple, leggendaria band hard rock Britannica, diedero alle stampe l’ottimo Now What?! dopo un silenzio discografico di ben otto anni http://discoclub.myblog.it/2013/05/16/finalmente-un-disco-come-si-deve-deep-purple-now-what/ , un album che per molti (incluso il sottoscritto) era il migliore dall’addio definitivo di Ritchie Blackmore avvenuto nel 1993 (sostituito da Steve Morse, ex Dixie Dregs e terzo americano della storia del gruppo dopo Tommy Bolin e Joe Lynn Turner), anche se Purpendicular del 1996 e soprattutto Abandon del 1998 hanno molti estimatori tra i fans della nota band: di sicuro Now What?! era il migliore da quando Don Airey aveva preso il posto di Jon Lord alle tastiere, lasciando il drummer Ian Paice come unico membro presente in tutte le configurazioni del gruppo (anche se il cantante Ian Gillan ed il bassista Roger Glover sono ormai considerati alla sua stessa stregua, ben pochi si ricordano oggi di Rod Evans e Nick Simper). Now What?! era un solido disco di hard rock classico nel più puro “Purple style”, merito anche della scelta vincente di affidarsi ad un produttore esperto come Bob Ezrin, uno che è famoso per non soffrire di alcuna soggezione rispetto a chi ha di fronte, e che se una canzone fa schifo te lo dice in faccia anche se ti chiami Lou Reed, Roger Waters, Gene Simmons, Paul Stanley, Alice Cooper o Peter Gabriel (per citare gente prodotta da lui in passato, non esattamente personaggi dal carattere accomodante, forse con la sola eccezione di Cooper).

Quel disco deve aver fatto tornare ai nostri l’ispirazione, se è vero che dopo “soli” quattro anni ci riprovano con Infinite, che da alcune voci messe in giro (forse ad arte) potrebbe essere il loro ultimo lavoro, indiscrezione confermata dal nome scelto per il tour che partirà a Maggio, The Long Goodbye, che però potrebbe anche essere ironico dato che la storia del rock è piena di finti addii alle scene. A parte queste considerazioni, Infinite conferma l’ottimo stato di forma del quintetto, un album anche superiore al precedente, con una bella serie di canzoni nello stile che ha reso famosi i Purple, i quali però sono stati attenti a non limitarsi a riciclare il loro suono, ma sono riusciti a tenere alto il vessillo della creatività ed a rimanere attuali pur nella loro classicità, grazie anche alla decisione di proseguire la collaborazione con Ezrin anche per questo disco. Paice e Glover si confermano una delle sezioni ritmiche più devastanti della storia, Morse è un chitarrista coi controfiocchi e dal suono pulito e lirico, Airey un tastierista della Madonna, forse l’unico in quell’ambiente in grado di sostituire a dovere Lord, mentre Gillan con l’età è (giocoforza) diventato praticamente un altro cantante rispetto al passato, molto meno screamer ma con un timbro dalle tonalità più basse e calde. Un bel disco di hard rock classico quindi questo Infinite (che esce nelle solite molte versioni più o meno deluxe, con anche un DVD che racconta il making of del disco, ma senza canzoni aggiunte), niente di nuovo sotto il sole ma quello che c’è è fatto benissimo, anche perché non credo che qualcuno si aspettasse novità rivoluzionarie nel 2017 da parte di un gruppo in giro bene o male da cinquant’anni.

L’album inizia con la già nota (è in giro da qualche mese ormai) Time For Bedlam, introdotta da un’inquietante voce robotica, un uptempo potente e dal ritmo pressante, con la timbrica inconfondibile di Gillan ed una parte strumentale fluida (belle le parti di chitarra, ma sarà una costante), che mescola classico e moderno: un buon inizio, anche se mi aspetto di meglio. Ed il meglio arriva già con Hip Boots, altra granitica rock song contraddistinta dal tipico Purple sound, ottimi interplay tra chitarra ed organo, Glover e Paice che pestano di brutto e Gillan che sopperisce con il mestiere all’impossibilità di raggiungere ancora le note più alte; molto bella All I Got Is You, che ha un inizio epico ed emozionante dominato dall’organo di Airey, che accompagna alla grande la costante crescita ritmica del brano, poi entra Ian che intona una melodia molto discorsiva, e non manca neppure la solita parte strumentale scintillante, ma anche creativa: hard rock sì, ma di gran classe. One Night In Vegas è un rock-blues roccioso, con i nostri che marciano spediti come treni, Airey e Morse in gran forma, per uno dei brani più diretti del CD, mentre Get Me Outta Here non abbassa la guardia e ripropone i Deep Purple più classici, dove solo apparentemente ognuno va per conto suo, ma poi ci si accorge che fa tutto parte di uno schema preciso (e Paice qui è incontenibile).

The Surprising è forse il capolavoro del disco, una straordinaria ballata ricca di pathos con Gillan che canta magnificamente, uno dei pezzo migliori dei nostri da trent’anni a questa parte: l’accelerazione strumentale dopo due minuti e mezzo poi è da applausi, con Morse che non fa rimpiangere Blackmore, e non manca un languido assolo pianistico che è la ciliegina sulla torta. Ottima anche Johnny’s Band, mossa, diretta e chitarristica, forse il pezzo più immediato ed orecchiabile, altra conferma del notevole stato di forma dei cinque; la roboante On Top Of The World è rock duro in giacca e cravatta, classe pura, mentre la maestosa Birds Of Prey mostra ancora elementi blues ed una grinta per nulla scalfita dall’età, anche se la parte recitata alla fine del brano poteva anche non esserci. Gran finale con una splendida cover di Roadhouse Blues dei Doors (è raro che i nostri inseriscano brani di altri nei loro dischi, anche se il loro primo successo è stata proprio una cover, Hush), rilettura potente e tonica di un classico senza tempo, con i nostri che riescono nel non facile compito di personalizzare un brano che conoscono anche le pietre (ed Airey è strepitoso al pianoforte). Grandissima versione, degna conclusione di un disco di vero rock anni settanta, suonato come solo i Deep Purple sanno fare.

Marco Verdi

Finalmente Un Disco Come Si Deve! Deep Purple – Now What?!

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Deep Purple – Now What ?! – EarMusic CD/DVD

Uno degli eventi dell’anno, almeno per gli appassionati di quello che ultimamente viene definito Classic Rock, è indubbiamente il nuovo album di studio dei Deep Purple, a ben otto anni da Rapture Of The Deep.

Bisogna innanzitutto dire che c’era un po’ di scetticismo sulla reale capacità della storica band inglese di sfornare ancora canzoni degne di essere pubblicate, specie dopo che gli unici due lavori del nuovo secolo, Bananas e appunto Rapture Of The Deep, erano forse gli episodi più scadenti della loro discografia, insieme a The House Of Blue Light del 1986 (non considero l’album del 1990 Slaves And Masters, in quanto più che un brutto disco dei Deep Purple era un discreto disco dei Rainbow): i Purple stessi sembravano poco convinti, almeno fino ad un anno fa, di rientrare in studio e mettersi di nuovo in gioco, ed il titolo del nuovo CD, Now What?!, ironizza sulle richieste che venivano fatte in continuazione alla band circa i progetti futuri.

Le prime avvisaglie che le cose potevano andare per il verso giusto si sono avute quando è stato svelato il nome del produttore: Bob Ezrin è una specie di leggenda per certo tipo di musica, ha lavorato, tra gli altri, con Lou Reed, Alice Cooper, Kiss e Pink Floyd, ed è uno che difficilmente produce delle ciofeche. Ebbene, credeteci o no, Now What?! è un gran bel disco, ispirato, potente, con il classico Purple-sound che esce da ogni nota, dove quasi tutto funziona a meraviglia (un solo brano brutto su undici, dodici nell’immancabile edizione deluxe, è una bella media dopo 46 anni di carriera). Un disco non certo inferiore ai primi due del periodo post-Blackmore (Purpendicular ed Abandon), ma forse addirittura un gradino sopra: la cosa più stupefacente, dato che il manico dei cinque nel suonare e la perizia di Ezrin li davo per scontati, è la bontà delle canzoni, particolare fondamentale per fare un bel disco, ma abbastanza latitante negli ultimi lavori del gruppo.

Sul fatto che Ian Paice (unico membro originale rimasto, anche se per tutti i veri Purple sono quelli del Mark II) e Roger Glover fossero ancora due macigni non c’erano dubbi, come non ce n’erano sulla bravura e sulla tecnica di Steve Morse (anche se per me il chitarrista dei Deep Purple rimarrà sempre Blackmore), mentre a stupire è la forma di Ian Gillan, anche se tirate alla Child In Time non se le può più permettere da anni, e soprattutto il tastierista Don Airey, sostituto di Jon Lord (a cui il disco è dedicato) dal 2002. Si sa che Airey non è un pivellino, ha suonato con mezzo mondo (Whitesnake, Black Sabbath, Rainbow, Jethro Tull, iniziando negli Hammer con Cozy Powell e nei Colosseum II), ma che riuscisse a non far rimpiangere Lord non pensavo: il suo organo è il protagonista assoluto di quasi tutti i brani, dando al disco un sapore classico e deliziosamente retrò, come se la scomparsa di Lord avvenuta lo scorso anno lo avesse ispirato in maniera decisiva.

Che le cose siano cambiate in meglio lo si intuisce dalle prime note di A Simple Song: intro di grande atmosfera a base di organo, seguito da un assolo di chitarra molto melodioso, poi arriva Gillan ed inizia a cantare in maniera chiara, sillabando le parole; una pausa ed il brano esplode, diventando una rock song tipica (con Airey che inizia a fare i numeri), per terminare ancora lenta, come era iniziata. Peccato che arrivi subito Weirdistan a rovinare tutto: è l’unico brano brutto di cui parlavo prima, una canzone confusa, priva di una melodia vera e propria, nel quale l’impegno dei cinque non basta; meglio la lunga Out Of Hand, che richiama da vicino il classico suono anni settanta, un po’ di autocitazione non fa mai male e comunque dai Purple questo ci si aspetta (Morse qua fa sentire di sapere una cosa o due in fatto di chitarra). Hell To Pay è un ottimo rock’n’roll, diretto, solido, immediato, con Morse ancora protagonista con un assolo formidabile e blackmoriano (ed Airey che, sfidato a duello, risponde per le rime), mentre Body Line è un rock blues tosto e grintoso, con Gillan lucido ed il gruppo che lo segue a memoria: il disco cresce di brano in brano, e Weirdistan è solo un ricordo.

Above And Beyond inizia con un mood cupo, con Don che prosegue la sua eccellente prestazione, Gillan entra solo dopo un paio di minuti, ma non fatica a mettersi alla pari con gli altri: il brano ha quasi accenti folk nella melodia, anche se l’accompagnamento è 100% Purple. Blood From A Stone è un lento di gran classe, notturno e bluesato, un brano atipico ma riuscito, cantato da Ian in maniera insinuante e con Steve che schitarra alla grande; un altro lungo assolo di Morse introduce Uncommon Man, un’altra rock song di grande impatto, anche se qui l’interpretazione di Gillan è forse un po’ piatta. La solida Apréz Vous sembra uscita dalle sessions di Fireball, con uno splendido duello centrale chitarra-organo, mentre l’orecchiabile All The Time In The World è quasi radio friendly (almeno per i loro standard), una delle più gradevoli del CD.

L’album si chiude con la maestosa ed inquietante Vincent Price e, nell’edizione deluxe, con It’ll Be Me, una cover addirittura di un brano di Jack Clement, reso con uno scintillante arrangiamento rock’n’roll. Nel DVD troviamo un’intervista di venti minuti ai membri della band e tre brani audio: un remix di All The Time In The World e due versioni live recenti di Perfect Strangers e Rapture Of The Deep.

Un ottimo e gradito ritorno: ora aspettiamo Giugno per vedere come sapranno rispondere i Black Sabbath.

Marco Verdi