Di Nuovo Effetti Slide! Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’

ron hacker goin' down howlin'

Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’ – Ron Hacker

Nell’ultimo periodo, puntuale, ogni due anni circa, Ron Hacker si (ri)presenta con un nuovo album, e noi, altrettanto tempestivi, ve ne diamo conto. Dopo gli ultimi, notevoli, Filthy Animal e Live In San Francisco http://discoclub.myblog.it/2013/01/12/l-arte-della-slide-ron-hacker-live-in-san-francisco/ , il musicista della Bay Area (ma originario di Indianapolis, 70 anni quest’anno) ci propone, nella consueta formula del trio, la sua personale visione del Blues, e lo fa rivisitando, in questo Goin’ Down Howlin’, molti classici delle 12 battute, invertendo il programma tipico delle sue esibizioni, concertistiche e discografiche, dove abitualmente si ascoltava una serie di brani della stesso Hacker, arricchita da alcun cover, scelte con cura nel repertorio sterminato del blues. Per l’occasione il vecchio Ron apre il nuovo album con due brani che portano la propria firma e poi rilegge una serie di canzoni famose di Sleepy John Estes, due brani, Little Walter, Jimmy Reed, Fred McDowell, Chuck Berry, St. Louis Jimmy Oden, e Chester Burnett (aka Howlin’ Wolf), a cui si ispira il titolo del CD. Come ricorda nelle note la figlia Rachell (con due l, così chiamata in onore del mentore di Hacker, Yank Rachell), la musica di questi musicisti è stata la colonna sonora della sua vita, fin dall’infanzia, e se agli altri bambini cantavano ninne nanne, lei si trovava a canticchiare Miss You Like The Devil di Slim Harpo, un brano composto quasi 100 anni prima. Quindi le sembra giusto e doveroso che il babbo abbia voluto rendere omaggio ai grandi musicisti blues che lo hanno preceduto.

Armato della sua immancabile chitarra d’acciaio e di un bottleneck, come riporta la foto di copertina, aiutato da Artis Joyce al basso e da Ronnie Smith alla batteria, e con la sua inconfondibile voce vissuta, Ron Hacker ci regala dieci perle di blues classico (una in due versioni), con due brani acustici, posti in apertura e chiusura, che incapsulano questo disco, tra i migliori della sua discografia. Si apre con Evil Hearted Woman, solo voce e chitarra, e poi si comincia a rollare, con il boogie scatenato di Big Brown Eyes, dove la slide del titolare inizia a macinare note con la consueta grinta e maestria. La prima cover è un adattamento dello stesso Hacker di Hate To See You Go, un brano di Little Walter, dalla classica costruzione sonora, che conferma l’impressione che per l’occasione Ron abbia trattenuto la sua proverbiale furia sonora, brani più brevi del solito, al solito infarciti di soli, però meno selvaggi e irrefrenabili del solito. Impressione confermata nella successiva Axe Sweet Momma, il primo dei brani a firma Sleepy John Estes, qui reso in una versione elettrificata dove si apprezza, come sempre, la slide del titolare, mentre Baby What You Want Me To Do è uno dei brani più famosi di Jimmy Reed e del blues tutto, eccellente la versione presente nell’album, come pure quella di You Got To Move, brano di Fred McDowell, già apparso in altri dischi di Hacker, per esempio in Filthy Animal, dove era attribuito a Memphis Minnie, per l’occasione in versione solo voce e chitarra slide.

Nadine, di Chuck Berry ovviamente, richiede una veste elettrica più tirata e il nostro Ron non si tira indietro, anche se fino a che non si scatena al bottleneck, la prima parte sembra un poco con il freno a mano tirato. Come ricorda il titolo, Goin’ Down Slow, è uno dei grandi “lenti” del blues, prima in versione elettrica, eccellente, e poi in chiusura, acustica, brano famoso anche nella versione di Howlin’ Wolf, e che nel corso degli anni hanno suonato tutti, da B.B. King agli Animals, i Canned Heat, gli stessi Led Zeppelin la suonavano live nel medley di Whole Lotta Love, come riportato nel bellissimo How The West Was Won, ma anche Duane Allman, Eric Clapton, Jeff Beck, tutti i grandi chitarristi l’hanno suonata, poteva mancare la versione di Ron Hacker? Che poi rende omaggio anche all’appena citato Chester Burnett con una sapida Howlin’ For My Darlin’ e chiude con una scoppiettante Goin’ To Brownsville che più che a Sleepy John Estes sembra appartenere ad Elmore James per la sua profusione di effetti slide.

Bruno Conti  

L’Arte Della Slide Guitar! Ron Hacker – Live In San Francisco

ron hacker live in san francisco.jpg

 

 

 

 

 

 

Ron Hacker – Live In San Francisco – Ronhacker.com

Quando, circa un anno e mezzo, parlavo del precedente disco di Ron Hacker, (bravi-ma-sconosciuti-ron-hacker-and-the-hacksaws-filthy-anim.html), in termini più che lusinghieri, tra le cose dette, una, scontata, ma non per questo meno vera, era che sarebbe stato bello se il nostro amico avesse registrato un bel album dal vivo (si dice sempre, sarà scontato, ma per certi tipi di performers, è la pura verità), magari al Saloon, che era il locale dove Hacker era solito esibirsi, Non è passato neppure un anno, e tac, registrato il 30 novembre del 2011, ma pubblicato oggi, esce questo Live In San Francisco, non al Saloon ma al Biscuits And Blues, che a giudicare dal rumore di ambiente e da quello del pubblico, che si percepisce dal CD, a occhio (e a orecchio), deve essere una venue dove possono entrare poche decine di persone, ma non è il numero che fa la qualità.

Non posso che confermare quanto di buono detto su Ron Hacker, che è sicuramente uno dei migliori nell’arte della slide e che dal suo strumento estrae ogni stilla possibile di blues, potente e ad alta densità, degno dei migliori Johnny Winter, John Campbell, o Ry Cooder annate con Taj Mahal , già citati in passato e qui ribaditi, con il più lo spirito dei grandi bluesmen, da John Lee Hooker e Elmore James passando per Willie Dixon, Sleepy John Estes (pard del suo “maestro” Yank Rachell), Son House e in generale di tutti i grandi che vengono rivisitati nel vorticoso stile di Hacker.

Quello che si ascolta in questo album è del Blues di grande energia, nulla di nuovo ma eseguito con una forza, una grinta e una maestria che dividono il grande disco dal compitino eseguito con poca voglia. Siamo quindi di fronte ad un album di blues elettrico, molto “carico”, ma sempre all’interno dei parametri delle classiche 12 battute e che sfiora il rock-blues senza mai varcarne completamente i confini labili. E comunque è un bel sentire. Dai primi secondi di Ax Sweet Mama, un brano appunto di Estes, che apre il concerto con un bottleneck solitario e la voce di Ron Hacker, capisci subito di trovarti di fronte a qualcuno che conosce a fondo la materia, la vive fin nelle pieghe più recondite e la riversa sul pubblico in un torrente di note (il brano, se la memoria non mi difetta è conosciuto anche come Sloppy Drunk). Il basso pulsante di Steve Ehrmann e la batteria di Ronnie Smith innestano i ritmi classici che stimolano la creatività di Hacker, che prende subito di petto una versione cattiva di Meet Me In The Bottom, un brano di Willie Dixon per Howlin’ Wolf, che però come in molte storie del blues, potrebbe essere anche Down In The Bottom, che facevano anche gli Stones, che a sua volta era una bastardizzazione di Lawdy Mama, con testo e musica riveduti e corretti, ma nel blues funziona così e nessuno si offende (per la verità il buon Willie un poco si era incazzato con Page e Plant, ai tempi), per non sbagliare Ron ci dà dentro alla grande. Poi si accelera a tempo di boogie, per uno sfolgorante medley tra Baby Please Don’t Go e Statesboro Blues, suonati come Dio comanda e che si innestano uno dentro all’altro come un coltello nel burro. Welfare Store è un vecchio classico di Sonny Boy Williamson, lento e cadenzato con chitarra e voce che scandiscono le note come se ne andasse della vita dell’interprete, che aggiorna il testo del brano al presidente Obama (che è perfetto perché fa rima con mama) e ai giorni nostri.

My Bad Boy è un brano originale scritto dallo stesso Hacker e dedicato al figlio quando questi aveva 18 anni (ora ne ha 40 e Ron ne compirà 68 quest’anno), e il risultato non sfigura con i classici fin qui sfornati, ma Death Letter di Son House è sempre un gran brano e questa versione è veramente gagliarda, con la slide che viaggia rapida e tagliente. Uno dei maestri dello stile, forse l’inventore, è stato il grandissimo Elmore James, di cui viene riproposta It Hurts Me Too, una delle più belle canzoni mai scritte (e suonate) nell’ambito Blues. Two Timin’ Woman, strepitosa, a livello di boogie, potrebbe dare dei punti a Winter, Thorogood e forse anche a Hound Dog Taylor e anche il match con Johnny Winter nella “sua” Leavin’ Blues, potrebbe finire in un bel pareggio. Per concludere la serata (e il disco) in bellezza, un bel brano di John Lee Hooker come House Rent Blues ci sta proprio a pennello. Tra l’altro Hacker racconta che in una serata con Roy Rogers gli capitò di suonare il brano proprio di fronte al suo autore, ottenendo da quel vocione inconfondibile un responso positivo, che è come avere la laurea honoris causa e anche noi gliene conferiamo con piacere una, in Blues, che non rimanga un segreto!

Bruno Conti

Bravi Ma Sconosciuti. E Questo E’ Molto Bravo! Ron Hacker And The Hacksaws – Filthy Animal

ron hacker.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 Ron Hacker And The Hacksaws – Filthy Animal – Self-released   

Ormai sembra acclarato che per diventare una leggenda nella storia della musica una delle strade più battute sia quella di morire giovani, meglio se a 27 anni: da Robert Johnson a Brian Jones, passando per Janis Joplin, Jimi Hendrix e James Morrison, la storia si è ripetuta. Non sempre è stato così, anche John Campbell, grande cantante e chitarrista Blues bianco, è morto, relativamente giovane, stroncato da un infarto nel 1993 quando aveva 41 anni. Perché vi parlo di lui? Perché il personaggio (e la musica) di Ron Hacker, mi sembra si possa avvicinare, per certi versi, a quella di Campbell.

Entrambi sono virtuosi della chitarra dal corpo d’acciaio suonata preferibilmente in stile slide, entrambi sono cantanti dalla vocalità torbida, quasi misteriosa che si riappropria del meglio del Blues “classico” per stravolgerlo in una sorta di ibrido che incorpora anche elementi di rock (molto) e altre musiche con un suono grintoso e poderoso che non è sicuramente originale al 100% ma ha una sua profonda efficacia. Per chi non conosce John Campbell non posso che consigliarli i suoi tre album da solista con una preferenza per One Believer e Howlin’ Mercy rispetto al più acustico e tradizionale A Man and His Music, anche perché la produzione da major dei due dischi Elektra era molto più rifinita. Secondo alcuni (anche il sottoscritto sul Buscadero in quegli anni) Campbell avrebbe potuto essere negli anni ’90 quello che Stevie Ray Vaughan era stato negli anni ‘80, entrambi stroncati troppo presto rispetto a quello che avrebbero potuto dare ancora oppure avevano già dato tutto e si sono allineati al famoso motto di Pete TownshendI Hope I Die Before I Get Old”, non lo sapremo mai.

Uno che già era in circolazione ma si muoveva ai margini, tra culto e realtà per parafrasare un’altra celebre frase, era il nostro amico Ron Hacker, nativo del 1945 è sulle scene, si può dire, dagli anni ’50 ma la sua carriera professionale inizia molti anni dopo, attraverso un incontro fruttuoso con Yank Rachell a lungo partner di Sleepy John Estes che con i suoi insegnamenti ne ha affinato le capacità tecniche come chitarrista e ne è diventato un amico. I primi dischi di Hacker con varie configurazioni degli Hackers risalgono alla fine degli anni ’70 e da allora ha pubblicato 8 album, gloriosamente (semi)sconosciuti ai più ma non agli addetti ai lavori. Il modo ideale per conoscerlo (ma mi rendo conto che non è facilmente praticabile) sarebbe quello di assistere ad uno dei concerti che tiene regolarmente al Saloon, uno dei più vecchi bar di San Francisco, dove pare sia regola di non chiedergli di suonare brani di Stevie Ray Vaughan, causa un patto reciproco scambiato tra i due “Io non faccio brani tuoi e tu non suoni i miei”, ma potrebbe essere un’altra leggenda metropolitana.

L’alternativa più praticabile è acquistare questo Filthy Animal che sarà anche un album registrato in studio ma ha quel feeling dei dischi Live, una miscela di brani classici e originali di Hacker arrangiati nel suo stile con una forte presenza della slide che spesso impazza con grande gioia di chi ascolta.

Gli ospiti che affiancano Artis Joyce al basso e Bryant Mills alla batteria sono nei due primi brani dell’album: una ripresa pigra e sensuale della celebre di You Gotta Move di Memphis Minnie (Campbell faceva When The Levee Breaks) con la voce maliziosa di Leah Tysee che affianca quella più vissuta di Hacker. Il tun-tun-tun-tun-tun inequivocabile del blues annuncia una Bad Boy che proviene dalla penna del nostro amico che fa scivolare il suo bottleneck con gusto e tecnica ben coadiuvato dalla chitarra solista pungente di Debbie Davis, gran brano. I’m Going Away Baby di Jimmie Rodgers scorre fluida e piacevole, molto classica mentre Meet Me In The Bottom viene dal repertorio di Howlin’ Wolf che suonava anche una ottima slide, Hacker ci mette del suo e nella parte strumentale pareggia ma il “vocione” del Lupo era inarrivabile. Anche nel repertorio acustico Hacker non scherza come dimostrato nell’ottima Goin’ Down The River. Ma è nei brani elettrici quando fa viaggiare la slide che il suono decolla come in una eccellente cover di Evil o nella ripresa di Death Letter House di Son House e poi ancora in Gonna Miss You un brano di Slim Harpo arrangiato da Hacker con notevoli risultati. In definitiva è tutta roba buona, sia una Shotgun minacciosa o una fantastica rivisitazione di Chameleon di Herbie Hancock che diventa una funkyssima Filthy Animal con la slide che parte per la tangente e va in overdrive. Sarà anche un artista di culto ma è grande musica. Da scoprire!

Bruno Conti