Clienti Abituali! Chris Duarte Group – My Soul Alone

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Chris Duarte Group – My Soul Alone – Blues Bureau/Shrapnel

Chris Duarte procede, con solerte ed inesorabile cadenza (non c’è nessun connotato negativo, solo una constatazione), a pubblicare nuovi album, sempre per la Blues Bureau/Shrapnel di Mike Varney, che si occupa della produzione, come di consueto. Negli ultimi 6 anni ne sono usciti 7 (comprese delle uscite di materiale d’archivio): siamo lontanissimi dalle medie proibitive di Bonamassa, ma per un signore che a febbraio ha compiuto 50 anni (la stessa età della sua Stratocaster), una invidiabile media. Come detto più volte, Duarte è un texano Stevie Ray Vaughaniano e di conseguenza anche un hendrixiano, il suo rock-blues è, diciamo, energico, molto energico, ma ha un suo fedele seguito, magari anche di quelli che dicono che “Hendrix e Stevie Ray Vaughan hanno stufato” ma poi ascoltano i loro epigoni, che poi sono della stessa parrocchia di coloro i quali non ascoltano più Springsteen, “perché non è più come una volta”, salvo poi acquistare i dischi di quelli che lo imitano, spesso malamente.

Questo non è per dire che Chris Duarte sia uno scarso, tutt’altro, ma l’originalità non è più il suo forte, se mai lo è stata, ma per chi segue quella nicchia che è il power guitartrio in ambito rock-blues e non solo, rimane una certezza. My Soul Alone consta di dodici nuove composizioni, tutte firmate dal titolare, che si avvale della classifica formazione triangolare, con Steve Evans al basso e Aaron Haggerty alla batteria. Il disco mi sembra segnali un ritorno a sonorità blues, lontane dalle derive più hard di 396 con i giapponesi Bluestone, gia presenti in Blues In The Afterburner del 2011, il rock è sempre presente ma il disco è più vicino al sound classico degli inizi, quelli più influenzati da Stevie Ray Vaughan, il classico stile texano che attinge anche a ZZTop e altri gruppi della stato della stella solitaria (qui trovate i precedenti (chris+duarte)

La tecnica chitarristica non l’ha certa dimenticata, e tra i discepoli di SRV Duarte è sicuramente uno dei migliori in assoluto, con uno stile molto fluido, scorrevole, caratterizzato da un solismo molto variegato, al solito niente di nuovo, ma suonato con passione e competenza: già dallo shuffle iniziale di Show Me That You Want It, se chiudi gli occhi e non ascolti la voce, ti sembra di ascoltare un disco di Vaughan, impressione ribadita dalla più tirata Yes it’s you ma anche dalle trame più raffinate, tra jazz e psichedelia, di Take Me Now e sublimate nell’ottimo slow blues A Dollar Down And Feeling Low dove la chitarra si arrampica nell’Olimpo dei grandi con classe notevole per poi tornare allo stile tipicamente cadenzato di I Bucket It Up e alle coordinate claptoniane prima maniera, di un brano come Outta My Way dove il suono si incattivisce e Haggerty fa il Ginger Baker della situazione.

Leave My Soul Alone che dà il titolo alla raccolta è un altro slow, questa volta di chiara matrice hendrixiana (Voodoo Chile è lì, appena dietro l’angolo). Sweet Litte Girl più leggera e scanzonata, quasi R&R, avrebbe fatto la gioia dell’altro fratello della famiglia Vaughan, Jimmie. Lazy Afternoon, 11:11 di slow blues alla Ronnie Earl o alla Robillard farà la gioia di chi compra dischi come My Soul Alone anche e soprattutto per questo tipo di brani, e nel CD ce ne sono parecchi. Can’t Shut Me, chitarra e batteria in libertà, ricche di effetti è nuovamente un omaggio all’arte di Jimi mentre Blue Jean Outlaw è un altro lentone di atmosfera, quello peraltro che ti dovresti aspettare, direi per contratto, nei dischi di rock-blues, niente di più niente di meno, suonato come Dio comanda e poi reiterato nelle trame più complesse dello strumentale Carelessness dove compare anche un violino suonato da Mads Tolling che gli dona un’aura quasi jazz-rock alla Flock o alla Mahavishnu per un finale inconsueto. Un disco all’altezza della fama di Chris Duarte, tra i suoi migliori in assoluto.

Bruno Conti

Blues “Senza Parole” – Dave Specter – Spectified

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Dave Specter – Spectified – Fret 12 Records

Questo è il nono album di Dave Specter (dopo 8 album registrati per la Delmark, gli ultimi due dei quali erano un disco dal vivo e una collaborazione con il suo maestro Steve Freund). In questo caso maestro è inteso proprio in senso letterale, in quanto Freund è stato proprio l’insegnante di chitarra di Specter, quando il nostro amico aveva già 18 anni, quindi una vocazione tardiva.  Ma poi il chitarrista di Chicago si è rifatto abbondantemente con una cospicua serie di uscite che ne ha cementato la reputazione tra gli amanti di blues. Perché ovviamente di blues stiamo parlando, e per di più strumentale visto che Specter rigorosamente non canta e come aveva già fatto per Speculatin’ del 2000 non usa nessun vocalist ospite.

Quindi per rendere subito le cose chiare siamo nei territori cari a Ronnie Earl ma anche Freund o Robillard quando non cantano, brani strumentali intrisi di blues ma anche attraversati dal jazz dei duetti chitarra-organo di Wes Montgomery/Jimmy Smith, piccole spruzzate di musica latina, più abbondanti di soul & funk e qui potrebbero ricordare Booker T & The Mg’s o più nello specifico i Mar-Keys visto la presenza dei fiati in alcuni brani.

Proprio il brano di apertura Stick To The Hip indica questa direzione, la chitarra jazzata vagamente alla George Benson di Specter, molto swingante e limpida nelle tonalità (e qui la vicinanza di intenti con Earl e Robillard è subito chiara), un organo insinuante, una ritmica molto funky e siamo in piena era Stax, impressione rafforzata dai fiati guidati dall’ex Tower of Power Mike Chicowicz. Octavate’n è un bel Texas Blues che potrebbe essere scambiato per uno di quei brani strumentali che Stevie Ray Vaughan amava inserire nei suoi dischi, con la chitarra che scorre veloce, fluida e inventiva alternandosi con l’organo di Brother John Kattke che è l’altro protagonista del disco. Soul Serenade è proprio il classico brano di King Curtis (Ousley), una canzone che rappresenta anche il versante Atlantic del soul anni ’60, più melodica e rilassata ma anche molto raffinata con la chitarra di Specter che sostituisce il sax di Curtis e il sound che per certi versi mi ricorda quello delle Super Sessions di quegli anni, in primis Bloomfield-Kooper&Stills, con i fiati sincopati che sottolineano gli interventi di chitarra e organo. L’inizio e notevole ma non tutto l’album mantiene questi livelli di eccellenza, intanto non giova l’eccessiva lunghezza, 13 brani per oltre 70 minuti di musica strumentale alla fine stancano un po’, per volere trovare un difetto ad un disco che con una ventina di minuti in meno sarebbe stato quasi perfetto, ma è un dettaglio.

Blues Call è una raffinatissima fusione fra le 12 battute classiche del blues e musica latina e soul/R&B molto vicine al primo Peter Green o ai Santana più jazzati ma anche ai dischi di Ronnie Earle con cui Specter ha collaborato nel suo disco di esordio Bluebird Blues, l’organo questa volta suonato da Pete Benson, è sempre molto presente watch?v=RMJ0LqFrye4. Alley Walk (poi ripresa in chiave acustica in finale di disco) è un tirato blues elettrico più ruvido nei suoni rispetto a quanto di solito Specter propone ma molto efficace e contribuisce a movimentare e diversificare il sound dell’album anche con un ottimo intervento della slide. Wash Out è uno di quei classici brani strumentali del repertorio di Freddy King, molto tecnici ma anche ricchi di “cuore” e la versione di Dave Specter gli rende pienamente giustizia, con il solito contrappunto dell’organo, una costante del CD. The Funky Hunky è l’occasione per un’altra capatina in territori strumentali Stax con uso di fiati, ma è molto leggerina, forse troppo.

Rumba & Tonic viceversa si tuffa in ritmi più latini con la fisarmonica di David Hidalgo dei Los Lobos a condividere le linee soliste con Specter, bello ma il sound non si infiamma come speravo. Anche Azulado un raffinato slow in crescendo tra Santana e Ronnie Earl non decolla, grande tecnica ma troppo turgido. Slick Pick è un classico brano di easy jazz alla Montgomery/Smith piacevole ma non memorabile mentre See See Rider, il famoso brano di Ma Rainey del 1924, ma rifatto da chiunque, in guisa di slow blues non lo avevo proprio riconosciuto, però niente male e anche Lumpus D’Rumpus pur portando la firma di Specter avrebbe potuto essere un altro brano del repertorio di Freddy King ed è inteso come un complimento.

Bruno Conti

Mica Male La Ragazza! Ana Popovic Band – An Evening At Trasimeno Lake Live From The Heart Of Italy

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Ana Popovic Band – An Evening At Trasimeno Lake – Live From The Heart of Italy – Artist Exclusive Records DVD

Ana Popovic è una chitarrista e cantante nativa di Belgrado, Serbia (ex Jugoslavia) che vanta già un rispettabile curriculum e che ha realizzato un consistente, sia come numero che come qualità, numero di dischi in un ambito blues. Si tratta sicuramente di una notevole chitarrista (per essere una donna, vedo già le facce disgustate da lontano! Non si può neanche scherzare, lasciatemi finire!) nettamente superiore alla media dei colleghi maschi anche provenienti da territori che vivono di pane e Blues e sicuramente Belgrado non è il primo nome che venga in mente come una delle culle delle 12 battute ma un padre appassionato del genere e una ottima discoteca, unite alla passione hanno fatto il resto. Aggiungete che ha una ottima voce e voilà, i giochi son fatti! Non vi basta? Ok, allora prendiamo una location da sballo, il Lago Trasimeno, dove tutti gli anni si svolge un seguitissimo Festival Blues, 5.000 persone entusiaste radunate nella rocca del castello medievale di Castiglione del Lago in provincia di Perugia, shakerate il tutto ed ottenete un ottimo DVD dal vivo. Il progetto nasce (come racconta lei stessa) dalla sua partecipazione al Festival dell’anno prima: qui tutto è troppo bello, una rocca medievale del 1247, un pubblico entusiasta, l’anno prossimo torno (con 6 telecamere) e filmo tutto e qui abbiamo i risultati. Per chi non ama i DVD (e ci sono) dovrebbe uscire anche la versione in CD in un secondo momento (credo a novembre), ma veniamo al manufatto in questione.

La presentazione dice: “Un concerto per Ana Popovic e la sua band, registrato durante il suo Blind For Love Tour” (dal titolo del CD del 2009 che stava promuovendo, molto buono peraltro, il suo quarto disco di studio oltre ad un altro Live In Amsterdam, dove credo viva, ad Amsterdam intendo, anche questo sia in CD che DVD, pubblicato nel 2005, tanto per avere un’idea della discografia). E aggiunge: “Oltre due ore di musica con un pubblico entusiasta di oltre 5.000 persone. Un gruppo di otto elementi e una troupe con sei cameramen per testimoniare un’indimenticabile esperienza. L’energica Ana Popovic Band al suo meglio per offrire un qualcosa a tutti incluso blues, rock, jazz e funk. Su questo disco trovate anche un’intima intervista esclusiva registrata nel cortile della rocca e una trentina di minuti di una session acustica registrata nel pomeriggio sempre nella rocca.”

Sottoscrivo tutto quelle che dicono le note del DVD ma…quando inserite il dischetto nel lettore (perché contrariamente a quanto potrebbero pensare i maligni io il DVD l’ho visto e non ho solo fatto opera di copia e incolla come spesso, troppo spesso capita di leggere girando per la rete)e sorpresa! Non dura oltre due ore (forse il concerto sì) ma solo una settantina di minuti per un totale di 14 pezzi e i famosi otto elementi otto della citata band, i fiati e un percussionista aggiunto quantomeno, che sono musicisti italiani, appaiono solo in alcuni brani.

Detto questo nulla da dire sulla qualità della musica che è notevole. La parte visiva è fornita, oltre che dalla cornice naturale della località, anche dalla Ana Popovic stessa che è una bella figliuola, lunghi capelli biondi sulle spalle, fisico slanciato, stivaletti con tacco a spillo e borchie da vera dominatrix che non le impediscono di pestare con foga sul pedale wah-wah della sua chitarra sin dall’iniziale, trascinante Wrong Woman, dove sfodera anche una voce che ha molti punti in comune con una Dana Fuchs in serata di lusso. La sua band è grintosa e tosta, con un batterista nero, che picchia sui tamburi con veemenza, un bassista funky e scenografico quanto basta e un tastierista che svolge un oscuro lavoro di raccordo. U complete me, per citare uno dei brani migliori del concerto, è uno slow blues con notevole assolo incorporato che non ha nulla da invidiare ai migliori assoli di un Ronnie Earl.

Una curiosità che mi ha colpito è la quantità spropositata di insetti (attirati dalle luci utilizzate per le riprese) che svolazzano intorno ai musicisti, un vero nugolo, nota di colore, ma era piena estate! Per avere un’idea di quello che vi aspetta, take a look! Vi potrei fare una lunga lista di titoli (almeno fino a quattordici!) ma mi limito a raccomandarvi questa signora che è ancora lontana dagli ‘anta, per non svelare l’età (è del 1976, recensore carogna!), ma ha già una esperienza e un carisma notevoli, grande chitarrista e ottima cantante, una delle migliori blueswomen bianche in circolazione, repertorio quanto mai vario, cosa potete volere di più?

Bruno Conti

Master Of Telecaster! Ronnie Earl – Spread The Love

 

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Ronnie Earl and the Broadcasters – Spread the love – Stony Plain Records

Se John Hiatt ha fatto un disco che si chiamava Master of disaster, Ronnie Earl ne potrebbe ben farne uno intitolato Master of Telecaster, ma per il momento accontentiamoci, si fa per dire, di questo Spread the love!

Diavolo di un Ronnie Earl, anche stavolta mi ha fregato! L’uomo è inesorabile, ogni paio d’anni esce un suo nuovo album, tu lo ascolti e dici: “mi sembra uguale a quello precedente”, poi lo riascolti e pensi, però, non male. Lo riascolti una terza volta e ti comincia a entrare sottopelle, perché sarà anche la stessa musica ma è fatta veramente bene, suonata con una tecnica e un feeling unici, tanto che già al primo ascolto sai che si tratta di lui.

L’album precedente, l’ottimo Living In The Light aveva introdotto delle piccole novità sotto forma di alcuni brani cantati dove si alternavano alcuni talenti emergenti e l’amico Kim Wilson, questa volta ritorno al classico per Ronnie Earl.

Ho un Cd promo senza nessuna informazione per cui non vi so dare molte notizie, vado a naso e ascolto e devo dire che quello che sento mi piace: il nostro amico è come un gusto di gelato, quello vostro preferito, sempre uguale ma quanto ti piace, ogni volta è una goduria assicurata, non ti stanchi mai.

Se vi dovessi dire quale è il mio disco preferito di Ronnie Earl non vi saprei dire quale,vi direi l’ultimo forse, perché ogni volta cambia e non ti stanca mai.

Anche stavolta c’è lo shuffle iniziale, Backstroke, con la consueta accoppiata organo/chitarra che ricorda i grandi del passato,in particolare l’autore Albert Collins c’è il brano per sola chitarra elettrica e basso, Blues For Dr. Donna, millimetrico nella sua precisione tecnica e nel controllo del suono, c’è il brano Chitlins Con Carne uno strumentale jazzato di Kenny Burrell che è stato suonato da molti grandi chitarristi, la versione più famosa è, forse, quella di Stevie Ray Vaughan sull’album The Sky is Crying, questa rivaleggia con quella cover per nitidezza del suono e destrezza tecnica.

Cristo Redentor era un vecchio brano di Harvey Mandel, geniale chitarrista dei Canned Heat e autore di una serie di dischi strumentali molto meditativi nei primi anni ’70: Ronnie Earl mantiene quello spirito di serenità totale che aleggiava nei solchi originali, una compostezza mai scalfita dai dubbi. Happy è un vivace brano dalle sonorità latineggianti dove l’organo tanto mi ha ricordato il Gregg Rolie dei brani strumentali dei Santana dei primi album, semplice ma affascinante, poi entra la chitarra di Earl, più misurata e meno esuberante di quella di Carlos ma sempre molto lirica e l’atmosfera ricorda molto quella di brani come Samba Pa Ti o Song For The Wind con quel crescendo inesorabile ma allo stesso tempo orecchiabile.

Patience è un altro lento dall’andatura molto serena e spirituale, tipico del repertorio di Ronnie, con un misurato utilizzo del vibrato e con l’organo che doppia la chitarra con grande maestosità, fino all’inevitabile e superbo crescendo finale che ti sommerge sotto un mare di note.
Miracle è un’altra variazione sul tema, quei lenti che tanto ricordano il vecchio Roy Buchanan e il già citato Santana, con la chitarra che costruisce le sue geometrie sonore con assoluta naturalezza senza forzature ma con una maestria tecnica superba, un assolo di quelli che ti lasciano con la mascella a terra.

Spann’s Groove è un sentito omaggio al grande pianista nero Otis Spann, uno dei maestri del blues e per lunghi anni nella band di Muddy Waters, ma collaboratore a ripetizione anche con i Fleetwood Mac di Peter Green: quindi questa volta un brano dal chiaro impianto bluesato con la chitarra di Earle impegnata a duellare con un piano molto vivace. Senza soluzione di continuità si ritorna ad un altro di quei lunghi brani lenti che caratterizzano questo album (ma in generale la discografia di Ronnie Earl): il brano in questione si chiama Skyman, scritta in tributo al grande Duane Allman è una ulteriore variazione sul tema, questa volta col piano a duettare con la chitarra.

L’album si chiude con un quartetto di brani più blues oriented già dal titolo: Blues For Slim uno slow blues molto vivace, Tommy’s Midnight Blues più rilassata e in un punta di dita, Blues For Jackie Robinson di nuovo solo per chitarra e basso e la conclusiva Blues For Bill, di nuovo uno shuffle con organo e chitarra sugli scudi.
Sapete tutto, l’unica cosa che manca è la pazienza, il disco esce il 24 agosto.

Bruno Conti