Forse L’Ultimo “Piccolo” Grande Live Registrato Prima Della Pandemia. US Rails – Last Call At The Red River Saloon

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US Rails – Last Call At The Red River Saloon Live – 2 CD Blue Rose

Lo scorso anno hanno festeggiato il 10° anno di attività, con un concerto tenuto al Red River Saloon di Heilbronn in Germania, il 15 marzo del 2020, quindi già abbondantemente in piena pandemia: poi, come tutti, hanno dovuto interrompere la loro attività dal vivo, che con questo doppio CD, porta a tre i resoconti dei loro tour, divisi a metà tra quelli negli States e quelli in Europa, in Germania in particolare, dove si trova la loro etichetta, l’ottima Blue Rose, da sempre tra gli alfieri del rock, roots e classico, quello che più ci piace. Gli Us Rails hanno iniziato la loro parabola nel 2010, con il disco omonimo che li presentava come una sorta di supergruppo (all’inizio di 5 elementi, quando in formazione c’era ancora Joseph Parsons): al sottoscritto erano parsi, fatto le debite proporzioni, una sorta di C S N & Y, visto che tutti componevano, avevano una carriera solista, erano ottimi cantanti, tanto che le armonie vocali sono da sempre state uno dei loro punti di forza, certo, a livello di fama e anche di importanza siamo su altri livelli, forse il parallelo si può fare con i Moby Grape, altra band dove tutti i componenti si alternavano alla guida, ma anche in quel caso direi che si parla di altra categoria.

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Attualmente a proporre la eccellente miscela di rock, country, elementi soul e sudisti (anche se l’origine è Philadelphia), che ha prodotto sei/sette album di studio, più uno di cover, sono Ben Arnold, il tastierista, quello che più oscilla tra rock e soul, Tom Gillam, chitarrista e mandolinista, il più noto dei quattro, Scott Bricklin, anche lui a chitarre, mandolino, e occasionalmente a tastiere e basso (spesso riprodotto con i pedali dell’organo) e infine Matt Muir, il batterista, che comunque canta in tre brani nel doppio Live. Il risultato è eccellente, come sempre peraltro, con in più la grinta che sanno proporre nelle esibizioni dal vivo: 22 brani in tutto, solo una cover, con Arnold che apre le operazioni con Eagle And Crow, una canzone estratta da Heartbreak Superstar, secondo molti il migliore dei loro dischi, ma secondo me sono belli tutti, incluso l’ultimo https://discoclub.myblog.it/2020/05/15/un-ottimo-modo-per-festeggiare-dieci-anni-on-the-road-us-rails-mile-by-mile/  , una rock song gagliarda e chitarristica, con la voce vissuta e roca di Ben, il più soul del gruppo, a guidare le operazioni, Take You Home è di Bricklin, dall’ultimo album, sempre riffata e ricca di di armonie, in bilico tra Petty e gli Eagles, con la chitarra di Gillam in tiro https://www.youtube.com/watch?v=JyOCUyjL7yE .

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Tom che poi canta He’s Still In Love With You da Ivy, altro fulgido esempio del roots rock espansivo della band, che poi propone la bellissima Hearbreak Superstar di Arnold, una sorta di brano da rock&soul revue, con chitarre e piano che si intrecciano, ed anche Muir offre il suo contributo con Water In The Well, dall’ultimo album, una ballata swamp sospesa , sempre con chitarre molto presenti. A questo punto riprende il giro con Rainwater di Arrnold, tra country e West Coast, tratta dall’esordio, Drag Me Down di Bricklin, per l’occasione al basso, dopo una introduzione attendista, si sviluppa in un vibrante pezzo rock degno dei migliori di Don Henley, con Arnold eccellente al piano, e molto bella anche Colorado di Gillam, puro Americana sound con una melodia sopraffina. Senza elencarle tutte, anche se meritano, vorrei ricordare la potente Declaration di nuovo di Gillam https://www.youtube.com/watch?v=nZiMTmiL5zE , la deliziosa ballata Slow Dance di Arnold, che chiude il primo CD.

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Il vibrante R&R californiano di Follow The Lights dell’accoppiata Muir/Arnold, la festosa Hard Headed Woman, che non è quella di Cat Stevens, tra Byrds, Petty e Springsteen, Don’t Take Me Now di Muir, che sembra un pezzo degli U2 americani, quando facevano ancora buona musica, gli oltre sei minuti di Old Song On The Radio, una di quelle ballate superbe di Gillam che ogni tanto la band sciorina, tratta da Southern Canon, e che potrebbe passare per una canzone della Band, con la B maiuscola, con singalong finale, anche se ci sono quattro gatti al concerto https://www.youtube.com/watch?v=16zCGR602jU . E ancora Fooling Around, ottimo rock, la corale Everywhere I Go, con qualche rimando a Young o ai Blue Rodeo più chitarristici, la galoppante Mile By Mile tagliata in due da una slide tangenziale, l’unica cover è l’elettroacustica Barbed Wire di Artie Traum, che forse solo alcunii lettori più attenti del Blog potrebbero conoscere, molto CSN https://www.youtube.com/watch?v=Mah8UAVBSy4 , e la chiusura di un ottimo Live con la speranzosa Do What You Love https://discoclub.myblog.it/2020/05/15/un-ottimo-modo-per-festeggiare-dieci-anni-on-the-road-us-rails-mile-by-mile/ .

Bruno Conti

Tra Roots, Rock’n’Roll E “Casino Organizzato”! The Suitcase Junket – Mean Dog, Trampoline

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The Suitcase Junket – Mean Dog, Trampoline – Signature Sounds CD

The Suitcase Junket non è il nome di una vera è propria band, ma un progetto solista dietro il quale si nasconde Matthew Lorenz, songwriter originario del Massachusetts che ha già alle spalle ben quattro album e due EP con questo moniker. TSJ sono pertanto una sorta di one man band, in cui Lorenz si occupa della scrittura delle canzoni e della loro esecuzione, sia dal punto di vista strumentale che da quello del canto: la critica ha paragonato la sua musica ad un mix di vari tipi di rock, sia urbano che rurale che da roadhouse, mentre altri in lui vedono una fusione delle melodie degli Avett Brothers con gli arrangiamenti asciutti dei Black Keys e certe atmosfere un po’ malate alla Tom Waits. Devo dire che per una volta certi paragoni non sono campati in aria, se non per il livello artistico almeno per il genere di riferimento: Lorenz è infatti autore di una pregevole miscela di rock’n’roll elettrico e chitarristico con qualche elemento blues urbano, il tutto senza mai perdere l’attenzione verso le melodie orecchiabili e dirette, proprio come è nelle caratteristiche dei Black Keys, anche se Matthew qua e là mostra anche influenze roots.

Ed è proprio in conseguenza di ciò se per produrre il suo nuovo album, Mean Dog, Trampoline, Lorenz ha chiamato il “Lobo” Steve Berlin, che ha portato in studio la sua esperienza ed un certo suono che ogni tanto troviamo anche nei lavori del suo gruppo principale, un mix tra tradizione e modernità che fa sì che Mean Dog, Trampoline sia il disco più riuscito di quelli usciti finora a nome Suitcase Junket. Lorenz si occupa come al solito del 90% degli strumenti, lasciando spazio solo a Bruce Hughes al basso in tre pezzi, al percussionista Camilo Quinones (fratello dell’ex Allman Brothers Marc), allo stesso Berlin in altre due canzoni, e soprattutto alla sorella Kate Lorenz che si occupa del controcanto in tutto l’album. Dodici brani, a partire dalla coinvolgente rock’n’roll song High Beams, diretta e piacevole: motivo immediato, ritmo pulsante e chitarre che riempiono gli spazi in modo perfetto https://www.youtube.com/watch?v=1JQNbGnIvXQ ; Heart Of A Dog è subito più dura, sporca e bluesata, con un ritmo strascicato e mood indolente all’interno di un’atmosfera quasi dissonante: qui il paragone con Waits ci può stare, anche se Matthew ha una voce molto più limpida di quella del cantautore di Pomona https://www.youtube.com/watch?v=07aJCrlxkNQ .

Everything I Like è ancora elettrica, ma ha un ritmo cadenzato ed un approccio decisamente più fruibile, tra rock urbano e roots, con un refrain vincente, Stay Too Long non molla la presa, ma è più frenetica e ricorda davvero il duo di Auerbach e Carney, mentre l’annerita Gods Of Sleep, sarà per la presenza in consolle di Berlin, ma non è distante da certi episodi più modernisti dei Lupi di East L.A., in cui però la melodia non viene dimenticata. Dreamless Life ci porta totalmente su altri lidi, essendo una gentile ballata acustica di stampo folk, ma subito si torna al rock’n’roll un po’ sghembo con l’intrigante Son Of Steven, dove il motivo anni sessanta contrasta apertamente con l’accompagnamento moderno, una miscela creativa ed a suo modo geniale. Dandelion Crown è una sorta di godibile errebi dai suono sempre molto contemporaneo, Scattered Notes From A First Time Homebuyers Workshop è folk elettrificato “sporcato” da una chitarra leggermente distorta ed una melodia degna di Paul Simon, mentre New York City torna al piacevole rumore delle cose dei Black Keys. Il CD termina con l’attendista What Happened e con la folkeggiante Old Machine, chiusura delicata e pastorale per un dischetto intrigante che riserva più di un momento degno di nota.

Marco Verdi

Una Band Poco Conosciuta Ma Di Sopraffina Qualità. Dustbowl Revival – Is It You, Is It Me

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Dustbowl Revival – Is It You, Is It Me – Medium Expectations/Thirty Tigers

Quinto album per la band californiana, però con il leader del gruppo Zach Lupetin, originario di Chicago, benché trasferito prima a L.A., ed ora a Venice, sempre California, dove è basato  il collettivo musicale da metà degli anni 2000. Parlo di collettivo perché è curioso il modo in cui i vari musicisti sono venuti in contatto tra loro: Lupetin aveva piazzato un annuncio in rete su Craiglist, alla ricerca di musicisti appassionati come lui di Louis Armstrong, Bob Wills, Old Crow Medicine Show, Paul Simon, Aretha Franklin, e anche delle brass band di New Orleans, senza dimenticare Wilco, Lucinda Williams e persino Bruce Springsteen. Uno spettro sonoro come si vede molto ampio ed eclettico, ma alla fine hanno comunque risposto diversi spiriti affini, e dopo qualche anno di gavetta i Dustbowl Revival hanno reso onore alla propria ragione sociale: tra roots rock, con una forte connotazione swing, bluegrass, soul e con organici variabili sul palco, fino ad una quindicina di elementi.

Poi, con la pubblicazione del disco omonimo del 2017, la formazione si è assestata su otto musicisti, il disco è uscito per la produzione di Ted Hutt ( Old Crow Medicine Show, Lucero, ecc.), e il suono e l’attitudine, da quella di “moderni” praticanti della musica della Grande Depressione, anche folk e swing, ha aggiunto ulteriori elementi tipo Motown & Memphis soul,  e anche funky,che ora in questo nuovo Is It You, Is It Me, in uscita il 31 gennaio 2020, si cristallizzano in un suono sempre più eclettico,  grazie al nuovo produttore Sam Kassirer, alla console con Josh Ritter, Lake Street Dive, soprattutto questi ultimi, con il loro frizzante pop, rock, retro soul, presentano molte affinità con i “nuovi “ Dustbowl Revival, che si sono ridotti a sei/sette, ma ognuno suona una miriade di strumenti: dal bravissimo violinista Connor Vance, che duplica alla chitarra elettrica, Matt Rubin  tromba, flicorno e tastiere, Ulf Bjorlin al trombone e altri strumenti a fiato, l’eccellente batterista  Josh Heffernan, alle prese anche con una pletora di percussioni, raggiunto dal nuovo bassista Yosmel Montejo,  tutti al servizio delle due voci di Zach Lupetin, in primis e di Liz Beebe, che sono i cantanti del gruppo.

Come nelle deliziose volute tra soul e pop raffinatissimo di Dreaming, con le voci che si intrecciano in modo adorabile, mentre sullo sfondo imperversano fiati a go-go e il violino, la saltellante Enemy, con il trombone a dettare il groove, sembra quasi un brano di Amy Winehouse, se invece che al soul (o non solo) si fosse dedicata anche al vecchio jazz, con la voce di Liz Beebe che un poco la ricorda, sempre con fiati folleggianti in azione. Divertente e coinvolgente anche la spumeggiante Sonic Boom, dove organo e violino sostengono gli immancabili fiati, mentre Lupetin e Beebe sono sempre impeccabili https://www.youtube.com/watch?v=ga9tzinFJZk , la sognante I Wake Up, dalle atmosfere sixties e delicati intrecci vocali è un altro garbato esempio del loro stile unico, con Penelope che alza i ritmi, sempre piacevoli e coinvolgenti, retrò ma senza essere datati, e con arrangiamenti comunque intricati nella loro fruibilità. Get Rid Of You, su paesaggi sonori quasi “innocenti” ma partecipi, narra le vicende tragiche della sparatoria con relativo massacro alla Parkland High School in Florida dello scorso anno.

Mirror, con una chitarrina arpeggiata e poi la solita strumentazione rigogliosa è un altro perfetto esempio del loro pop in excelsis deo, seguito dalla più leggerina ma sempre squisita Ghost con qualche piccolo tocco caraibico innestato sulla parte cantata dalla Beebe, che poi lascia spazio ai ritmi marcianti di Nobody Knows (Is It You) tra New Orleans e il Paul Simon più euforico, per poi passare a una Runaway che parte mossa , si acquieta e poi si rianima, in continui cambi di tempo https://www.youtube.com/watch?v=b6acYpyRmjw . Just One Song è uno dei brani più “corali”, sia per l’uso perfetto delle voci quanto per l’arrangiamento incantevole e quasi minimale, dove affiora anche un pianoforte. Preceduto da una breve corale fiatistica arriva infine in chiusura  la dolcissima Let It Go, altro raffinato ed elegante esempio del la loro musica sofisticata, vivace e molto godibile, non unica ma sicuramente decisamente originale. Esce il 31 gennaio.

Bruno Conti

E Da Questo Disco In Poi La Sua Carriera Cambiò Passo! Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary

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Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary – Craft/Universal CD

All’indomani dello scioglimento dei Blasters avvenuto a metà degli anni ottanta, tutti avrebbero scommesso su una fulgida carriera del cantante del gruppo, Phil Alvin, che invece si infilò in un vicolo cieco ed è tuttora fermo a County Fair 2000 del 1994 (anche se ci sono state reunion sporadiche con gli stessi Blasters, con o senza Dave Alvin, ed i due recenti album proprio in duo con il fratello). Quello che invece ha avuto un percorso costante e fatto di album di qualità media sorprendentemente alta è stato proprio Dave, che nei Blasters era il chitarrista e l’autore delle canzoni: mancava la voce, ma fin dal suo debutto solista Romeo’s Escape (Every Night About This Time in Europa) rivelò di possederne una bellissima, profonda e baritonale, completamente in contrasto con quella nasale ed un po’ chioccia di Phil. I due lavori successivi, Blue Blvd. e Romeo’s Escape, erano due ottimi esempi di rock americano al 100%, ma è con King Of California del 1994 che Dave fece il botto (di critica, non di vendite purtroppo), un album davvero splendido, uno dei primi e più fulgidi esempi di quel roots-rock che nei primi anni novanta andava per la maggiore in decisa contrapposizione con l’imperante movimento grunge. Prodotto da Greg Leisz, King Of California vedeva Dave rivisitare alcune pagine del suo passato, proporre una manciata di cover ed anche introdurre un paio di pezzi nuovi, ma con un approccio perlopiù acustico ed una visione che andava dal folk al blues al country, in cui il rock veniva solo sfiorato.

Da lì in poi Dave venne giustamente considerato come uno dei principali esponenti del rock d’autore made in USA, ed oggi la Craft, etichetta distribuita dalla Universal (in origine il CD uscì per la Hightone), ristampa quel disco fondamentale per il venticinquesimo anniversario, rimasterizzandolo ad arte ed aggiungendo tre bonus tracks. E, se possibile, King Of California è cresciuto ancora in tutti questi anni migliorando ulteriormente: le sonorità cristalline ad opera di Dave (che qui suona solo la chitarra acustica) e di Leisz, superbo musicista che si occupa di tutti ali altri strumenti a corda, risplendono magnificamente anche a distanza di cinque lustri, grazie alla bravura degli altri sessionmen coinvolti (tra cui segnalerei Bob Glaub e James Intveld al basso, Donald Lindley alla batteria, Skip Edwards alla fisarmonica ed organo e Steve Van Gelder al violino) e soprattutto alla bellezza delle canzoni. Come ho accennato prima i brani nuovi sono soltanto due ed il primo è proprio la title track con la quale inizia l’album, una splendida folk ballad con il vocione caldo di Dave a tessere un motivo che profuma di tradizione, con il solo accompagnamento di una chitarra acustica arpeggiata con forza, la slide acustica e il mandolino di Leisz ed una leggera percussione; anche meglio Goodbye Again, meravigliosa canzone dal sapore messicano in cui Alvin duetta con Rosie Flores (che è anche co-autrice del pezzo), una melodia cristallina e grande lavoro di fisa di Edwards: grandissimo brano, me lo ero (colpevolmente) dimenticato.

Dave ripropone anche un paio di pezzi dai suoi primi album solisti: Fourth Of July rimane una splendida canzone anche in questa versione più roots, con ritmo sempre sostenuto ed ottime parti di chitarra (l’elettrica è di Leisz) ed organo, ed anche Every Night About This Time non è da meno neppure in questa rilettura lenta ma piena di pathos, dotata di un crescendo degno di nota. Alvin ci delizia poi con quattro cover: una gustosa East Texas Blues (di Whistlin’ Alex Moore) eseguita in totale solitudine, voce e chitarra alla Mississippi John Hurt, una bellissima Mother Earth di Memphis Slim, sempre blues ma con un godurioso arrangiamento a base di slide acustica, mandolino, basso e batteria (e sentori di old-time music), la tenue Blue Wing, scritta dall’amico Tom Russell ma fino a quel momento inedita (un tipico pezzo del cantautore californiano, con profumo di frontiera), ed uno splendido duetto con Syd Straw sulle note di What Am I Worth (vecchio brano di George Jones), versione formidabile che mantiene intatto lo spirito country dell’originale. Dulcis in fundo, Dave riprende in mano cinque canzoni dei Blasters, a partire da Barn Burning, originariamente una robusta rock song che qui viene spogliata di ogni parte elettrica ma mantiene il suo approccio coinvolgente, diventando uno scintillante boogie acustico (con sezione ritmica) degno di un consumato bluesman. Bus Station diventa una deliziosa country ballad con tanto di steel e fisarmonica, Little Honey un folk elettrificato di grande forza e guidato dalla slide elettrica di Leisz, degna di Ry Cooder, mentre (I Won’t Be) Leaving è un lento fluido e disteso.

Ma il vero capolavoro di re-interpretazione è senza dubbio la celebre Border Radio, che da scatenato rock’n’roll si trasforma in una folk ballad lenta e di incredibile intensità, con solo due chitarre, un basso ed un feeling enorme: praticamente un’altra canzone. Le bonus tracks iniziano con l’inedita Riverbed Rag, squisito strumentale di stampo bluegrass, un brano originale di Dave che sarebbe stato benissimo nell’album del 1994, con Leisz strepitoso al dobro; The Cuckoo è un traditional in duetto con Katy Moffatt (tratto da un album della cantante texana), bellissima e folkeggiante, mentre il CD si chiude definitivamente con la toccante rilettura da parte di Dave di Kern River, brano di Merle Haggard di recente incluso anche nel tributo dedicato dalla Ace al grande countryman, Holding Things TogetherKing Of California si conferma quindi in tutto il suo splendore anche dopo 25 anni, anzi forse è ancora più bello: se uscisse oggi sarebbe disco dell’anno a mani basse.

Marco Verdi

Un Disco Molto Bello…A Metà! Donna The Buffalo – Dance In The Street

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Donna The Buffalo – Dance In The Street – Donna The Buffalo CD

C’è stato un periodo negli anni novanta in cui la scena roots rock/Americana negli States era più pulsante che mai, ed uno dei gruppi che seguivo maggiormente, tra quelli riconducibili a quel filone, erano i Donna The Buffalo, un combo proveniente dallo stato di New York che fondeva mirabilmente rock, folk, country, Messico e zydeco. Album come l’omonimo Donna The Buffalo, The Ones You Love e Rockin’ In The Weary Land erano tra i migliori del periodo nel loro genere, ed in più il gruppo, guidato da Tara Nevins e Jeb Puryear, dal vivo era una formidabile macchina da guerra. Anche nel nuovo millennio i DTB non hanno mai smesso di incidere, ma i loro lavori si sono fatti via via meno interessanti, e sembrava che avessero perso il tocco magico; questo almeno fino a Tonight, Tomorrow And Yesterday, album del 2013 che li vedeva di nuovo in buona forma https://discoclub.myblog.it/2013/07/16/una-miscellanea-di-generi-musicali-donna-the-buffalo-tonight/ , non come nei nineties ma quasi.

Ora, a cinque anni di distanza, i nostri si rifanno vivi con questo Dance In The Street, un disco fieramente autodistribuito come d’abitudine, ma se per il lavoro precedente si erano rivolti alla produzione di Robert Hunter (proprio il paroliere di Jerry Garcia), stavolta hanno puntato ancora più in alto: infatti alla consolle troviamo nientemeno che Rob Fraboni, leggendario produttore californiano che negli anni settanta aveva legato il suo nome a The Band, sia da sola che con Bob Dylan (Planet Waves, Before The Flood, ma anche lo storico The Last Waltz), collaborando inoltre con Joe Cocker, Eric Clapton (No Reason To Cry), Bonnie Raitt, John Martyn ed altri. In Dance In The Street Fraboni ha lasciato abbastanza mano libera ai DTB, usando la sua esperienza per dosare i suoni e calibrare la strumentazione. Il risultato è un album fresco e piacevole, con i nostri complessivamente in buona forma ed ancora in grado di scrivere canzoni di valore (oltre alla Nevins e Puryear, che si occupano di chitarre, steel, fisarmonica e violino, abbiamo David McCracken alle tastiere, Kyle Spark al basso e Mark Raudabaugh alla batteria, più qualche ospite perlopiù alle armonie vocali, tra i quali spicca il nome di Jim Lauderdale, che nel 2003 aveva anche inciso un intero album con i DTB come backing band, Wait ‘Til Spring). Tutto positivo quindi?

Beh, non proprio, in quanto ogni volta che la penna e la voce sono quelle della Nevins il disco raggiunge addirittura momenti di eccellenza, ma quando il testimone passa a Puryear il livello cala drasticamente, a causa di un momento non proprio brillante di forma della parte maschile della leadership. Il problema è che i due, su dodici canzoni, si dividono i momenti da solista in parti uguali (Jeb ha i brani dispari, Tara i pari), togliendo continuità ad un lavoro che, se fosse stato solo nelle mani della Nevins, avrebbe avuto un esito finale ben diverso. La partenza con la mossa e ritmata title track è subito un po’ sbilenca, con Jeb che più che cantare parla, sembra quasi un rap su base roots, un brano privo quindi di una vera melodia: mi ricorda alla lontana i B-52s, e non è da intendersi come un complimento. Molto meglio Motor (canta Tara), una deliziosa e ritmata country song, limpida, solare e con un accompagnamento che rimanda a certe cose di Mark Knopfler. Heaven And The Earth è una rock song vibrante nel suono ma leggermente deficitaria dal punto di vista della scrittura, e risulta un po’ incartata su sé stessa, mentre l’intrigante Look Both Ways ha nel ritmo, melodia e modo di porgere il brano più di una similitudine con lo stile di Stevie Nicks, anzi sembra proprio il brano che i Fleetwood Mac, ammesso che si possano ancora definire una band, non scrivono da una vita.

La delicata Across The Way, guidata dal violino di Tara, è la prima bella canzone tra quelle di Jeb, una fluida e malinconica ballata dotata di un bel crescendo e suonata con classe (e qui lo zampino di Fraboni si sente); una slide introduce la squisita Top Shelf, una splendida e distesa rock ballad che ci fa ritrovare i DTB di due decadi fa, con un refrain vincente (Tara non sbaglia un colpo). If You Want To Live, nonostante un grande uso di fisa, è ripetitiva e con poche idee, e faccio quasi fatica ad ascoltarla tutta, e con Holding On To Nothing la Nevins aumenta il già notevole vantaggio su Puryear, grazie ad una bella e tersa country song, dotata del consueto motivo semplice ma diretto e con un ottimo assolo di chitarra acustica. La guizzante The Good Stuff, di Jeb, è una sorta di rockabilly-pop, e se non altro si lascia ascoltare con piacere, l’elettroacustica I Won’t Be Looking Back inizia come un brano roots dei Grateful Dead, ed è un’altra canzone dall’ottimo impianto melodico, che conferma la facilità di scrittura di Tara. Il CD termina con la sinuosa Killing A Man, non male anche se non irresistibile, e con I Believe, fulgido brano folk-rock eseguito con notevole pathos.

Un disco quindi a due velocità, ottimo per quanto riguarda la parte di Tara Nevins, molto meno brillante quando il pallino passa nelle mani di Puryear: peccato che le due metà non siano separabili.

Marco Verdi

Nove Cartoline Dal Profondo Sud. Kevin Gordon – Tilt And Shine

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Kevin Gordon è un vero uomo del Sud. Originario della Louisiana, da quando ha iniziato ad incidere ha sempre messo le sue influenze sudiste nei suoi dischi, creandosi negli anni uno stile abbastanza personale, per nulla commerciale ma vero, autentico. Agli inizi sembrava semplicemente un nuovo esponente del movimento roots-rock/Americana sviluppatosi negli anni novanta, come certificava il bellissimo Cadillac Jack # 1’s Son, il suo secondo album (ma il primo con una distribuzione più capillare, prodotto ricordiamo dall’E Streeter Garry Tallent) ed ancora oggi uno dei suoi migliori; già dal lavoro seguente, l’ottimo Down To The Well, si notava uno spostamento verso sonorità più paludose, un misto di rock, blues e swamp decisamente diretto e sanguigno, un suono che anche dopo tutti questi anni ritroviamo con piacere in questo nuovissimo Tilt And Shine, disco che giunge a tre anni da Long Time Gone https://discoclub.myblog.it/2015/12/11/vi-piacciono-bravi-kevin-gordon-long-gone-time/  e giusto a venti dal già citato Cadillac Jack, che ancora oggi viene considerato quasi all’unanimità il suo esordio nonché il suo lavoro più brillante.

E Gordon in Tilt And Shine non cambia certo percorso, anzi è come se si fosse guardato indietro ed avesse volutamente messo a punto un disco riepilogativo dei suoi vent’anni di carriera: infatti, oltre a brani parecchio elettrici ed influenzati pesantemente da sonorità swamp e blues tipiche della Louisiana (con uno sguardo anche al confinante Mississippi), troviamo anche più di un pezzo di puro rock’n’roll, sempre comunque di stampo southern. Il tutto crea un insieme stimolante e creativo, che rende il disco piacevole e vario, complice anche la breve durata (34 minuti). Prodotto da Joe McMahan, abituale collaboratore di Kevin, vede in session un gruppo selezionato di musicisti, tra cui ben quattro diversi batteristi (la batteria ha un ruolo primario in questi brani), il piano ed organo di Rob Crowell ed il basso di Ron Eoff, mentre le chitarre, e ce ne sono molte, sono tutte suonate da Kevin e da McMahan. Il disco parte con Fire At The End Of The World, un blues elettrico, annerito e limaccioso, che rimanda alle atmosfere di Tony Joe White, con una sezione ritmica pressante ed ottimi interventi chitarristici.

Saint On A Chain è un brano più disteso, in chiara modalità laidback, tra J.J. Cale ed Eric Clapton, anche se si nota una certa tensione elettrica; One Road Out è ancora bluesata e paludosa, tutta giocata sulla voce, una slide grezza ed una percussione ossessiva, un pezzo che concede poco al facile ascolto ma non manca di intrigare, mentre Gatling Gun fa filtrare più luce, ha una chitarra sempre slide ma più languida, ed anche la melodia è più aperta, più musicale. Right On Time è rock’n’roll, diretto, trascinante e con una splendida chitarra, un brano che ci fa ritrovare il Kevin degli esordi, ma DeValls Bluff è di nuovo scura, dal passo lento ed un sentore blues nemmeno troppo nascosto, con chitarre e batteria che si prendono la scena, quasi come se fossero i Black Keys. Bella ed intrigante Drunkest Man In Town, rock song ritmata come solo un uomo del Sud sa fare, un bel pianoforte ed il canto quasi scazzato del nostro che ci sta benissimo; Rest Your Head è un momento di pace acustica, voce e chitarra, malinconica e cantata con voce sofferta, mentre Get It Together, che chiude l’album (ed almeno un paio di pezzi in più non ci sarebbero stati male), è ancora puro rock’n’roll, forse il brano più solare del CD, con un’aria ancora laidback che lo avvicina non poco al Mark Knopfler solista.

Un buon disco, forse il migliore di Kevin Gordon da molti anni a questa parte .

Marco Verdi

Nuove Conferme Dal Paese Delle Giubbe Rosse. Elliott Brood – Ghost Gardens

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Elliott Brood – Ghost Gardens – Paper Bag Records

Per i tanti (presumo) che non li conoscono, gli Elliott Brood sono un trio canadese originario dell’Ontario, e si sono fatti conoscere al mondo musicale con l’ottimo Work And Love (15) http://discoclub.myblog.it/2015/01/21/il-canada-ci-tradisce-mai-elliott-brood-work-and-love/ , che era già il loro quarto lavoro, EP esclusi, un album che mischiava “roots-rock” con le radici alternative del gruppo, ottenendo incondizionati e positivi riscontri da tutte le più importanti riviste musicali del settore. A due anni di distanza (confesso che colpevolmente me li ero scordati), tornano con un nuovo lavoro Ghost Gardens, che non è altro che una manciata di canzoni “demo”, riscoperte dopo un decennio (vengono da inizio carriera) a cui sono state date una nuova vita, con nuovi testi aggiornati e idee melodiche ampliate, e quindi il bellissimo titolo “Giardini fantasma” risulta più che appropriato. Il trio è sempre composto da Mark Basso alle chitarre, banjo e voce, Casey Laforet alle tastiere, basso, mandolino e voce, Stephen Pitkin alla batteria e percussioni, con il contributo di musicisti e amici tra i quali Aaron Goldstein alla pedal steel e John Dinamore al basso, che dopo lo spartiacque del disco precedente, propongono una perfetta fusione di bluegrass, folk e rock e ottime armonie vocali, che vanno a formare una “tappezzeria” musicale che si aggiunge al loro già eccellente catalogo di apparati sonori.

Diciamo subito che le canzoni che compongono questi “giardini fantasma” sono più che altro undici bozzetti brevi (da un minimo di un minuto ad un massimo di tre), che iniziano con il gioioso “bleugrass” di  ‘Til The Sun Comes Up Again, dove fa la sua bella figura il banjo di Mark Grasso, a cui fanno seguito il country-rockabilly di Dig A Little Hole (entrambe ricordano a tratti il suono dei Lumineers), la pulizia degli strumenti che caratterizza una dolcissima Gentle Temper, mentre 2 4 6 8 è la traccia più “ibrida” e più lunga del disco (quasi 5 minuti), con la chitarra distorta di Laforet che accompagna il banjo di Grasso, prima di esplodere nel finale in un “sound” quasi garage-punk. Si ritorna ai momenti più intimi per poter apprezzare la chitarra riverberata e seducente di The Fall, a cui segue una meravigliosa ninna nanna come Adeline (dedicata alla figlia di Grasso), eseguita solo con il banjo ed un pianoforte “minimale”, per poi passare ad un “valzerone” quasi country tradizionale come The Widower (la storia di una vedova suicida per alcolismo), e allo strumentale Thin Air con il suono “vintage” di un grammofono in stile anni venti. La parte finale è affidata al banjo di Mark che accompagna la pianistica e seducente T.S. Armstrong, il tintinnio rumoroso (e forse anche inutile) grazie agli effetti statici dei nastri di una Searching un po’ arruffona,, per poi chiudere con la melodica e tenera For The Girl, con il mandolino di Casey in evidenza e cantata da Mark quasi “scimmiottando” il McCartney più minimale.

Ormai sono passati diversi anni da quando Sasso, Pitkin e Laforet ( Elliott Brood) hanno esordito, partendo come una band di country “alternativo”, per poi passare al più generico stile “americana”, fino ad arrivare a vincere i Juno Awards (gli Oscar Canadesi della musica) con il roots-rock variegato di Days Into Years, e farsi conoscere anche nel resto del mondo con Work And Love, per arrivare infine a questo Ghost Gardens forse il loro lavoro più eclettico, con le consuete belle armonie vocali (che fanno venir voglia di ascoltare gli album di Simon & Garfunkel), e  per chi non conosce gli Elliott Brood direi che questi “giardini fantasma” meritano tutta la vostra attenzione.

Tino Montanari

Dalla Botte “Infinita” Australiana, Sempre Ottimo Vino ! Paul Kelly – Life Is Fine

paul kelly life is fine

Paul Kelly – Life Is Fine – Cooking Vinyl Records

Succede che quando mi tocca parlare di Paul Kelly, mi devo sempre ricordare che mi trovo davanti ad una gloria nazionale dell’Australia, attivo fin dal lontano 1974, un singer-songwriter fantasioso ed eclettico (compone anche musiche per il cinema e il teatro, talvolta si propone anche come attore), e risulta vincitore di numerosi premi musicali in carriera. Detto questo, devo anche precisare che il buon Paul superati i sessanta anni si è scoperto autore molto prolifico, a partire da Spring And Fall (12), poi dalla riscoperta del soul con il bellissimo The Merri Soul Sessions (14), l’omaggio a Shakespeare con  l’intrigante Seven Sonnets And A Song (16), e, sempre uscito lo scorso anno, registrare una raccolta di “canzoni da funerale” con Charlie Owen Death’s Dateless Night (tutti puntualmente recensiti su questo blog dal sottoscritto), fino ad arrivare a questo ultimo lavoro Life Is Fine, che è un ritorno alle sonorità classiche “roots-rock” degli imperdibili primi album con la sua band Coloured Girls, in seguito rinominata Messengers.

Per fare tutto ciò Kelly richiama musicisti e amici di vecchia data (in pratica la stellare “line-up” di The Merri Soul Sessions), che vede oltre a Paul alla chitarra acustica e elettrica, piano e voce, la presenza di Cameron Bruce alle tastiere, organo e piano, Peter Luscombe alla batteria e percussioni, Bill McDonald al basso, Ashley Naylor alla slide.guitar, Lucky Oceans alla pedal steel, coinvolge la famiglia con il figlio (sempre più bravo) Dan Kelly alle chitarre, e non potevano certo mancare le fidate e superlative coriste Linda e Vika Bull, il tutto per una dozzina di canzoni di buon livello (in alcuni casi ottimo), che confermano che Paul Kelly è uno di quelli che difficilmente sbaglia un colpo. Il “vecchio ma anche nuovo “corso di Kelly si apre con Rising Moon molto vicina al mondo musicale del primo Graham Parker, seguita dalle chitarristiche Finally Something Good e Firewood And Candles, la prima con un finale valorizzato dalle sorelle Bull, la seconda dominata dalle tastiere di Cameron Bruce, lasciando poi spazio alla bravura della sola Vika Bull, che interpreta al meglio un lento blues fumoso quale My Man’s Got A Cold, perfetto da suonare a notte fonda in qualsiasi piano bar che si rispetti.

Si prosegue con la “radioheadiana” Rock Out On The Sea, che fa da preludio all’intrigante Leah: The Sequel, dichiaratamente sviluppata sul ritornello di un brano del grande Roy Orbison (la trovate anche nel famoso Black And White Night), per poi ritornare alla ballata confidenziale di Letter In The Rain (marchio di fabbrica del nostro amico), e ad una piacevole ritmata “rock-song” come Josephine, dove brilla la pacata tonalità di Paul. Con la bella Don’t Explain arriva il turno al canto di Linda Bull, canzone impreziosita anche da una chitarrina suonata à la My Sweet Lord di George Harrison, a cui fanno seguito ancora la bellissima I Seall Trouble, le note pianistiche di una ballata avvolgente come Petrichor, e a chiudere, la filastrocca chitarra e voce di Life Is Fine, per un disco in cui Paul Kelly, ancora una volta con le sue canzoni, sembra volerci ricordare che “la vita è bella”.

Come sempre in Life Is Fine tutto funziona a puntino, e ogni brano rivela la consueta personalità dell’autore (pur con le molteplici influenze della migliore musica americana): anche se rimangono poche le speranze che questo nuovo lavoro renda giustizia al merito del personaggio (che da ben 45 anni frequenta il mondo discografico), un artista in possesso di una maturità compositiva invidiabile, ricco di talento e inventiva, uno (tanto per dire) a cui se il sottoscritto potesse regalare, se non la fama almeno la gloria, con la famosa “Lampada di Aladino”, sarebbe certamente Paul Maurice Kelly da Adelaide, Australia!

Tino Montanari

Non Più Un Ragazzo, Però Un “Finto” Canadese Di Quelli Bravi. Watermelon Slim – Golden Boy

watermelon slim golden boy

Watermelon Slim – Golden Boy – DixieFrog/Ird

Questo nuovo album di Watermelon Slim (a.k.a. Bill Homans) avrebbe dovuto chiamarsi Eternal Youth And The Spirit Of Enterprise, mentre alla fine si è chiamato Golden Boy, in onore della statua  in cima al municipio di Winnipeg, capitale del Manitoba, e una delle più importanti e popolose città del Canada, nelle intenzioni del nostro amico anche una citazione dall’opera di Shakespeare. Bill Homans, in un bel video di presentazione dell’album che trovate su YouTube (e anche qui sotto, guardate la maglietta dedicata a Trump) si definisce un socialista, ma anche un imprenditore, un uomo d’affari, e pure pittore: infatti Golden Boy è anche il nome di un suo olio su tela del 2012, e il motivo per cui poi Watermelon Slim si è recato proprio a Winnipeg per registrare il nuovo album, con la produzione di Scott Nolan. Tra l’altro, per la serie dei corsi e ricorsi (musicali), in passato Slim aveva sempre inciso per la Northern Blues http://discoclub.myblog.it/2010/06/02/la-rivincita-del-country-watermelon-slim-ringers/ , etichetta canadese che sembra avere cessato l’attività, dopo la pubblicazione di Bull Goose Rooster.

Il nuovo album esce infatti per la francese DixieFrog, lo stile del musicista di Boston (ma vive da tempo a Clarksdale, Mississippi, una delle patrie del blues) non sembra cambiato di una virgola dopo la pausa: tanto blues per l’appunto, ma anche rock delle radici, qualche pizzico di folk e di gospel, il tutto cantato con quella voce vissuta, caratterizzata dalla tipica zeppola, testi colti e raffinati, accompagnandosi con l’immancabile national guitar dal corpo d’acciaio, suonata in modalità lap, ma anche con l’accordatura rovesciata tipica dei mancini, e pure dei suonatori di slide. Veterano della guerra del Vietnam, lavoratore nei campi agricoli, dove si è guadagnato il suo nomignolo, ma anche in fabbrica e come camionista, attivista per varie cause, tra cui i nativi americani, Homans si autodefinisce senza false modestie “il bluesman più colto del mondo”, in possesso di un Q.I. molto elevato che lo qualifica come membro della Mensa International, il club dei “geni”, il suo stile è invece volutamente basico e semplice, ma non privo di raffinatezza e classe.

Uno stile, per esempio, che fonde riff alla Stones periodo americano e R&R classico, con il blues più sanguigno, come si evince dalla splendida Pickup My Guidon, il “singolo” che apre questo Golden Boy, un pezzo dove si apprezza anche il lavoro degli ottimi musicisti che lo accompagnano (i Workers sembrano andati in pensione): Joanna Miller alla batteria, Gilles Fournier al contrabbasso, Jeremy Rusu ad un saltellante piano (ma quando serve anche al clarinetto, mandolino e fisarmonica), Jay Jason Nowicki, da Winnipeg, degli ottimi Perpetrators, alla chitarra elettrica, le voluttuose e grintose voci di Jolene Higgins (detta anche Little Miss Higgins) e di Sol James, che in questo brano fanno tanto Merry Clayton negli Stones, e ancora Don Zueff al violino e Scott Nolan, che suona tutto quello che serve, anche la batteria.

Se tutto fosse al livello di questo primo brano, con slide, piano, chitarre e voci femminili che impazzano, si potrebbe quasi gridare al miracolo. Ma anche il resto del disco, meno esplosivo, è comunque assai valido: dal blues primigenio di You’re Going To Need Somebody On Your Bond, dal repertorio di Blind Willie Johnson, solo voce e l’acustica con bottleneck di Watermelon, passando per Wbcn, una scura e raffinata ballata blues, dove Fournier si adopera al contrabbasso con l’archetto, Rusu è sempre eccellente al piano, il ritmo marziale e l’atmosfera del brano ricordano quasi una sea shanty cadenzata, con le chitarre che forniscono la coloritura del suono. Wolf Cry è una sorta di canto nativo indiano, una slide elettrica tangenziale, ululati di lupi e percussioni impazzite che si innestano su uno sgangherato e cattivo blues. Barrett’s Privateers in Canada viene considerato una sorta di inno nazionale non ufficiale (un brano di Stan Rogers, lo scomparso fratello di Garnet), un’altra sea shanty, eseguita solo per voci, in stile quasi gospel folk a cappella, e che fa molto Pogues o Dubliners. Mean Streets ritorna al blues minimale tipico di Watermelon Slim, con l’aggiunta dell’armonica di Big Dave McLean a darle ulteriore autenticità nel suo racconto della vita dei senza tetto, mentre in Northern Blues il musicista americano si accompagna solo con la National in modalità bottleneck per un altro tuffo nelle 12 battute del profondo Sud.. Scott Nolan ha scritto Cabbage Town, che era il nome della città nei pressi di Toronto dove venivano accolti gli immigranti dall’Irlanda, e si tratta di una delicata ballata quasi waitsiana, a tempo di valzer, deliziosa, à la Deportee, con Slim impegnato all’armonica. Winners Of Us All è un’altra malinconica ballata pianistica, quasi da crooner, con il clarinetto a dargli un tocco jazzato. Chiude le danze il brano più lungo del disco, Dark Genius, che ci riporta al blues-rock delle radici sempre presente nel DNA di Watermelon Slim, un pezzo sospeso tra passato e presente, di grande fascino, che racconta le vicende di JFK.

Bruno Conti

Una Grande Band Dimenticata Dal Tempo, Catturata Dal Vivo! Beat Farmers – Heading North 53°N 8°E Live in Bremen 1988

beat farmers heading north live

Beat Farmers – Heading North 53°N 8°E – Live in Bremen 1988 – MIG Made In Germany

La MIG (Made In Germany) è una etichetta tedesca impegnata perlopiù nel pubblicare buona musica registrata dal vivo in Germania, di solito nel passato, e per la maggior parte nella gloriosa serie del Rockpalast, ma ogni tanto propongono delle variazioni sul tema e questo Heading North 53°N 8°E – Live in Bremen 1988 è una di queste eccezioni. La registrazione cattura il quartetto dei Beat Farmers nella seconda fase della carriera, il primo chitarrista e cantante Buddy Blue (Bernard Siegal all’anagrafe) non è più in formazione, ma sono arrivati ben due ottimi sostituti nelle figure di Joey Harris e Jerry Raney, entrambi voce e chitarra, Daniel Monte Mclain, o se preferite Country Dick Montana è sempre una presenza “inquietante” e imponente, seduto dietro la sua batteria, ma anche cantante in alcuni siparietti di sicuro effetto sul pubblico, Rolle Dexter Love pompa come un indemoniato sul basso, e il gruppo rimane pur sempre una forza della natura dal vivo. Tales From The New West, il primo album, viene considerato giustamente il loro capolavoro, un disco di cowpunk (termine coniato anche per la band),  roots music, country, R&R, scegliete voi il termine, o usateli tutti insieme: i gruppi simili a loro erano Jason And The Scorchers, per certi versi i primi Blasters, appena prima c’erano stati i Rank And File, poi sarebbero arrivati anche i True Believers (tanto per inquadrare il periodo e le band più valide), ma Country Dick e soci proponevano con grande nonchalance e vigore questo rock venato di country, o viceversa, un misto di materiale originale e cover, eseguito con classe e potenza, belle voci (vabbé, diciamo che il vocione di Montana era “atipico”) e chitarre taglienti, una ritmica esplosiva e tanta voglia di divertirsi.

Come ricordano le note (in tedesco, ma per fortuna anche in inglese) del libretto, questo concerto del 1988 li cattura al Modernes di Brema, per l’emittente Radio Bremen, e si tratta di uno show, ben registrato e con diciannove fucilate di punk-country-rock di rara efficacia. Il primo brano Bigger Stones è uno dei pezzi di Paul Kaminksi, autore storico della band, country’n’roll di gran classe, una bella melodia, armonie vocali pregevoli e chitarre ingrifate, con Country Dick e Love che battono il tempo alla perfezione. Big Big Man, un brano di Jerry Raney, con un riff diddleyano delle due chitarre che poi si scatenano in una serie di soli veramente gagliardi, di nuovo una miscela tra country e rock eseguita con una vigoria inusitata. A questo punto dello show arriva la prima esibizione di Montana: una versione di Lucille (non quella di Little Richard), bensì il brano di Kenny Rogers, cantata con una voce baritonale che neppure Johnny Cash ce l’avrete mai fatta, molto kitsch e valzerata a tratti, ma anche divertente e assai sopra le righe,  e pure una cortissima Happy Boy è ai limiti della parodia, senza rutti ma con gargarismi e tutto il campionario del “cattivo gusto”, assolo di kazoo incluso. Poi, dopo essersi ripresi (quasi) si lanciano in una Rosie di Tom Waits, che di suo sarebbe una gran ballata, ma il R&R è giusto dietro l’angolo e il tiro di Dark Light è da paura, chitarre cattivissime e atmosfera minacciosa, messaggi criptici di Country Dick inclusi. Eccellente il blues-rock a tutta slide di una Texas che avrebbe fatto felice Johnny Winter e purei Blasters.

Notevole anche Blue Chevrolet, ancora firmata da Kaminski, per la serie non li ferma nessuno, mentre Beat generation di Rod McKuen,è di nuovo l’occasione per Montana per “cazzeggiare” a tutta velocità, tra R&R indiavolato e gli Who (giuro)! I Want You Too giustamente accelera ancora leggermente i tempi, prima di regalare al pubblico una sontuosa e coinvolgente Hollywood Hills, grande rock con una armonica guizzante a farsi largo in un muro di chitarre e batteria. Never Goin’ Back è un pezzo del primo John Stewart, quando il grande cantautore americano scriveva anche pezzi per i Monkees, di nuovo pura roots-rock music di gran classe, degna di Blasters, Jason and The Scorchers e le altre band californiane dell’epoca. Ottime God Is Here Tonight, un’altra devastante fucilata rock di Joey Harris e Riverside di Jerry Rainey, rispettivamente tratte da Pursuit Of Happiness e Van Go, ragazzi se tiravano! Deceiver è un altro deragliante R&R preso a tutta velocità, mentre Key To The World vira verso un rock-blues alla ennesima potenza, con un magnifico Jerry Rainey impegnato a strapazzare la sua chitarra. California Kid, di nuovo di Kaminski era sul primo album con Country Dick Montana che la annuncia come una canzone su “drinkin’ and fuckin’ and lovin’ every minute of it”, e poi procede a dimostrarlo. Purtroppo niente cover di Powderfinger di Neil Young, sostituita nei bis da un Led Zeppelin Medley di 1:02, senza strumenti, solo a cappella, una vera presa per il culo. Ma il vero gran finale è una versione cataclismica di You Can Judge A Book By Looking At The Cover, circa otto minuti di rock and roll scatenato a tutte chitarre, dedicato a “San Bo Diddley”, che conclude in modo degno un concerto giustamente preservato per i posteri. Se fossi bolognese direi “Socc’mel”!

Bruno Conti