Quando Il Canada Confina Con Il Texas. Parte 1: Del Barber – Easy Keeper

del barber easy keeper

Del Barber – Easy Keeper – Acronym/Universal Canada CD

Del Barber è un nome quasi sconosciuto dalle nostre parti, ma anche negli Stati Uniti non è famosissimo, mentre in Canada, sua terra d’origine, è decisamente più popolare. Infatti Barber nel corso della sua carriera decennale (ha esordito nel 2009 con Where The City Ends) ha avuto diversi premi e riconoscimenti nell’ambito della musica roots cantautorale; nato a Winnipeg, Barber non si ispira alla pur prestigiosa scuola dei cantautori canadesi, ma affonda le sue radici musicali nel suono Americana, con nomi del calibro di Townes Van Zandt, Steve Earle, John Prine e Merle Haggard nel suo bagaglio di influenze, e nel corso degli anni si è costruito un’ottima reputazione che viene confermata anche in questo nuovo Easy Keeper, album numero sei della sua discografia inciso come gli altri in maniera indipendente ma stavolta distribuito dalla filiale canadese della Universal (anche se questo non ne migliora la reperibilità, Canada a parte). Del è un cantautore roots di stampo classico, ed il suo suono è un mix di folk, country ed un pizzico di rock dato dalla chitarra elettrica di Grant Siemens (che è anche il co-produttore del CD insieme a Barber stesso), mentre il resto del gruppo è formato dalla steel di Bill Western, il piano e l’organo di Geoff Hilhorst, la sezione ritmica di Bernie Thiessen e Ivan Burke, oltre alle voci femminili di Haley Carr e Andrina Turenne.

Nomi che vi diranno poco o niente, ma stiamo parlando di gente che gira con il nostro da diversi anni ed è quindi ormai un tutt’uno con le sue canzoni: Easy Keeper è perciò un bel dischetto di pura roots music a stelle e strisce ma fatta da musicisti canadesi, undici brani dal suono classico, pulito e mai ridondante, tutto costruito intorno alla voce del leader. L’opening track Dancing In The Living Room è una ballata classica e di buon livello, tra country e musica cantautorale, un suono elettroacustico ed un motivo piacevole che ricorda un po’ lo stile di Kevin Welch. Patient Man è più strumentata ma sempre dal mood tenue e pacato, con un bel background sonoro fatto di chitarre, organo ed una sezione ritmica discreta; Everyday Life è una folk song pura e cristallina dalla melodia toccante e suggestivi rintocchi elettrici sullo sfondo, nobilitata ulteriormente dal controcanto femminile: molto bella.

Con Louise siamo invece in territori country, ritmo spedito, refrain vincente ed ottimo uso della steel, brano seguito a ruota da Leads You Home, altra ballatona elettroacustica intensa ed eseguita con strumentazione parca; Lucky Prairie Stars è il pezzo più elettrico finora, un country-rock cadenzato e godibile con entrambi i piedi più in Texas che in Canada, mentre Juanita è uno slow che ha l’andatura del valzer lento, ed anche qui siamo più vicini al confine col Messico che dalle parti di Manitoba (la regione dove sorge Winnipeg). Ronnie And Rose è un folk-grass purissimo ancora dal ritmo sostenuto e con un motivo trascinante, uno dei brani più immediati con in più una fisarmonica a colorare il sound, Blood On The Sand è ancora lenta e decisamente profonda, grazie anche ad un bell’uso del pianoforte; il CD termina con No Easy Way Out, che ci porta inaspettatamente dentro atmosfere country-got-soul tipiche del sud, e con l’acustica e deliziosa title track, una chiusura da perfetto storyteller per un disco piacevole e ben fatto da parte di un cantautore dal sangue canadese ma con il cuore in America.

Marco Verdi

Tornano I “Maghi” Della Slide. Delta Moon – Babylon Is Falling

delta moon babylon is falling

Delta Moon – Babylon Is Falling – Jumping Jack Records/Landslide Records

Decimo album di studio per I Delta Moon,  Il duo di Atlanta, Georgia, composto da Tom Gray, che è la voce solista e impegnato alla lap steel in modalità slide, e Mark Johnson, pure lui alla slide: in effetti vengono uno da Washington, DC e l’altro dall’Ohio, ma hanno eletto il Sud degli States come loro patria elettiva, e con l’aiuto del solido (in tutti i sensi) bassista haitiano Franher Joseph, che è con loro dal 2007, hanno costruito una eccellente reputazione come band che sa coniugare blues, rock, musica delle radici e un pizzico di swamp, in modo impeccabile. I batteristi, che spesso sono anche i produttori dei dischi, ruotano a ritmo continuo: in questo Babylon Is Falling ne troviamo tre diversi, Marlon Patton è quello principale, mentre in alcuni brani suonano pure Vic Stafford e Adam Goodhue. Il risultato è un album piacevolissimo, dove il materiale originale si alterna ad alcune cover scelte con estremo buon gusto ed eseguite con la classe e la finezza che li contraddistingue da sempre.

Per chi non li conoscesse, i Delta Moon hanno un suono meno dirompente di quanto ci si potrebbe attendere da un gruppo a doppia trazione slide, una rarità, ma anche uno dei loro punti di forza https://discoclub.myblog.it/2017/05/12/due-slide-sono-sempre-meglio-di-una-nuova-puntata-delta-moon-cabbagetown/ :Tom Gray non è un cantante formidabile, ma supportato spesso e voelntieri dalle armonie vocali di Johnson e di Fraher, nelle note basse, è in grado di rendere comunque il loro approccio alla materia blues e dintorni molto brillante e vario, come dimostra subito un brano uscito dalla propria penna come Long Way To Go. Un bottleneck minaccioso che si libra sul suono bluesato  e cadenzato dell’insieme, speziato dal suono della paludi della Louisiana, altra fonte di ispirazione del sound sudista della band, mentre anche l’altra slide di Johnson inizia ad interagire con quella di Gray, che benché il nome lap steel potrebbe far pensare venga suonata sul grembo, in effetti è tenuta a tracolla e “trattata” con una barretta d’acciaio.

Conclusi i tecnicismi torniamo ai contenuti del disco: la title track Babylon Is Falling è un brano tradizionale arrangiato come un galoppante soul-blues-gospel che sta a metà strada tra il Cooder elettrico e i gruppi soul neri, con il consueto sfavillante lavoro delle chitarre, mentre One More Heartache è un vecchio brano Motown firmato da Smokey Robinson  per un album del 1966 di Marvin Gaye, sempre rivisitato con quel sound che tanto rimanda ancora al miglior Ry Cooder. Might Take A Lifetime è il primo contributo come autore di Mark Johnson, ma la voce solista è sempre quella roca e vissuta di Gray, con il suono che qui vira decisamente al rock, pensate ai Little Feat o magari ai primi Dire Straits, tanto per avere una idea; Skinny Woman va a pescare nel repertorio di R.L. Burnside per un tuffo nel blues delle colline, vibrante ed elettrico come i nostri amici sanno essere, grazie a quelle chitarre che volano con leggiadria sul solido tappeto ritmico. Louisiana Rain è un sentito omaggio al Tom Petty più vicino al suono roots, una squisita southern ballad che la band interpreta in modo divino, con l’armonica di Gray che si aggiunge al suono quasi malinconico e delicato delle chitarre accarezzate con somma maestria dai due virtuosi.

Liitle Pink Pistol, nuovamente di Gray, è un rock-blues più grintoso, sempre con le chitarre che si rispondono con  superbo gusto dai canali dello stereo e una spruzzata di organo per rendere il suono più corposo. Nobody’s Fault But Mine è il famoso traditional attribuito a Blind Willie Johnson, altra canzone che brilla nella solida interpretazione del gruppo, con un piano elettrico aggiunto alle due slide tangenziali https://www.youtube.com/watch?v=Bbbvw_Ru5w8 , e sempre in ambito blues eccellente anche il trattamento riservato ad un Howlin’ Wolf d’annata nella inquietante Somebody In My Home, sempre in un intreccio di chitarre ed armonica. Per chiudere mancano una corale e divertente One Mountain At A Time, sempre incalzante e tagliente, e la bellissima e sognante Christmas Time In New Orleans, altro pezzo firmato da Johnson https://www.youtube.com/watch?v=5ZJgSaEjNYU , ennesimo fulgido esempio del loro saper coniugare blues e radici in modo sapido e personale.

Bruno Conti   

Rose Rosse Che Profumano Di Ottima Musica! Grayson Capps – Scarlett Roses

grayson capps scarlett roses

Grayson Capps – Scarlett Roses – Appaloosa Records/Ird

Sei anni separano quest’ultimo lavoro di Grayson Capps dal precedente The Lost Cause Minstrels, un lungo periodo di tempo in cui il songwriter dell’Alabama si è dedicato con esiti positivi al progetto Willie Sugarcapps, il gruppo formato insieme a Will Kimbrough, Corky Hughes e al duo Sugarcane Jane, ovvero Savana Lee ed Anthony Crawford. Insieme a loro ha pubblicato due albums, l’omonimo del 2013 e Paradise Right Here, uscito giusto due anni fa, nell’aprile del 2016. Due buoni dischi che esprimevano le comuni radici dei protagonisti, dal blues al folk, al country rock ruspante della parte southern degli States. Ciò che era rimasto in sospeso quindi, non era tanto l’approccio alla musica, quanto soprattutto la sua evoluzione nel ruolo di autore di testi, da sempre una delle sue migliori caratteristiche. E questi anni, trascorsi a ricostruire una famiglia con l’attuale compagna Trina Shoemaker (stimata produttrice ed ingegnere del suono, premiata anche con il Grammy), lo hanno fatto crescere come uomo oltre che come musicista. Lo ha potuto constatare chi era presente alle date del suo tour italiano dello scorso novembre, in cui Grayson, oltre a presentare i nuovi brani in compagnia del fido Hughes e del nostro ottimo chitarrista J. Sintoni, ha descritto con divertenti introduzioni alcuni dei bizzarri personaggi che popolano le sue canzoni.

Il nuovo CD Scarlett Roses è dunque sotto ogni aspetto il suo lavoro più convincente e maturo, registrato in parte a Mobile, la località dell’Alabama dove attualmente risiede, e in parte nei Dockside Studios di Maurice, in Louisiana. Il disco si apre con l’intensa e nostalgica title track, appassionata rievocazione di un amore ormai finito, irrobustita dai pregevoli fraseggi della chitarra elettrica di Corky Hughes. Hold Me Darlin’ è un blues dal ritmo spigliato che profuma di New Orleans, dobro e lap steel giocano a rincorrersi mentre Grayson canta in tono ironico e rilassato. Bag Of Weed è uno di quei brani che ti entrano sottopelle per non uscirne più, viene voglia di battere le mani seguendone la cadenza e cantandone il ritornello all’infinito, ottima la trovata di mixare la prima parte in studio con un finale dal vivo che si chiude tra gli applausi (meritati). Il ritmo da rock blues schizofrenico che accompagna You Can’t Turn Around ci spinge a muovere ancora il piedino, Hughes e la sua chitarra fanno faville mentre Capps chiude in scioltezza un altro dei suoi sapidi racconti noir. In Thankful l’atmosfera è decisamente più solare, sulle squillanti note di un country rock molto sudista nella forma, a metà strada tra i Lynyrd Skynyrd e Waylon Jennings.

Se già è da considerarsi più che apprezzabile ciò che abbiamo ascoltato fin’ora, la parte migliore di Scarlett Roses deve ancora venire, a cominciare dal prezioso brano intitolato New Again. Un delicato arpeggio e una languida armonica ci introducono in questa sognante folk ballad, un vero e proprio gioiello acustico che vede la partecipazione nel ritornello dell’amico e collega Dylan LeBlanc. Hit Em Up Julie è, per contrasto, un ruvido blues con slide ed armonica a condurre la danza, adeguata introduzione all’episodio più atipico e sorprendente dell’intero lavoro, intitolato Taos. Nei suoi otto minuti e mezzo di crepitanti assoli e distorsioni chitarristiche Grayson ci catapulta in un mondo febbricitante e lisergico, che tanto ricorda le epiche cavalcate elettriche dei Crazy Horse degli anni settanta https://www.youtube.com/watch?v=Zb88nX4Xu5o . Dopo tanta tensione, diviene logico e necessario chiudere il disco con un’oasi di pace, e questo compito viene svolto alla perfezione dalla suadente Moving On, un brano che, per struttura melodica ed efficacia interpretativa, richiama alla memoria quella Love Song For Bobby Long, tratta dalla colonna sonora dell’omonimo film, che fece conoscere Grayson Capps al grande pubblico, ormai tredici anni fa. Oggi, per fortuna, possiamo contare su un autore e un interprete di assoluto livello, che sarà un sicuro protagonista della nostra musica anche negli anni a venire.

Marco Frosi

Tra Un Impegno E L’Altro, Un Bel Dischetto Da Solo! BJ Barham – Rockingham

bj-barham-rockingham

BJ Barham – Rockingham – At The Helm CD

Gli American Aquarium, band alternative country di Raleigh, North Carolina, sono un gruppo alquanto prolifico, visto che in dieci anni di attività hanno già pubblicato sette album di studio (il secondo, l’ottimo The Bible And The Bottle, è stato appena ristampato http://discoclub.myblog.it/2016/11/01/nuovo-se-lo-fosse-american-aquarium-the-bible-the-bottle/) e l’ottavo pare già in lavorazione. Ma, nonostante tutto, il loro leader BJ Barham ha trovato anche il tempo di dare alle stampe questo Rockingham, un piccolo disco (otto canzoni, poco più di mezz’ora) composto da brani scritti dal nostro durante l’ultima tournée con il suo gruppo principale, e realizzato grazie al crowdfunding. BJ si è reso conto che queste canzoni, più personali ed intime del solito, non erano adatte ad essere proposte con gli Aquarium, ma nello stesso tempo non voleva che andassero perdute, e quindi Rockingham è il frutto di questo ragionamento: inizialmente doveva essere un disco per sola voce e chitarra, in modo da preservare al massimo il tono intimista delle canzoni, ma poi Barham deve aver deciso che con l’ausilio di altri musicisti avrebbe reso il tutto un po’ più appetibile, e ha chiamato un ristretto gruppo di amici ad accompagnarlo (tra cui due membri degli Aquarium, Ryan Johnson alla chitarra e Whit Wright alla steel e dobro, mentre il produttore è Brad Cook, che si occupa anche delle parti di basso), mettendo a punto un lavoro alla fine non lontanissimo dallo stile della sua abituale band, anche se qui i toni sono spesso smorzati, la strumentazione parca ed acustica, ed il mood è decisamente country-folk e molto poco rock.

Ma l’esito finale è degno di nota (dopotutto Barham è un bravo songwriter) e, su questo siamo d’accordo con lui, sarebbe stato un peccato ignorare queste canzoni. La bucolica American Tobacco Company ricorda molto l’ultimo John Mellencamp, quello più rurale, l’accompagnamento è acustico ma la sezione ritmica si fa sentire (alla batteria c’è Kyle Keegan), ed il brano risulta altamente gradevole. Rockingham, la canzone, è puro songwriting roots, una melodia limpida, armonica in sottofondo e buoni intrecci di strumenti a corda, mentre la pianistica Madeline è anche meglio: profonda, intensa, ricca di sfumature (il pianista, molto bravo, è Phil Cook), un pezzo che dimostra che questo non è un disco da sottovalutare soltanto perché inciso nei ritagli di tempo. Unfortunate Kind vede BJ solo con la sua chitarra, ma l’intensità di fondo ci fa capire che il disco sarebbe stato valido anche in questa veste più spoglia; O’Lover ha un incedere decisamente coinvolgente, complice anche la bellezza del motivo ed il crescendo progressivo, e si candida come una delle più riuscite, mentre Road To Nowhere è più contenuta, ma non per questo meno interessante, anzi il sapore country crepuscolare le dà un tono diverso. Il dischetto si chiude con la fluida Reidsville, ben sostenuta da fisarmonica e banjo, e con Water In The Well, altra ballata pianistica e malinconica, ma con feeling immutato ed una splendida apertura melodica nel finale.

Nell’attesa del nuovo lavoro degli American Aquarium, questo Rockingham può costituire un valido antipasto.

Marco Verdi

*NDB Nel frattempo è uscito il nuovo doppio album dal vivo della band (o meglio CD+DVD)

american-aquarium-live

Il Ritorno Del Grande “Narratore” Della Tribù Creek! Grant-Lee Phillips – The Narrows

grant-lee phillips the narrows

Grant-Lee Phillips – The Narrows – Yep Rock Records

Come già ricordavo recensendo il precedente Walking In The Green Corn http://discoclub.myblog.it/2012/12/30/un-cantastorie-nativo-americano-grant-lee-phillips-walking-i/  per il sottoscritto è sempre difficile parlare di Grant-Lee Phillips senza ricordare una band come i Grant Lee Buffalo, un gruppo che non fu solo una splendida meteora negli anni ’90, con alcuni dischi eccellenti tra i quali ricordo soprattutto Fuzzy e Mighty Joe Moon. Dopo una traiettoria musicale quasi trentennale (compresi gli inizi con i Shiva Burlesque) e a quattro dall’ultimo suo lavoro in studio, il citatoi Walking In The Green Corn (12), e quindi una più che onesta carriera solista (da recuperare anche un bellissimo album di sole cover come Nineteeneighties (06)), torna con questo nuovo The Narrows registrato negli studi Easy Eye di proprietà di Dan Auerbach (membro dei Black Keys) situati in quel di Nashville, città dove Phillips si è trasferito “armi e bagagli” con la famiglia, dopo una vita passata a Los Angeles. Prodotto dallo stesso Phillips chitarra e voce, e registrato con l’aiuto di Jerry Roe alla batteria, marimba e percussioni, Lex Price (Kd Lang, Shemekia Copeland, Indigo Girls, Allison Moorer) al basso, banjo e bouzouki, Jamie Edwards alle tastiere, Russ Pahl alla pedal steel e il bravo Eric Gorfain al violino, il disco contiene tredici tracce che ricordano anche la sua infanzia, passata tra le praterie dei suoi antenati Creek.

I ricordi di Grant-Lee si aprono sulle vicende della vibrante ed elettrica Tennessee Rain, per poi proseguire con il folk di una toccante Smoke And Sparks, il country agreste della nostalgica Moccasin Creek con il violino di Gorfain in evidenza, passando per il singolo Cry Cry (dedicato alla deportazione forzata dei nativi Indiani), e l’avvolgente melodia di Holy Irons e poi una splendida ballata che rievoca i fasti del periodo d’oro dei Grant Lee Buffalo come Yellow Weeds. Come nei dischi precedenti Phillips dispensa vari generi, tra cui il moderno bluegrass/rockabilly di Loaded Gun, una propensione al rock quasi à la Pearl Jam in Rolling Pin, per poi tornare alle atmosfere acustiche di una sinuosa Taking On Weight In Hot Springs, e ad una ballata figlia o figliastra dei grandi Uncle Tupelo come la splendida Just Another River Town.

I ricordi si avviano alla conclusione prima con la tenue e cadenzata No Mercy In July,  poi con una ballata crepuscolare come San Andreas Fault (con un bel lavoro della chitarra slide), per infine terminare con quello che a Phillips riesce meglio, toccare il cuore, con una grande ballata country-soul chiamata Find My Way (al livello di Fuzzy e Mockingbirds).

The Narrows non è  forse molto dissimile dai precedenti lavori di questo “narratore”, un tipo che nelle sue tre vite artistiche (prima con gli Shiva Burlesque, poi con i Grant Lee Buffalo, e infine, come detto,  con una più che dignitosa e importante carriera solista), ha cavalcato trent’anni di musica certificati da testi importanti, raccontando spesso con la sua calda voce l’altra America, con le storie e le gesta dei nativi Americani e dei disadattati.  Il “californiano” in questa occasione non si è accontentato da fare un disco normale, e, circondato da un manipolo di musicisti all’altezza, sforna probabilmente il suo disco migliore dai tempi dello splendido Mobilize (01), con un suono a tratti minimale, ma abbinato a melodie country, rock e roots, un album da ascoltare tutto ad occhi chiusi, dimostrando ancora una volta di meritare rispetto e ammirazione per la sua musica. Augh!

Tino Montanari

NDT: Nel mese di Aprile Grant-Lee Phillips sarà in tour nel nostro paese per tenere tre concerti, che saranno il 18/04 all’ 1,35 di Cantù, 1l 19/04 al Teatro Della Concordia di San Costanzo, e il 20/04 al Bravo Caffè di Bologna. Ovviamente se potete non mancate.!

Brisbane Mancava? Ancora Dall’Australia ! Halfway – Any Old Love

halfway any old love

Halfway – Any Old Love – Plus 1 Records

Gli Halfway sono una band di otto elementi con sede a Brisbane in Australia, da cui provengono tre membri del gruppo:  il bassista Ben Johnson, Luke Peacock alle tastiere e pianoforte e il chitarrista John Willsteed (ex Go-Betweens), mentre John Busby voce e chitarra acustica, Chris Dale voce e chitarra elettrica e Elwin Hawtin batteria e percussioni sono di Rockhampton nel Queensland, mentre i due fratelli Noel e Liam Fitzpatrick pedal steel e banjo e mandolino, dalla mia amata Dublino. Questo ricco “ensemble” esordisce con Farewell To The Fainthearted (04) dal suono roots-rock mosso e galoppante, a cui hanno fatto seguire Remember The River (06) https://www.youtube.com/watch?v=e5KVvhZHqo4 , che annoverava tra gli ospiti Rob Younger (lo storico vocalist dei Radio Birdman), e dopo una breve pausa An Outpost Of Promise (10) https://www.youtube.com/watch?v=t3IzVC39QbE fino ad arrivare a questo nuovo lavoro Any Old Love, vincitore del Air Award Winner 2014 (come miglior album country indipendente australiano), prodotto da Robert Forster (co-fondatore con Grant McLennan del grande gruppo indie-rock Go-Betweens).

halfway 1 halway 2

Any Old Love è un “concept-album”, diviso in quattro parti, intervallate dalla title track a sua volta spezzata in quattro frammenti , sulla storia di  un ex fantino, anche se la cosa abbastanza particolare, ma non unica, è che quasi tutti i tredici brani sono canzoni d’amore, a partire dal trittico iniziale Dropout https://www.youtube.com/watch?v=9vjJ_6ZpkUE , Honey I Like You https://www.youtube.com/watch?v=VV_ehogmfV0  e Hard Life Loving You, musicalmente con chiari punti di riferimento con i primi Son Volt, Wilco e Whiskeytown, mentre Dulcify https://www.youtube.com/watch?v=91ssAp9328I e Shakespeare Hotel risentono molto della produzione di Forster, per poi farci sobbalzare con il cow-punk di Factory Rats, la malinconia di Erebus & Terror, andando a chiudere con le struggenti ballate (specialità della casa) Sunlight On The Sills e The Waking Hours, cantate dai due “songwriters” Chris e John.

halway 3 halfway4

La formula degli australiani Halfway rimane fortunamente invariata, e loro sono senza dubbio una delle band di punta del circuito “roots-rock” tradizionale in madre patria, sempre molto vivaci ma ancora poco noti e apprezzati al di fuori dell’Oceania (complice anche una concorrenza spietata), ma Any Old Love rimane un lavoro tutto sommato affascinante, suonato con una certa freschezza, che alla lunga nella resa complessiva risulta credibile, e quindi per chi ancora non li conosce e se siete in cerca di epigoni del classico sound down under, potrebbero fare al caso vostro.

Tino Montanari

Rock E Blues In “Bianco E Nero”! John The Conqueror – The Good Life

john the conqueror the good life

John The Conqueror – The Good Life – Alive Natural Sound Records

Un poderoso terzetto (con tastiere aggiunte, all’occorrenza) di stanza a Philadelphia, sulla East Coast, ma originari della zona del Mississippi, Jackson, dove il blues trae le sue radici, i John The Conqueror, nome preso in prestito dal famoso principe/schiavo della tradizione popolare nero-americana, con questo The Good Life sono già al secondo album per la Alive Natural Sound Records, etichetta che vede nel suo roster di artisti anche nomi come Lee Bains III & The Glory Fire, Left Lane Cruiser, Buffalo Killers, Hollis Brown, Beachwood Sparks e la recente aggiunta Mount Carmel (già attivi presso altre etichette), oltre ai Black Keys che per la Alive pubblicano vinili ed EP, tutta gente buona, come vedete.

john the conqueror 1

Forse proprio ai primi Black Keys si può far risalire il sound di questi John The Conqueror, un rock-blues denso e scarno, che però aggiunge elementi soul e funky, vista la presenza di due artisti di colore nei ruoli chiave della band, chitarra solista e voce Pierre Moore, batteria Michael Gardner, che dovrebbe essere il cugino, mentre al basso l’unico bianco Ryan Lynn che si porta al seguito Steve Lynn alle tastiere, che però non fa parte ufficialmente del gruppo https://www.youtube.com/watch?v=mF0CUs4u1Fk . A tutti gli effetti una sorta di power trio rock-blues, anche se non di quelli che fanno dell’arte della jam e delle lunghe improvvisazioni chitarristiche il loro credo, optando per un suono chiaramente rock ma dove non si prevede la presenza di un guitar hero a tutti i costi, anche se Moore se la cava egregiamente alla sua Gibson, ma senza esagerare mai, preferendo i riff densi e cattivi dell’iniziale Get’Em dove la band costruisce un groove funky con rimandi a vecchi gruppi “neri” che facevano rock come i Chambers Brothers (senza la componente gospel), ma anche e molto ai citati Black Keys, con soli brevi e vagamente simili pure al miglior Kravitz (non è una eresia) o a Jimi quando concedeva qualcosa alle sue radici nere https://www.youtube.com/watch?v=EwVtJQ3-o1I , anche Mississippi Drinkin’ viene da quella scuola, chitarre riverberate e “primali”, intrecci vocali di stampo vagamente R&B su una base decisamente rock.

john the conqueror 3

Ritmi tribali e reiterati, come nelle derive leggermente psych di Waking Up To You, dove riff e grinta vanno di pari passo, soli brevissimi e ficcanti, pochissime concessioni al virtuosismo, forse una eccessiva ripetitività, anche se l’aggiunta delle tastiere conferisce a What Am I Gonna Do una sorta di patente soul-rock molto incisiva, dove la bella voce di Moore ha ragione di farsi apprezzare. Però i brani viaggiano quasi tutta in quella sorta di mid-tempo funky, dove il groove è più importante della melodia e le capacità compositive di Pierre Moore non sono eccelse, i brani si assomigliano un po’ tutti. Non è un caso se il brano che forse si nota di più è una cover di Let’s Burn Down The Cornfleld di Randy Newman, musicista notoriamente non dedito abitualmente al blues-rock di matrice sudista, ma che le note sa metterle in fila per benino, anche se l’esecuzione della band non è poi molto differente da quella delle altre canzoni https://www.youtube.com/watch?v=GK2Ye1ym6kM . Potrebbero essere  avvicinati pure ad una sorta di Roots, meno vari e “moderni”, più rockisti e meno hip-hop, ma abili in questa fusione di elementi rock con varie forme di musica nera, blues grezzo e ritmato in primis. John Doe, rallenta i ritmi e si avvale con buoni risultati dell’organo di Steve Lynn mentre Daddy’s Little Girl, dall’inizio soffuso, sembra tentare altre strade sonore ma poi ritorna in fretta al “solito” suono denso e cattivo, ma quantomeno Moore prova a diversificare lo stile compositivo e la solista si lascia andare per una volta tanto. Interessanti ma non fondamentali, li attendiamo a prove più decisive, se ci saranno!

Bruno Conti   

Non Tutte Le “Zucche” Sono Vuote! The Gourds – All The Labor

gourds all the labor cd gourds all the labor dvd

The Gourds – All The Labor – Soundtrack – High Plains Films – CD – DVD

Sebbene mi sforzi, non riesco a pensare a un album non riuscito tra gli undici pubblicati dai texani Gourds, in diciotto anni di carriera (dal 1996 a oggi). Cominciano subito col dire che questa band proviene da Austin, Texas (il che è già una garanzia) e hanno cominciato a fare musica dai primi anni ’90, diventando col tempo un gruppo perfettamente rodato nel cosiddetto country alternativo texano, dei veri e propri veterani della scena di Austin, da cui hanno imposto il proprio stile, un roots-rock poliedrico e festoso, nonostante le loro radici siano ancorate alla tradizione (si sono ispirati a personaggi come Doug Sahm e Lowell George). Il nucleo del gruppo è formato da Kevin Russell, Max Johnston, Keith Langford (omonimo del cestista dell’Olimpia Milano), Claude Bernard e Jimmy Smith, hanno esordito con periodici lavori tra cui vi ricordo Dem’s Good Beeble (96), Stadium Blitzer (98), Ghosts Of Hallelujah (99)e Bolsa De Agua (00) dedicato al citato Doug Sahm, disco che include melodie con fisarmoniche e violini che sanno di tex-mex, e che naturalmente risentono del vicino confine messicano. Nella seconda decade le “zucche” sono ripartite con Cow Fish Fowl Or Pig (02), Blood Of the ram (04), Heavy Ornamentals (06), Noble Creatures (07), l’ottimo Haymaker (09) e l’ultimo lavoro in studio Old Mad Joy (11), un disco di transizione (con una copertina improponibile).

gourds

Questo All The Labor, stranamente, è il primo disco dal vivo di questa formazione, ed è il risultato di un film musicale (finanziato con il sistema della Kickstarter Campaign http://www.youtube.com/watch?v=tl9STjTJOGU) girato in più date nel corso del tour svoltosi fra il 2011 e 2012, con diciotto brani catturati a formare una perfetta colonna sonora, che vuole anche essere un bilancio della carriera. Ho sempre pensato che certe formazioni rendano al meglio nei concerti dal vivo, ed è questo il caso dei Gourds, quando la musica ruspante, e la contagiosa energia e il piacere della band di fare rock, si tramuta in versioni irresistibili di brani del primo periodo come Gangsta Lean, Pint Tar Ramparts, Jesus Christ With Signs Following, Maria, Plaid Coat, e brani del repertorio più recente (estratti da Old Mad Joy), quali Peppermint City, Melchert, Eyes Of A Child, Your Benefit, per chiudere in gloria con l’inedito All The Labor.

gourds live

“La grande bellezza” (citazione di moda in questo periodo) di questo documentario http://www.youtube.com/watch?v=x2fao5BSVzk , si manifesta nei ritmi sostenuti di Keith Langford, negli accenti cajun della fisarmonica di Claude Bernard, del banjo e violino di Max Johnston e soprattutto nella voce e nel mandolino di Kevin “Shinyribs” Russell, (il leader riconosciuto della band), senza tralasciare le chitarre elettriche, e dove la varietà del suono, in diverse forme, rappresenta il loro punto di forza. Dischi così fanno bene alla salute, non resta che pagare lo scontrino del CD o DVD, sedersi sulla poltrona, premere il tasto play del lettore, e scoprire che il divertimento è appena cominciato.

gourds 1

NDT: Kevin Russell sotto lo pseudonimo di Shinyribs ha inciso due interessanti lavori solisti, Well After Awhile (2010) e Gulf Coast Museum (2013):  nel primo si trova una cover del classico A Change Gonna Come del grande Sam Cooke, in versione acustica con ukulele e mandolino.

Tino Montanari

*NDB. Last but not least, il nome dei Lowlands di Ed Abbiati viene dal titolo di una canzone dei Gourds.

Ricominciamo Pure, Con Un Gruppo Di Irlandesi “Malati” D’America! Bap Kennedy – Let’s Start Again

bap kennedy let's start again

Bap Kennedy – Let’s Start Again – Proper/Ird 2 CD Deluxe Edition

Come sembrerebbe suggerire il titolo, questo Let’s Start Again (sesto album di materiale originale, dicono quelli che parlano bene, ma se ne ha anche fatto uno, Hillbilly Shakespeare, che erano tutte cover di Hank Williams, a casa mia sono sette) potrebbe essere una ennesima ripartenza per la carriera di Bap Kennedy, con tutto che ultimamente, dopo una carriera di alti e bassi, le cose sembrano andare piuttosto bene per il musicista irlandese. L’ultimo album, The Sailor’s Revenge, prodotto da Mark Knopfler e di cui trovate la recensione sul Blog (http://discoclub.myblog.it/2012/02/14/dall-energia-del-frutteto-alla-vendetta-del-marinaio-bap-ken/), insieme alle note biografiche e ad un breve excursus sulla discografia (l’unica cosa che posso aggiungere, ad integrazione, è che il fratello è Brian Kennedy, altro bravo musicista, collaboratore in passato di Van Morrison, ma musicalmente abbastanza lontano dallo stile del nostro), aveva avuto ottime recensioni e un discreto riscontro di vendite, sempre nell’ambito di una piccola label di successo come è la Proper. Per questo nuovo album Bap ha preferito circondarsi dei musicisti della sua band, qualche ospite, ma nessuno dal nome eclatante, bravi però, ovviamente l’immancabile moglie Brenda Boyd Kennedy, che oltre a suonare il basso e occuparsi delle armonie vocali, ha anche realizzato la foto della copertina del CD. Il tutto è stato registrato in Irlanda del Nord, con il co-produttore abituale e vecchio pard, Mudd Wallace (quando non ci sono in ballo amici famosi!) e il risultato è, stranamente, il disco con il suono più americano, o se preferite “Americana”, della carriera di Kennedy, quasi nessuna traccia delle melodie celtiche e irlandesi che apparivano in Sailor’s Revenge , un sound comunque molto rootsy, per una decina di belle canzoni che confermano il talento dell’ex Energy Orchard.

https://www.youtube.com/watch?v=qEfSAYotVdQ

L’ho ascoltato parecchie volte, è un po’ di tempo che ci giro attorno come ascolti, e, parere personale, mi sembra un filo inferiore al suo predecessore, che forse era più malinconico e maestoso (ma secondo altri questo Let’s Start Again è invece migliore dell’album del 2012, punti di vista rispettabili): diciamo che il disco si riavvicina musicalmente agli esordi solisti di Domestic Blues, il disco prodotto da Steve Earle ( il nostro Martin ha sempre avuto delle ottime frequentazioni, anche con Van Morrison, col quale ha firmato un brano in passato, oltre ad essere entrambi di Belfast). Le prime due canzoni hanno un sound che per certi versi mi ha ricordato (rispettabili anche le mie impressioni?), chissà perché, tra i tanti, il Bob Dylan degli anni ’70, soprattutto la seconda, Revelation Blues, che con il suo violino insinuante (John Fitzpatrick), ricorda i ghirigori di Scarlet Rivera in Desire, anche se la voce di Bap è ovviamente diversa da quella di Bob, ma il ritmo incalzante, i tocchi di mandolino e pedal steel, possono ricordare lo Zimmy ai limiti del country tzigano  . E già nell’ottima iniziale Let’s Start Again, questo suono delle radici “americane” è molto marcato, pedal steel a manetta (o a pedale schiacciato a fondo, se preferite), un bell’organo, mandolino, chitarre acustiche, la brava Brenda Boyd che fa la Emmylou Harris della situazione, tutto molto bello e dylaniano.If Things Don’t Change è più Lovettiana, nel senso di Lyle, o comunque texana (aggiungere nomi a piacere), un western swing cantautorale, delicato e divertente, con i vocalisti di supporto che si divertono quasi in modalità doo-wop, la pedal steel che continua ad impazzare ed una levità di fondo deliziosa.

King Of Mexico, fin dal titolo, ci porta sulla mexican border, la linea di confine con il Messico, una fisarmonica sbarazzina, gli strumenti a corda in evidenza, un pianino delicato suonato da John McCullough che raddoppia la fisa canonica, coretti da baffuti messicani, il tutto dalla verde Irlanda, potrebbe essere un brano dei Los Lobos, La Bamba al rallentatore. Song Of Her Desire è una ballata quasi sussurrata, questa volta in punta di dobro, sempre con quel leggero train sonoro incalzante che dà l’impressione di una musica sempre in movimento, in ogni caso altra ottima canzone. Fine prima parte, la migliore!

Nei vecchi dischi ci sarebbe una pausa per cambiare la facciata del vinile, che volendo esiste e passare a Radio Waves, un bel valzerone country dallo spirito upbeat, con gli sha-la-la dei coristi che gli danno quell’aria demodè che andava sulle vecchie onde radio, mandolini, pedal steel e una chitarrona twangy intensificano lo spirito campagnolo del brano e tutto scorre molto piacevolmente, ma forse manca quello spirito malinconico del disco precedente. Che è successo? Sono andato a bere un bicchiere d’acqua, torno e qualcuno mi ha cambiato il CD e mi ha messo Lyle Lovett & His Large Band, scusate controllo. No, in effetti è sempre quello di Bap Kennedy, Heart Trouble il brano, ma l’effetto swing di violini, steel, mi pare anche un vibrafono, l’immancabile piano, coretti ancora doo-wop, ricorda il texano dalla strana pettinatura. Under My Wing introduce ritmi caraibici, direi calypso addirittura, ma suonato in qualche balera sul confine tra Messico e Texas, cantato con quella voce da irlandese triste che è nelle corde del nostro amico Bap, i soliti sha-la-la, un bel mix di generi . Strange Kid è nuovamente un country-swing-rock (si può dire? ma sì!), mandolini, chitarrine, violini, dobro e vocine delicate si sprecano in questa ulteriore piacevole rimpatriata nelle radici del suono americano. Ancora  country caraibico, più Buffett che Lovett per l’occasione, per una disincantata e divertente Fool’s Paradise. Si conclude con Let It Go, che per uno che ha fatto un intero disco di brani di Hank Williams era quasi inevitabile ed immancabile, con la moglie Brenda a fare la seconda voce, come dei novelli Gram e Emmylou, e vai con violino e pedal steel, maestro.

In definitiva un bel dischetto. Potete, anzi dovete, comprare la Deluxe Edition doppia, visto che costa poco di più, anche se poi le chicche sono solo due versioni inedite acustiche di un paio di brani da The Sailor’s Revenge,Jimmy Sanchez e Please Return To Jesus, le altre nove sono una sorta di greatest songs dagli album precedenti. La mia preferenza l’ho già espressa all‘inizio, ribadisco, ma averne comunque di dischi così. Esce ufficialmente domani 4 febbraio.

Bruno Conti

Gli “Ultimi Fuorilegge” Del “Jam-Roots-Grass” – Railroad Earth – Last Of The Outlaws

railroad earth last of the outlaws

Railroad Earth – Last Of The Outlaws – Black Bear Records

Nati dalle ceneri dei From Good Homes (una band tanto brava quanto sfortunata, separatasi nel ’98 e pressoché dimenticata), i Railroad Earth sono forse la più eccitante jam-roots-grass band attualmente in circolazione, una formazione capace di amalgamare con assoluta naturalezza bluegrass, country, folk, rock e arie irlandesi, in composizioni dallo splendido tessuto strumentale e dalla limpida linea melodica. Grazie alla scintillante musicalità delle canzoni composte dal leader Todd Sheaffer ed alla straordinaria tecnica strumentale dei musicisti http://www.youtube.com/watch?v=en6SSwOyvs0 : i Railroad Earth sono sulla scena dal lontano 2001 con l’esordio The Black Bear Sessions, poi passano alla Sugar Hill Records e incidono due splendidi album, Bird In A House (02) e The Good Life (04), ancora un cambio di etichetta con la Sci Fidelity Records per un meraviglioso doppio dal vivo Elko (06) e Amen Corner (08), e poi l’ultimo lavoro in studio l’omonimo Railroad Earth (10, senza contare le innumerevoli miglia fatte per attraversare l’America e suonare in decine di Festival, con un nome ormai consolidato, e non solo nei circuiti delle “jam bands” http://www.youtube.com/watch?v=5dfMGje05RE .

railroad earth3

Todd Sheaffer, chitarra e voce, come detto, guida le truppe, a lui si aggiungono la bravura di Tim Carbone alla fisarmonica e violino, di John Skehan al mandolino e pianoforte, Andrew Altman al basso e Carey Harmon alla batteria, sono la sezione ritmica e il polistrumentista Andy Goessling, arricchisce i particolari del sound della band; il risultato, ancora una volta, è un album coinvolgente, registrato negli studi RR Sound di Los Angeles http://www.youtube.com/watch?v=KGrAQpz5j2Y .

railroad earth

Quindici canzoni, più di settanta minuti di musica, il disco inizia con il travolgente bluegrass di Chasin’ A Rainbow, un concentrato di pura energia, la title track The Last Of The Outlaws è più rilassata, inizia con pianoforte e violino, uniti alla voce di Todd, una tenue ballata d’atmosfera http://www.youtube.com/watch?v=TDnLtAD4Xv0 , per poi passare a Grandfather Mountain, dove il ritmo viene dettato dal violino e mandolino, per una melodia suggestiva. Si prosegue con il brano più lungo del disco All That’s Dead May Live Again, una maestosa “suite” composta da sette capitoli (conglobando anche la successiva Face in A Hole:In Paradisum), una sorta di sinfonia musicale che parte con arie celtiche, per poi arrivare attraverso varie sezioni musicali ad un suono psichedelico che sfiora anche il jazz, per 21 minuti di musica, che certificano la perizia di tutta la band.

railroad earth 1

Monkey ha un attacco “dance”, il piedino non riesce a stare fermo, il pianoforte impazza e il brano scivola via spedito, mentre Hangtown Ball ancora molto lunga, smorza i toni e presenta un suono languido, che vive sulle evoluzioni del banjo e violino, seguita a sua volta da una When The Sun Gets In Your Blood, ritmata e decisa, e che mischia i vari strumenti in continue evoluzioni, ad un ritmo vertiginoso. La conclusione di un disco magnifico è affidata a One More Night On The Road, un rock venato di blues http://www.youtube.com/watch?v=cKxYLjj6tdg  e a Take A Bow (per fortuna non quella di Madonna), una ballata in cui il ritmo è lento, ma la cornice musicale è ricca, con la voce di Todd carica d’anima.

railroad earth 2

Quindi una gradita conferma per una band che non sbaglia un colpo, fautrice di un suono caldo e affascinante, con il violino e gli strumenti a corda che sviluppano un tappeto sonoro fluido per la voce del leader, che continua imperterrito la strada che aveva intrapreso nella sua precedente incarnazione rock, nei From Good Homes. Chi acquisterà Last Of The Outlaws non sarà certamente deluso e per gli altri, peccato, non sapete cosa vi perdete!

Tino Montanari