“Reale Fratellanza Sudista”, Versione II Capitolo Secondo. Royal Southern Brotherhood – The Royal Gospel

royal southern brotherhood - royal gospel

Royal Southern Brotherhood – The Royal Gospel – Ruf Records                   

Questo è il secondo capitolo in studio della versione Mark II della “Reale Fratellanza Sudista”: rispetto al disco precedente Don’t Look Back, uscito lo scorso anno http://discoclub.myblog.it/2015/05/14/cambia-la-fratellanza-parrebbe-meglio-royal-southern-brotherhood-dont-look-back/ , c’è stato un ennesimo cambiamento nella formazione, Darrell Phillips ha sostituito al basso il membro originale Charlie Wooten, dopo gli avvicendamenti avvenuti tra il 2014 e il 2015, quando Bart Walker e Tyrone Vaughan erano subentrati a Devon Allman e Mike Zito, lasciando solo Cyril Neville e Yonrico Scott dei musicisti presenti nel primo album. Diciamo che anche questo album di studio (pur segnalando ulteriori passi avanti, già evidenziati nel precedente CD) è comunque inferiore alla dirompente potenza che i Royal Southern Brotherhood sono in grado di esprimere nei loro concerti dal vivo, come evidenziato dallo splendido CD/DVD della serie Songs From The Road. Come si usa dire, The Royal Gospel cresce dopo ripetuti ascolti, e anche se la produzione di David Z (come del suo predecessore Jim Gaines) continua a non soddisfarmi del tutto, ci sono parecchi brani sopra la media in questo quarto album della band sudista. Intanto il disco è stato registrato in presa diretta, in sette giorni, a New Orleans ai Dockside Studios nel febbraio di quest’anno e si sente (sia come locations che come freschezza nell’approccio); come si sente la presenza del membro aggiunto Norman Caesar, alle tastiere e in particolare all’organo Hammond B3, che aggiunge profondità e tocchi gospel soul al suono del gruppo, e poi anche le canzoni, spesso firmate collettivamente, hanno una maggiore compattezza e spessore, pur puntando comunque più sui grooves e le soluzioni ritmico-soliste che sulla melodia, ma a lungo andare, devo dire, piacciono.

Peraltro lo spirito delle “famiglie del Sud” vive sempre nella band, se Cyril Neville rappresenta appunto il lato gumbo soul dei Neville Brothers, Tyrone Vaughan (figlio di Jimmie e quindi nipote di Stevie Ray) rimpiazza lo spirito rock della famiglia Allman, che era detenuto da Devon. Probabilmente Vaughan e Walker, pur essendo fior di strumentisti, sono inferiori a Walker e Zito, ma si amalgamano meglio nel tessuto sonoro d’insieme, e i loro strumenti sono spesso e volentieri in primo piano. Come si evince dalla prorompente scarica di energia rock della iniziale Where There’s Smoke There’s Fire, un pezzo firmato da Neville e Vaughan che brilla per il lavoro delle due chitarre, sia solistico che di tessitura, quanto per gli intrecci vocali, anche se la produzione di David Z al solito è fin troppo carica, comunque partenza eccellente https://www.youtube.com/watch?v=dxN5D8_Adr0 . I’ve Seen Enough To Know ha dei tratti sonori decisamente più gospel-soul, reminiscenti del sound dei Neville Brothers, anche se un filo troppo “leccati”, ma il tocco dell’organo, le percussioni di Cyril e il lavoro ritmico sono decisamente raffinati https://www.youtube.com/watch?v=Hh6iblzzmdA , ma è in Blood Is Thicker Than Water che i due mondi si fondono alla perfezione, il tocco santaneggiante delle chitarre, il groove figlio della Louisiana dei migliori Neville, tra soul, R&B e funky, qualche inserto caraibico, con Walker e Neville che sono le due guide vocali, e gli inserti blues-rock delle due soliste sono fulminanti.

I Wonder Why accentua gli elementi blues, ma anche quelli gospel, con il classico call and response che si inserisce in un crescendo di intensità, e anche I’m Coming Home mantiene questo spirito grintoso, tra il ritmo marziale della batteria, i soliti interventi mirati delle due chitarre, sempre pronte alla bisogna e l’organo che scivola languido sullo sfondo. Everybody’s Pays Some Dues è ancora più sbilanciata sul lato blues, sempre però con quello spirito funky presente nel brano, e le chitarre fanno sempre la differenza, come nei concerti dal vivo; Face Of Love è la prima ballata dell’album, introdotta da un bel arpeggio di acustica, poi si sviluppa in un notevole crescendo, cantato con voce melliflua da un ispirato Cyril Neville, che si conferma vocalist di tutto rispetto. Land Of Broken Hearts torna al southern rock del brano iniziale, con poderose folate chitarristiche, con Spirit Man che privilegia di nuovo il lato più blues ed autentico della band, grintoso e classico al tempo stesso, assolo di slide incluso. Hooked On The Plastic è di nuovo puro funky Neville syle, come pure Can’t Waste Time, mentre la conclusiva Stand Up è una coinvolgente esplosione di tipo rock’n’soul.

Bruno Conti

Girovagando Per Il Sud Degli States. Mike Zito – Gone To Texas

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Mike Zito & The Wheel – Gone To Texas – Ruf Records 

Forse non entrerà nelle liste assolute dei top di fine anno ma questo nuovo album di Mike Zito è assolutamente tra i migliori nel suo genere. Già ma che genere è? Intanto, come diranno altri, perché lo dice lui stesso nelle note di copertina, è un disco autobiografico. Canzoni che raccontano come il Texas, in un certo senso, gli ha salvato la vita. Ha trovato la compagna della sua vita, ma anche la salvezza dalla dipendenza da droghe che aveva caratterizzato una lunga fase della sua esistenza. Prendere un Greyhound e andare da St. Louis, la sua città, al Texas, per un americano non è una cosa difficile, ma Zito racconta nelle sue canzoni questa storia come una sorta di redenzione.

Naturalmente nel suo percorso musicale ci sono anche altri quattro album (tra cui un live), usciti dal 2008 ad oggi, tutti validi, oltre alla carriera parallela con i Royal Southern Brotherhood, di cui è uno dei soci fondatori (con Cyril Neville e Devon Allman, insieme ai quali firma un brano a testa per questo Gone To Texas), quindi il southern rock è sicuramente uno dei generi presenti in questo album, per rispondere alla domanda precedente.

Non manca una forte dose di blues (e la Ruf Records è una etichetta che “capisce” il genere a fondo). Il disco è registrato ai Dockside Studios di Maurice, in Louisiana, e quindi il gumbo sonoro della Crescent City è un altro degli elementi del sound, come evidenzia in modo stupendo la slide di Sonny Landreth, presente in una canzone come Rainbow Bridge, che potremmo definire “swamp Blues”, ma ricorda moltissimo anche le pagine migliori del songbook dei Little Feat o di John Hiatt, con la voce di Susan Cowsill (una dei componenti dei Wheel) a dare ulteriore spessore al suono del gruppo, con una presenza alla Bonnie Raitt o alla Susan Tedeschi, per citare un’altra band con cui hanno affinità elettive.

Gruppo che ha una sezione ritmica solidissima e piena di fantasia, nelle persone di Rob Lee alla batteria e Scot Sutherland al basso, a cui aggiungiamo un Jimmy Carpenter che si disimpegna a sax e percussioni e aumenta la quota soulful della formazione. Quindi ricapitolando abbiamo un suono “sudista”, nell’accezione più ampia del termine, dove confluiscono rock, soul, blues, R&B, tante chitarre (e Mike Zito è un signor chitarrista), belle voci, lo stesso Mike, Susan Cowsill, Carpenter, anche Delbert McClinton, che appare a duettare con il leader in una sontuosa The Road Never Ends. Ma tutto il disco è ricco di belle canzoni, a partire dalla emozionante title-track, Gone To Texas, che ricorda quelle ballate southern mid-tempo che ai tempi facevano Allman Brothers o Marshall Tucker, percorsa dalle chitarre di Zito, dal sax di Carpenter e guidata dalla voce di Mike, che è anche un signor cantante, devo rivalutare il suo ruolo nei Brotherhood.

I Never Knew A Hurricane è un’altra ballata deep soul (scritta con Cyril Neville) con l’organo di Lewis Stephens che è un ulteriore elemento portante nel sound del gruppo e mette in evidenza il duettare tra Zito e la Cowsill, oltre al sax di Carpenter che si integra perfettamente al suono d’insieme. Suono che ricorda molto anche la qualità di Hiatt e McClinton oltre ai sudisti e agli altri citati. Ma il sound si può incattivire di brutto, come in Don’t Think Cause You’re Pretty, dove il nostro amico, voce distorta e slide tagliente dimostra (o conferma) di essere anche un bluesman a tutto tondo. E lo ribadisce nell’acustica Death Row, un folk blues dalla grande atmosfera, solo voce, National steel con bottleneck, un tamburello e tanto feeling. In questa alternanza di stili c’è spazio anche per il funky sanguigno di una carnale Don’t Break A Leg, con accenti di James Brown e Sly Stone o per la ballata pianistica Take It Easy, firmata da Delbert McClinton e interpretata alla grande da Mike, un blue eyed soul con il bollino di qualità. La già citata The Road Never Ends, attribuita a Devon Allman e Mike Zito, vede la partecipazione di McClinton, anche all’armonica ed è un bluesone con slide a a cavallo tra Allmans e un Bob Seger d’annata.

Subtraction Blues il genere lo dichiara fin dal titolo, ma è di nuovo quello meticciato dei Little Feat o dei musicisti di New Orleans, con chitarra, piano e sax a dividersi i compiti con ottimi risultati. Per Hell On Me Zito estrae dal cilindro anche un vigoroso wah-wah che si fa largo tra sax, organo e lo voci di Mike e Susan, per dimostrare, se ce n’era bisogno, che questo signore è anche un solista coi fiocchi. Voices In Dallas è uno dei brani che raccontano la sua odissea passata con le droghe, sempre con ritmi bluesati e ancora con un’ottima slide e organo in bella evidenza, oltre al sax baritono di Carpenter. Sempre slide anche per la trascinante Wings Of Freedom altro brano rock che mi ha ricordato nuovamente il miglior Bob Seger e conclusione acustica con la cover acustica del blues di William Johnson Let Your Light Shine On Me. Un disco di sostanza, caldamente consigliato a chi ama la buona musica!   

Bruno Conti     

Ancora “Sudisti”, Ma Di Quelli Bravi! Skinny Molly – Haywire Riot

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Skinny Molly – Haywire Riot – Ruf Records –

Le tedesca Ruf Records, un tempo dedita solo a Blues e Blues-rock, negli ultimi anni ha iniziato a costruirsi un piccolo “roster” di artisti che gravitano intorno all’area southern, i più recenti sono i Royal Southern Brotherhood e Devon Allman da solista. Questi, per esempio, hanno presentato recentemente dei buoni risultati per il filone, insieme a Dixie Tabernacle, Brothers Of The Southland, Blackberry Smoke e vari altri, tenendo alta la bandiera del genere. Quasi tutti questi gruppi vedono nelle loro fila dei veterani che provengono anche dalle vecchie band storiche che hanno dato lustro all’area sudista nel passato. Senza dimenticare che molti dei gruppi originali sono tuttora in pista: Outlaws, Blackfoot, Molly Hatchet, i capostipiti Lynyrd Skynyrd (che però con gli ultimi album in studio stanno deludendo fortemente).

Proprio dall’ultimo album valido in studio degli Skynyrd, l’unplugged Endangeres Species, viene il chitarrista e cantante Mike Estes, che in quell’unico disco aveva contribuito con alcuni brani nuovi da affiancare alla rivisitazione dei classici. Estes, dopo avere pubblicato un paio di album da solista nella seconda metà degli anni ’90, con l’inizio del nuovo secolo, ha fondato questa nuova formazione, gli Skinny Molly, inizialmente con Dave Hlubek che era la chitarra solista e il primo vocalist dei Molly Hatchet, fino all’arrivo di Danny Joe Brown. Questa prima versione degli Skinny Molly nasceva come band per un tour europeo nel 2004, ma non ha mai inciso nulla perché Hlubek venne richiamato nel suo gruppo originale lasciandosi un altro “Skinny” alle spalle. Il batterista Kurt Pietro e il bassista Luke Bradshaw sono rimasti la sezione ritmica del gruppo, mentre il nuovo chitarrista è Jay Johnson già con Southern Rock Allstars e Blackfoot, e qui il cerchio si chiude, ma bene. Perché il risultato, già anticipato dal buon Good Deed del 2008, è assolutamente all’altezza delle attese: dell’eccellente southern rock, con tutti gli elementi al loro posto, doppia chitarra solista, una bella voce potente nella  tradizione dei grandi del genere (Ronnie e Danny Joe, in primis), ma soprattutto buone canzoni e niente derive hard commerciali, come nell’ultimo Lynyrd Skynyrd.

Si capisce sin dall’iniziale If You Don’t Care che siamo sulle coordinate giuste, le chitarre ruggiscono di gusto dai canali dallo stereo, Mike Estes (che scrive tutti i brani di questo Haywire Riot) canta con una convinzione e una varietà di toni che i suoi vecchi compagni di avventura non sembrano più avere. La versione di Devil In The Bottle che Estes aveva firmato con Dale Krantz, Gary Rossington e Johnny Van Zant, ha il gusto sapido dei migliori episodi del gruppo madre, con l’organo Hammond B-3 di Josh Foster ad aggiungere autenticità al suono degli Skinny Molly che non è solo una mera ripetizione degli stilemi del genere, e se lo è, prende solo il meglio dal passato. Come dimostra l’ottima Two Good Wheels che aggiunge la giusta quota di country (elemento fondante e imprescindibile, “sparito” dagli ultimi Lynyrd Skynyrd) con il mandolino e l’acustica di Estes che sovrappongono quella patina “campagnola” che è sempre stato uno degli ingredienti immancabili del southern, una bella ballatona con le palle, come il genere esige. Ma quando c’è da picchiare come fabbri e fare fischiare le chitarre come in Too Bad To Be True, si esegue con classe ed energia, senza mai cadere nel cattivo gusto, la band è in assoluto controllo del suono, rock ma se “sudista” deve essere, facciamolo bene.

Anche in quelle saghe senza tempo del vecchio West, come in Judge Parker, l’intreccio tra acustiche ed elettriche rende assolutamente l’atmosfera cercata, subito pronti all’assolo ma senza mai esagerare (nessun brano supera i 4 minuti), le cavalcate chitarristiche le riservano per i concerti dal vivo. Bitin’ The Dog, molto riffata e tirata e Lie To Me, un lento scandito dalla voce e dall’acustica di Estes illustrano bene le due anime del gruppo. Shut Up And Rock e ancora di più, After You, che ad un inizio attendista e country con il vocione minaccioso di Mike, fa seguire una bella parte centrale e finale dove alla slide del leader e alla chitarra di Johnson si aggiunge anche una terza chitarra solista, Derek Parnell, sono perfetti esempi di buon southern rock, sentito mille volte, ma sempre gradito, se è così ben eseguito. None Of Me No More forse è un po’ ripetitiva (Ok, più delle altre!) ma Dodgin’ Bullets, di nuovo con una modalità elettroacustica e le classiche improvvise accelerazioni chitarristiche, che sono il pane degli appassionati del genere, confermano il valore di questa formazione, gli Skinny Molly, attualmente una delle migliori in circolazione.               

Bruno Conti   

“Famiglie Reali” – Royal Southern Brotherhood”

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Royal Southern Brotherhood –  Ruf Records

Questo disco segna l’incontro tra i rappresentanti di due delle “Famiglie Reali” della musica del Sud degli Stati Uniti: gli Allman, di Jacksonville, Florida, ma Devon, il figlio di Gregg, è nato a Corpus Christi, Texas e i Neville, da New Orleans, Lousiana, nella persona di Cyril, il quarto dei fratelli. Oddio, se proprio vogliamo andare a vedere non sono i migliori del lotto nelle rispettive famiglie, ma comunque due musicisti dalla carriera più che rispettabile e se uniti ad un altro “veterano” della scena rock americana, il chitarrista e cantante Mike Zito, la terza punta della corona, il risultato finale ha un suo certo appeal. Non guasta la presenza di due solidi musicisti come Yonrico Scott (dalla Derek Trucks Band) e Charlie Wooton (dei Wood Brothers) che costituiscono una sezione ritmica ricca di inventiva. La Ruf Records li ha messi insieme al produttore Jim Gaines, di cui non sempre amo tutte le produzioni ma che ha una indubbia sensibilità per il rock ed il blues e un certo suo sound professionale, commerciale ma non oltre i limiti di guardia e comunque orientato verso gli album soprattutto di chitarristi (Santana e Stevie Ray Vaughan tra i suoi “clienti). E in questo album di debutto degli RSB le chitarre hanno un ruolo preponderante anche se i tre leader si alternano come voci soliste con risultati apprezzabili. Certo, non abbiamo Gregg Allman o Art e Aaron, ma la fusione tra il rock sudista nel DNA di Devon e il classico sound “nero” marchio di fabbrica della famiglia Neville, decisamente funziona.

Se uno dovesse giudicare solo sull’apertura strepitosa dell’iniziale New Horizons, firmata dalla coppia Neville/Zito e dove l’incontro tra il soul carnale dei migliori Nevilles e il rock classico è pressoché perfetto, tra chitarre assatanate e intrecci vocali di gran classe, si potrebbe pensare ad un album di prima fascia, per mutuare un termine calcistico. Il resto non è poi sempre su questi livelli ma la “Fratellanza Reale Sudista” ha comunque molte frecce al proprio arco: l’inizio di Fired Up potrebbe far pensare al Willy DeVille del periodo di New Orleans e poi evolve in un classico groove funky-rock tipico dei Neville Brothers del periodo di Yellow Moon, con chitarre fluide e santaneggianti e un tripudio di percussioni a cura dello stesso Cyril che ha scritto il brano con il bassista Wooton. Left My Heart In Memphis è il primo contributo di Devon Allman, una bella ballata blues ma ricca anche di accenti soul con le chitarre a sottolineare il cantato ricco di pathos del “giovane” della famiglia (quest’anno compie 40 anni anche lui ma sapete che nel Blues a quell’età vengono considerati degli sbarbati). Moonlight Over The Mississippi ancora dell’accoppiata Zito/Neville è nuovamente un bel misto di funky, blues e rock con chitarre sinuose anche con wah-wah, su un tappeto ricco di percussioni.

Poi questa formula viene applicata su un brano che, ohibò, mi pare di sovvenire: firmata da Hart/Hunter, Fire On The Mountain è l’unica cover di questo album, tra ritmi vagamente reggae, una slide insinuante e il solito wah-wah innestato, il classico dei Grateful Dead subisce nuovamente un trattamento alla Neville Brothers, molto percussivo ma ricco nel reparto chitarristico. Ways About You ancora uno slow R&B della premiata ditta Zito/Neville comincia a mostrare qualche crepa di ripetitività, il sound è piacevole ma a lungo andare non siamo di fronte a brani di spessore eccelso e non sempre le chitarre possono ovviare ai difetti (piccoli ma comunque presenti). In Gotta Keep Rockin’ emerge alla superficie quel gusto di Gaines per le produzioni rock anni ’80 da FM, c’è anche del southern ma è quello del periodo più commerciale, niente di male, sempre buona musica, basta saperlo. Nowhere To Hide è ancora una composizione di Devon, elettroacustica e piacevole, ma nulla di memorabile.

Hurts My Heart del solo Mike Zito, è il brano più southern di questo album, tra ritmi rock, chitarre spiegate e belle armonie, come molto buono è il groove bluesy della successiva Sweet Jelly Donut con una bella slide ad insaporire un sound che per una volta fonde alla perfezione Allman e Neville. All Around The World, senza infamia e senza lode, è un altro brano rock dalla penna di Zito (che stranamente è l’autore principale del gruppo), mentre la conclusiva Brotherhood è una bella cavalcata strumentale che sicuramente diventerà occasione per lunghe jam strumentali in concerto ma già in questa versione concisa di quattro minuti continua a far intravedere le potenzialità di questa nuova Band.

Bruno Conti

Novità Di Maggio Parte II. Luther Dickinson, South Memphis String Band, The Wandering, Glenn Frey, Royal Southern Brotherhood, Alo, Damon Albarn, John Fullbright, Sara Watkins, Keane, Richard Hawley, Pat Green, Eccetera.

 

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Ecco i dischi in uscita da domani 8 maggio.

Cominciamo con un trio di uscite per così dire inconsueto: come direbbe Asterix dal suo piccolo villaggio della Gallia, SPQA Sono Pazzi Questi Americani. Non pago del 78 giri pubblicato per il Record Store Day Luther Dickinson esce con tre nuovi album differenti e attribuiti a tre diverse sigle ma tutti con il suo zampino. Il primo, a suo nome, Hambone’s Meditations esce per la Songs Of The South ed è un disco di musica acustica strumentale ispirata da John Fahey ma soprattutto da Jack Rose e dovrebbe essere stato registrato nel 2009. Il secondo, attribuito alla South Memphis String Band, pubblicato dalla Memphis Int’l, si chiama Old Times There ed è la nuova fatica del gruppo che lo vede accanto ad Alvin Youngblood Hart, Jimbo Mathus e il nuovo arrivato Justin Showah, per la valorizzazione del lavoro delle string band e della musica tradizionale della zona del Mississippi e dintorni in generale. Il terzo album (come era stato per Dave Alvin ai tempi delle Guilty Women) lo vede affiancato da una band tutta al femminile dove spicca il nome della bravissima Shannon McNally, ma anche Amy Lavere, Valerie June e Sharde Thomas (la Lavere è una bravissima cantante e bassista di Memphis, Tennessee che ha pubblicato tre album e un EP a suo nome tra cui l’ottimo Stranger Me dello scorso anno). La band si chiama The Wandering e l’album Go On Now You Can’t Stay Here, etichetta Songs of The South anche in questo caso. Però siccome non mi piace lasciare le cose in sospeso ho fatto una piccola verifica: Sharde Thomas è una suonatrice di Fife, quella specie di flautino di che si usa nelle band tradizionali, e si destreggia alla batteria, ma è anche la nipote di Otha Turner,  e nonostante i 22 anni ha già pubblicato un disco, Valerie June è una giovane cantante blues di cui si parla molto bene che non ha ancora pubblicato album a nome suo, a parte un EP live autogestito. Sono le due “nere” del gruppo.

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Già non è che gli Eagles, a parte i dorati anni ’70, siano mai stati una band particolarmente prolifica, ma anche Glenn Frey, 4 album dal 1982 ad oggi, più un live e un paio di raccolte, non è che si sia dannato l’anima più di tanto (in senso metaforico): 20 anni da Strange Weather e cosa riceviamo in cambio? Questo After Hours, un disco di standard tratti dal grande repertorio americano, Tony Bennett, Nat King Cole, Dinah Washington e classici come The Look Of Love, The Shadow Of Your Smile, For Sentimental Reasons ma anche Caroline No di Brian Wilson, Same Girl di Randy Newman e un classico come Route 66. Ma li farà alla Eagles, in stile Weast Coast, uno pensa? Manco per niente! Allora “raffinati” come l’ultimo Curtis Stigers o un Peter Wolf? Ma nemmeno pensarci, li fa proprio da crooner, più tipo Bublé che i grandi citati prima, da night, alla After Hours come da titolo, ma con il rischio di appisolarsi durante l’ascolto. Ci ha messo due anni a farlo ma a me sono bastati due minuti per ronfare profondamente. Non per niente in molti paesi europei, Italia compresa, esce solo verso la fine giugno. Disponibile da domani sul mercato americano per la Universal. Ad essere generosi si salvano, per me, parere personale ovviamente, Worried Mind, una bella ballata con uso di pedal steel ed il western swing di Route 66. E probabilmente venderà anche parecchio, ma al sottoscritto scappa un bel “Lascia perdere Glenn”!

I Royal Southern Brotherhood sono un gruppo “meticcio” che fonde il “southern” di Devon Allman figlio di Gregg con il sound funky & soul di New Orleans di Cyrille Neville, a loro si aggiunge una solida sezione ritmica con Charlie Wooton, il bassista dei Wood Brothers e il batterista della Derek Trucks Band (e famiglia Allman in generale), Yonrico Scott. Ciliegina sulla torta Mike Zito alla chitarra solista: risultato? Del robusto southern-rock-blues-funky-soul: niente di nuovo, ma per gli amanti del genere c’è da godere. Etichetta Ruf Records, ma stranamente esce prima negli States. In attesa del nuovo live della Derek Trucks Band atteso per fine maggio, per scaldare i motori.

Tra i gruppi americani, gli Alo, Animal Liberation Orchestra, la band di Zach Gill, che incide per la la Brushfire di Jack Johnson del gruppo Universal, si collocano a metà tra lo stile jam band (con influenze Little Feat) e quel sound solare, caraibico, un po’ alla Jimmy Buffett e quindi con influenze country, pop, Bay Area. Sounds Like This è il loro quarto album e per l’estate che si avvicina questo sound è ideale, piacevole ma di qualità.

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 Terzetto inglese.

Dopo la musica africana (e lontanissimo dal suono dei Gorillaz) questa volta Damon Albarn si rivolge alla musica elisabettiana per un disco ispirato al personaggio del consigliere di Elisabetta I di Inghilterra, John Dee, matematico e genio universale era una specie di Leonardo o Francis Bacon. Quindi siamo tra cori rinascimentali, stumentazione classicheggiante e qualche deriva pre o postfolk. I Critici inglesi impazziranno dalla gioia, già me li vedo! Titolo Dr. Dee, etichetta Parlophone. Mah e Boh? Lo vedo bene in radio. Poi parlano male di Sting e dei suoi dischi con liuto, va bene essere eclettici…sarà anche un’opera (non rock) e non un disco pop ma a parte qualche brano mi sembra tutto “strano”. Io apprezzo anche la musica classica e in passato, in ambito folk britannico, ci sono stati gruppi come gli Amazing Blondel o i Gryphon, per citarne un paio, che avevano tratto ispirazione da quel periodo musicale. Vedremo, ascolterò meglio, anche se ho messo apposta un video con uno dei brani più classici perché ce ne sono altri acustici che potrebbero ingannare l’ascoltatore ed è per questo che ho detto che riascolterò, infatti alcuni pezzi mi sono piaciuti.

Tornano i Keane con Strangeland che li riporta verso le sonorità più “semplici” degli esordi dopo il suono più pasticciato di Perfect Symmetry. Eichetta Island/Universal ci sono varie edizioni speciali tra cui quella Deluxe con extra tracks ma su disco singolo che è la nuova usanza delle majors (vale anche per Glenn Frey), fare due edizioni delle quali una con meno pezzi (o di più, a seconda dei punti di vista) e poi chiedere al pubblico e ai fans quale preferiscono, tenendo conto che quella con le tracce aggiunte costa di più. Ma farne una sola oppure affidarsi alle ormai consolidate versioni Deluxe doppie, a forma di Box, com formati veramente diversi, non sarebbe meglio? Siamo ormai ai limiti della perversione, già ci sono le edizioni per il download su iTunes che spesso hanno dei brani in esclusiva, se uno deve seguire anche queste “finezze” capisco poi perché gli appassionati comprano sempre meno, sentendosi presi per i fondelli (e per i portafogli)!

Nuovo album anche per Richard Hawley, sempre su EMI Parlophone (come quello di Albarn), si chiama Standing At The Sky’s Edge e lo conferma come uno degli autori ed interpreti più validi del panorama britannico. Musica leggera ma di gran classe e raffinatezza, belle canzoni che hanno attirato anche l’attenzione di Lisa-Marie Presley per il suo album di fine mese prodotto da T-Bone Burnett, dove collaborano in alcuni brani e che sarà una bella sorpresa. Tornando a Hawley, se vi piacciono le atmosfere dark di Tindersticks, Nick Cave, il vecchio Scott Walker o il primo David Sylvian, per sparare un po’ di nomi, spero non a casaccio, ma con un’impronta più pop e senza dimenticare il suo passato nei Pulp, qui potreste trovare della buona musica.

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Tre americani!

Di Paul Thorn vi avevo parlato in termini più che lusinghieri in occasione della pubblicazione del precedente Pimps and Preachers paul%20thorn. Ora esce questo What The Hell Is Going On che è un disco tutto di covers ma sembra materiale suo, anche perché non sono canzoni ed autori notissimi: già l’etichetta, Perpetual Obscurity, ha un nome che è un programma, poi troviamo brani di Allen Toussaint, Buddy Miller, Buckingham/Nicks prima dei Fleetwood Mac, Ray Wylie Hubbard ma anche Foy Vance e Wild Billy Emerson (?!?), e c’è anche una bella versione di Walk In My Shadow dei Free di Paul Rodgers (e Paul Kossoff). Se volete verificare, sul suo sito si possono sentire dei brani in anteprima index.html. A duettare con lui Delbert McClinton e Elvin Bishop oltre alle McCrary Sisters alle armonie vocali. Musica rock sana e onesta, se l’hanno paragonato a Hiatt, Mellencamp e Springsteen un motivo ci sarà!

Anche Pat Green esce con un disco tutto di covers: Things We Wish We’d Written II, perché ne aveva già fatto un volume I nel 2001 con Cory Morrow prima di diventare famoso. Anche lui è stato definito lo Springsteen del Sud Ovest da People Magazine ma questa volta va a pescare nel repertorio di Joe Ely, Lyle Lovett, Todd Snider, Will Kimbrough, Walt Wilkins e altri meno noti ma non per questo meno bravi come chi legge questo Blog ben sa. Il disco è il suo esordio per la Sugar Hill ma il sound è gagliardo e chitarristico come si evince fin dall’iniziale All Just To get To You dal repertorio di Ely, senza dimenticare belle ballate con piano e fisarmonica in evidenza. Ci siamo capiti!

Sara Watkins con il fratello Sean e Chris Thile era la leader degli ottimi Nickel Creek, nonché la loro violinista, uno dei migliori gruppi di bluegrass-country degli ultimi anni. Poi nel 2009 ha pubblicato un album di debutto omonimo con la produzione di John Paul Jones. Ora, sempre per la Nonesuch, pubblica il nuovo album, Sun Midnight Sun che è un ulteriore passo avanti nella sua carriera solista: c’è un bel duetto con Fiona Apple in You’re The One I Love, un vecchio brano degli Everly Brothers e nel disco partecipano anche Blake Mills, uno dei chitarristi live di Lucinda Williams, che produce il disco e ha fatto anche un figurone nel recente quadruplo dei brani di Dylan per Amnesty International con la sua versione di Heart Of Mine. Tra gli ospiti anche Taylor Goldsmith dei Dawes e il suo nuovo amico Jackson Browne, Benmont Tench alle tastiere e il fratello Sean. Ci sono anche cover di Dan Wilson e Willie Nelson oltre a vari brani scritti da Watkins e Mills. Non male.

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 Per concludere in bellezza la giornata vi segnalo anche l’uscita del disco di John Fullbright From The Ground Up. Si tratta del suo esordio in studio dopo l’ottimo Live At the Blue Door di cui vi avevo parlato un paio di mesi fa sul Blog ma che risaliva al 2009/2011 john%20fullbright. Questo nuovo album esce per l’etichetta 12th street Records e lo conferma come uno dei migliori nuovi talenti nell’ambito cantautorale-roots con un bel sound con un gruppo al completo alle sue spalle che completa le sue ottime performances a chitarra e piano. Settimana ricca di ottime uscite.

Direi che per oggi può bastare, alla prossima.

Bruno Conti