Dal Profondo Nord, Grande Musica. Basko Believes – Idiot’s Hill & Johan Orjansson – Melancholic Melodies For Broken Times

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Basko Believes – Idiot’s Hill – Rootsy/Ird

Johan Orjansson – Melancholic Melodies For Broken Times – Rootsy/Ird

Il protagonista dei due dischi è sempre lo stesso, lo svedese Johan Orjansson, che quando decide la mossa di confrontarsi con il mercato americano assume il nome d’arte di Basko Believes, più facile da memorizzare rispetto al suo cognome, ma i tratti distintivi della musica, benissimo inquadrati dal titolo dell’album pubblicato con il proprio vero nome (peraltro già il quarto uscito nella sua nativa Svezia, dove con una certa dose di ironia, forse humor svedese, dice la sua biografia essere il nostro amico una star nella cittadina della costa occidentale, Falkenberg https://www.youtube.com/watch?v=BXVaxqn1cXM ) sono proprio, per coniare un neologismo composito, quelli di una sorta di neo folk-rock-nordic-soul, malinconico, ma ricco nelle melodie. Pensate al Ryan Adams più raccolto, come hanno detto molti in relazione a Melancholic…, ma anche a brani come la stupenda Rain Song in Idiot’s Hill https://www.youtube.com/watch?v=X4tLA6V8gjQ , dove però aleggia pure lo spirito di Ray LaMontagne e del suo “padre putativo” Van Morrison, altrove la voce assume un timbro vocale che ricorda in modo impressionante quello del miglior David Gray o del Damien Rice più intenso, in un vorticare intimo di organo, tastiere, fiati, archi e chitarre che accompagnano il canto partecipe ed acceso.

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Vado un poco a caso, saltando tra i due album, che sono uno la conseguenza dell’altro. Con il più vecchio dei due (anzi da prima ancora) Johansson si fa conoscere da musicisti americani come Israel Nash Gripka, che duetta con lui nella dolcissima If I Were To Love You https://www.youtube.com/watch?v=_NhjFRjLR3I , un brano dove, nella mia opinione, a fianco delle evidenti influenze del suono roots-Americana (d’altronde per chi incide per la Rootsy è quasi un destino) https://www.youtube.com/watch?v=JoylMPYhcSk , possiamo trovare, anche grazie alle tonalità vocali, il Bono (ebbene sì, almeno come timbro basso) più ispirato delle ballate del “periodo americano” degli U2, che, detto per inciso, una volta facevano ottima musica, non dimentichiamolo! Tra i colleghi ammiratori anche Will Kimbrough e i Deadman, e, soprattutto i Midlake, nei cui studi di Denton, Texas, Orjansson, dopo il cambio di nome in Basko Believes, si reca ad incidere il nuovo CD Idiot’s Hill, un album dove la voce ricca di soul di Johan si fonde a meraviglia con i ricchi arrangiamenti pensati dal chitarrista Joey McClennan e dal batterista McKenzie Smith (i due Midlake). Aggiungete il basso di Aaron McClennan (parente?) in prestito dalla band di Gripka e tutto un florilegio di musicisti vari, altri Midlake passati e presenti, come Evan Jacobs alle tastiere e Jesse Chandler al flauto, e ancora Buffi Jacobs al cello e Daniel Hart, ex dei Polyphonic Spree, al violino, le armonie vocali sognanti di Kaela Sinclair ed i fiati di Pete Clagett e David Monsch, tutti utilizzati alla perfezione nella lunga Going Home https://www.youtube.com/watch?v=vts5kBmJsGU, una ardente ballata ricca di picchi e vallate sonore, con la musica che sale e scende seguendo l’umorale cantato di Orjansson, punteggiato dallo struggente violino di Hart e dal flauto di Chandler, quasi a ricreare atmosfere care ai Caravan più pastorali e meno progressivi.

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La scelta di Orjansson di abbandonare i vecchi amici musicisti svedesi con i quali aveva condiviso i primi album non deve essere stata facile, anche alla luce delle ottime musiche che scaturiscono dall’eccellente Melancholic Melodies For Broken Times, che al di là degli opulenti arrangiamenti e di un suono più professionale, a livello di intensità non ha nulla da invidiare al nuovo album: Down The Avenue ha già quella epica rock & soul, dove LaMontagne e David Gray (per la voce, somigliante in modo incredibile, in entrambi gli album) si incontrano per interpretare una melodia alla Ryan Adams o alla Jayhawks, per non parlare del grande Van. Il delicato intreccio di chitarre acustiche nel country-rock dell’iniziale Honey Pie, dove si evidenzia anche un insinuante tocco di armonica confluisce in un’altra ballatona ariosa come Papercuts, caratterizzata da un felice uso delle armonie vocali atte a creare dei piccoli ganci sonori che evidenziano la melodia del brano, caratteristica che ricorre spesso nelle canzoni dello svedese. The Yellow Fields con l’uso di una slide pungente ha le caratteristiche di un suono più di matrice “Americana” e grintoso, a tratti, pur se l’arte della ballata, “melanconica” mi raccomando, è pur sempre la caratteristica più evidente https://www.youtube.com/watch?v=1fGbVzu4AuQ , come dimostra vieppiù Houses, una delizia semiacustica nell’incipit e che poi si affida ad un leggero ma sicuro crescendo di chiariscuri sonori, che ribadiscono la classe e l’ecletticità di questo signore delle terre del nord che non teme di affrontare neppure il country honky-tonkeggiante di Pointless Alleys, ove i sospiri di una pedal steel e della lead guitar si fanno largo nelle pieghe della melodia accattivante, per poi concludere il suo percorso nella batteria spazzolata, nella seconda voce femminile e nelle atmosfere jazzate della dolcissima Rather Be With You, che saranno una sorta di preludio alle atmosfere del nuovo album.

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Continuando a vagare tra i due dischi e tornando definitivamente, per concludere, a Idiot’s Hill, come non ricordare i due brani strumentali, In A Glade e Out Of A Glade, che aprono e chiudono l’album e che possono ricordare gli sketches sonori dei dischi di Nick Drake, altro musicista che occorre ricordare tra i punti di riferimento della musica dei/di Basko Believes: Wolves, con i lupi che iniziano ad uscire metaforicamente dalla radura è più scura ed autunnale https://www.youtube.com/watch?v=AfEdVZb3Dmc , anche se la musica si fa più elettrica e vicina agli U2 meno pomposi (l’ho detto e lo ripeto, sarà quella chitarrina tremolante), o se preferite i Midlake meno prog, persino Mumford and Sons quando abbandonano le tematiche folk; The Waiting, con un ritornello cantabile, fiati, archi e tastiere avvolgenti https://www.youtube.com/watch?v=8hoCLW3uamA , è un altro magistrale esempio di questo soul nordico, grazie anche ai vocalizzi ripetuti di un Orjansson quasi ingrifato. Lift Me Up con la sua elettrica riverberata potrebbe ricordare le atmosfere felpate delle creature sonore di Mark Kozelek https://www.youtube.com/watch?v=vdz4BQvhpM8 , mentre The Entertainer, con un leggero falsetto, è intensa e mirabile come le migliori canzoni dei Gray e Rice ricordati prima. Detto di Rain Song e Going Home rimangono la cameristica e sofisticata Archipelago Winds https://www.youtube.com/watch?v=SwUbtHF8Vq8  e il folk-rock quasi jingle-jangle della delicata Leap Of Faith a completare questa opera che si presenta come un piccolo gioiello di equilibri sonori e che fa il paio con il disco precedente, per una quasi imprescindibile accoppiata destinata agli amanti delle belle sorprese e dei talenti sicuri e certi. Prendete nota, dopo Richard Lindgren, dalla Svezia, Basko Believes o Johan Orjansson, comunque non potete sbagliare!

Bruno Conti

Solo Jenny, Senza Johnny? Jenny Lewis – The Voyager

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Jenny Lewis – The Voyager – Warner Bros

Riprende la carriera solista della ex frontwoman dei Rilo Kiley, dopo una pausa durata cinque anni esce il nuovo album solista di Jenny Lewis. Per la verità nel 2010 era uscito un CD a nome Jenny & Johnny di cui potete leggere qui http://discoclub.myblog.it/2010/12/03/chi-e-quella-brava-dei-due-2-jenny-johnny-i-m-having-fun-now/ e lo scorso anno era uscita una compliation di demo, b-sides ed inediti in generale dei Rilo Kiley, intitolata Rkives. Il sodalizio con il compagno in musica ( e nella vita), Johnathan Rice, che è presente in alcuni brani di questo The Voyager, sembra reggere, se volete leggere i capitoli precedenti della vita e della carriera della Lewis andate al link qui sopra, mentre del nuovo album, come promesso una decina di giorni fa, andiamo a parlarne adesso. jenny lewis 1

Uscito il 29 luglio su etichetta Warner Bros, il disco ha avuto una lunga gestazione, durata quasi cinque anni, un periodo in cui c’è stato lo scioglimento della sua band, che è stato un duro colpo a livello psicologico, seguito anche dalla scomparsa del padre e da altri problemi di natura familiare. Stranamente il suo “salvatore” è stato un personaggio che uno non vedrebbe nel ruolo dello stabilizzatore, il nostro amico Ryan Adams, che, in attesa di pubblicare il suo nuovo album solista omonimo ai primi di settembre, nel frattempo ha accolto Jenny Lewis nei suoi Pax AM Studios dove il disco è stato registrato, curando sia la co-produzione dello stesso ma anche facendo da catalizzatore e da sprone per far ripartire la carriera della bella californiana (anche se nata in quel di Las Vegas), a colpi di brani dei Creed, che non sapevo avessero questi effetti taumaturgici. Comunque l’ha detto lei in una intervista e c’è da crederle perché l’album è molto piacevole, come al solito, a livello musicale ed è andato bene anche a livello commerciale, avendo debuttato in questi giorni al numero nove delle classifiche americane.

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Per chi scrive il disco migliore rimane sempre il primo da solista, Rabbit Fur Coat, con le Watson Twins https://www.youtube.com/watch?v=JRpScJzx41U , ma sia a livello solista che nelle sue varie collaborazioni la Lewis ha sempre pubblicato dei dischi di qualità medio alta, con quel sound californiano in bilico tra la West Coast classica, il sound dei Seventies di gente come Fleetwood Mac/Stevie Nicks, ma anche l’alternative rock più melodico degli anni ’90, ben rappresentato dall’asse Evan Dando/Juliana Hatfield, con qualche spruzzata del Paisley rock meno lisergico delle Bangles e del pop radiofonico meno becero e più raffinato di qualsiasi epoca. Prendete Head Underwater, il brano che apre questo The Voyager, è una perfetta confezione pop https://www.youtube.com/watch?v=E5HAD_PxBvI , con la bella voce di Jenny in primo piano, armonie vocali piacevolissime la circondano, il suono è commerciale quanto volete ma rimanda al sound, se non alla voce, dei dischi solisti della citata Stevie Nicks, quasi in concorrenza con certe cose alla Katy Perry o altre voci fatte a stampino che imperversano attualmente nelle classifiche mondiali, ma con altra classe ed allure, anche se le sonorità potrebbero avvicinarsi, Ryan Adams e la stessa Jenny riescono a tenere gli eccessi sotto controllo.

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Le chitarrine elettriche raffinate di She’s Not Me si intrecciano nuovamente con quel sound che sta a cavallo tra Bangles e pop vocale della vecchia West Coast, un po’ come una sorta di Mamas & Papas “alternativi”, con delicate armonie vocali, tastiere e le chitarre elettriche di Adams, oltre alla batteria di Griffin Goldsmith dei Dawes, che danno un’aria à la Fleetwood Mac al tutto https://www.youtube.com/watch?v=k9hKp2zm6X4 . In Just One Of The Guys (accompagnato da uno stupidello ma delizioso video musicale, dove la Lewis, Kristen Stewart e altre giovani attrici americane appaiono anche in versione simpaticamente baffuta jenny lewis just one of the guys) si fa aiutare da Beck, che producendo il brano apporta un lato “narcotico” e sognante al folk-rock psichedelico della canzone, con coretti curatissimi e chitarre lievemente acide che si sovrappongono al ritmo scandito, quasi marziale del brano, frutto di una collaborazione con Johnathan Rice di qualche anno fa, una buona canzone non si butta mai via! Slippery Slopes ha sempre questa aria sognate e lievemente psych, ma il suono è più rock, forse è il brano che più ricorda i vecchi Rilo Kiley, chitarre più aggressive che ci portano alla California post West Coast e alternativa degli anni ’80/’90. Late Bloomer dall’andatura decisamente più West Coast vecchio stile e anche jingle-jangle https://www.youtube.com/watch?v=q5GDwuUTYAY , potrebbe ricordare certe cose del Tom Petty solista o di quello che una volta, magari impropriamente, si chiamava country-rock, ora alternative country (in effetti Lou Barlow dei Sebadohdal quale il brano è ispirato, appare nella canzone), chitarre tintinnanti, ritornelli al solito assai curati e quella voce calda ed accattivante, quasi malinconica, in ricordo di tempi andati che forse non ritorneranno.

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You Can’t Outrun ‘Em è uno dei due brani in collaborazione con Johnathan Rice, ancora quel folk-rock elettroacustico dal ritmo urgente ma rilassato al tempo stesso con la voce della Lewis che assume delle tonalità quasi vicine alla prima Kate Bush, se fosse vissuta in California, fresca e giovanile https://www.youtube.com/watch?v=SX9VDoKSj4k . Nuovamente jingle-jangle aggiornato per i giorni nostri, delicato e frizzante, in The New You, altra confezione pop raffinata, solare ed estiva che andrebbe consigliata a tutte le radio più illuminate, con le chitarre ben delineate che suggeriscono lo zampino di Ryan Adams dietro a tutto ciò. Una slide insinuante apre le procedure più energiche di Aloha & The Three Johns (bel titolo e bella canzone), un rock chitarristico e grintoso che alza la temperatura del disco. Sound ribadito nel festival di chitarre e voci che è la vorticosa Love U Forever, altro chiaro esempio di come fare una musica che unisce pop lisergico, ma anche orecchiabile, all’urgenza garage del miglior rock californiano, scegliete voi l’epoca . In conclusione il brano più riflessivo di questa raccolta di canzoni, la title-track The Voyager https://www.youtube.com/watch?v=tPFWeMtTob0con chitarre acustiche, archi e tastiere sintetiche, ma non invadenti, che accarezzano la voce nuovamente malinconica e pensosa di Jenny Lewis, che si conferma, se ben guidata, un personaggio da seguire, magari senza le esagerazioni della stampa di settore che ha assegnato a questo The Voyager voti oscillanti tra il sette e le otto, forse esagerati ma che indicano la buona considerazione in cui viene tenuta dalla critica. In definitiva, una brava e da continuare a tenere d’occhio.

Bruno Conti

Il Ritorno Del “Giardiniere” – Nathaniel Rateliff – Falling Faster Than You Can Run

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Nathaniel Rateliff – Falling Faster Than You Can Run – Mod Y Vi Records

Mi ero imbattuto una prima volta in Nathaniel Rateliff grazie ad un amico (nello specifico il titolare di questo blog), con la recensione del pregevole lavoro precedente In Memory Of Loss (2010), dove si notava un forte legame con le sonorità degli anni ’60 e ’70 https://www.youtube.com/watch?v=m-wbAwK2eUY . Due brevi note per inquadrare il personaggio: Nathaniel è nativo del Missouri e a 18 anni si trasferisce in quel di Denver (svolgendo molti lavori, fra i quali il giardiniere) e cominciando anche, nel frattempo, a suonare in varie band che lo portano, dopo una lunga gavetta, ad uscire dai confini del Colorado, e finalmente raggiungere un discreto successo con l’esordio Nathaniel Rateliff & The Wheel Desire And Dissolving Men (2007). Questo nuovo lavoro Fallling Faster Than You Can Run, ad un primo ascolto, mette in luce anche il lato più rock del buon Nathaniel e della sua band, che vede Julie Davis al basso, Joseph Pope alle chitarre, James Han al pianoforte e tastiere, Patrick Messe alla batteria, per undici canzoni di folk rurale e di vita vissuta https://www.youtube.com/watch?v=O0WGyfPzFd8 .

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La voce baritonale di Rateliff apre il disco quasi in un sussurro con Still Trying, una chitarra acustica e un rullo di tamburo di base https://www.youtube.com/watch?v=vjM0xggoY9E , mentre I Am sono solo Nat e la sua chitarra https://www.youtube.com/watch?v=hRq-kGyVo5w , per poi passare al suono decisamente più ritmico di Don’t Get Too Close https://www.youtube.com/watch?v=Ezcykwk8aBc , che sembra uscita dalle “sessions” dei Mumford & Sons o dei Lumineers.

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Laborman cambia le cose con un bel riff di chitarra elettrica, un brano vigoroso (alla Wilco), per poi passare di nuovo alla lieve e acustica How To Win  e alzare la posta in gioco con la martellante Nothing To Show For https://www.youtube.com/watch?v=B7pfEsHQuzU  , che viaggia ancora dalle parti dei Mumfords. La seconda parte del disco svolta verso le cadenze quasi “jazzy” di Right On, a cui fanno seguito il personale racconto di Three Fingers In giocato su delicati accordi di chitarra e pianoforte, e la ballata elettrica Forgetting Is Believing,https://www.youtube.com/watch?v=5K2VUlcVZgg  che rimanda al miglior Ryan Adams, mentre When Do You See e la title track Falling Faster Than You Can Run, chiudono il cerchio di un disco bello e importante, che per certi versi si potrebbe avvicinare pure alla stessa vena di essenzialità dei lavori più elettrici del grande Greg Brown.

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Tuttavia il gioco dei rimandi potrebbe continuare all’infinito, in quanto Nathaniel Rateliff ha assimilato bene la storia dei songwriters americani (in questo album ci ripropone una sua lista personalizzata), confermandosi (a parere di chi scrive) una delle possibili grandi promesse del folk-rock a stelle e strisce, nonostante la faccia da giardiniere, ma il cuore e l’anima sono quelle di un magnifico “storyteller”. Cercatelo ne vale la pena!

Tino Montanari

La Fuga Verso Il Freddo Nord Continua … Chris Mills And The Distant Stars – Alexandria

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Chris Mills & The Distant Stars – Alexandria – Loud Romantic Records

Cantautore di talento Chris Mills (nato e vissuto a Chicago), è un altro di quelli affascinato dal Nord Europa (la compagnia si ingrossa dopo Eric Andersen, Chip Taylor, Kreg Viesselman e vari altri), in questo caso Oslo, per trovare nuove motivazioni e idee per incidere e dare alle stampe il suo settimo album Alexandria (in oltre quindici anni di carriera). Dopo aver esordito con due EP Chris Mills Plays And Sings (96) e Nobody’s Favorite (97), incide l’ottimo Every Night Fight For You Life (98), http://www.youtube.com/watch?v=abmLI9CEUAo seguiti negli anni sempre da buoni lavori come Kiss It Goodbye (00), The Silver Line (02), The Wall To Wall Sessions (05), il sottovalutato Living In The Aftermath (08), e dall’antologia The Heavy Years 2000-2010, a completamento di un percorso musicale ricco di grandi recensioni, ma con poche vendite http://www.youtube.com/watch?v=-B06F7jpKgE .

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Il buon Chris (figlio di un militare e cresciuto tra gli Usa e la Germania), ha saputo spostare visibilmente nel tempo il suo modo di fare musica, in quanto se inizialmente ha abbracciato un certo folk rock, poi ha mutato il suo stile in un pop-rock più essenziale, fino ad arrivare in questo nuovo album a coniugare rock e melodia http://www.youtube.com/watch?v=VVb4-V4Zfao , con un suono che è figlio di due maestri di questa tipologia sonora come David Gray e Ryan Adams.

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Alexandria è stato in gran parte concepito in Scandinaviae registrato a Chicago nei Wall To WallStudios, sotto la produzione di Christer Knutsen (pianista scoperto da Chris in un Pub di Oslo) e dello stesso Mills: un lavoro intensamente personale e ambizioso, che si avvale dell’apporto della sua attuale band, composta, come detto, dal pianista e chitarrista Christer Knutsen, e da Konrad Meissner alla batteria, Ryan Hembrey al basso, ampliata dalla viola di Denise Stillwell, dal cello di Eleanor Norton e dalle violiniste Jean Cook e Claudia Chopek, tutte brave e belle (che non è fondamentale, ma aiuta).

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Subito, a partire dalla traccia iniziale Wild Places, diciamo che le parti di pianoforte di Knutsen costituiscono la spina dorsale dell’album, e si evidenziano in canzoni come Rubicon http://www.youtube.com/watch?v=0Qw8kw6XuEM e Castaways http://www.youtube.com/watch?v=Ee-oaFoWhGY  che riportano le lancette del tempo ai tempi di Kiss It Goodbye, mentre la title track Alexandria è una travolgente pop song dal motivo intrigante, orchestrata al punto giusto e cantata con trasporto. In Blooms ci sono anche delle armonie “Costelliane”, mentre la seguente The Sweet Hereafter, nuovamente pianistica e molto romantica, narrata da Chris con la sua voce struggente, fa da preludio ad una perfetta moderna “country song” come la fluida e ben strutturata Helpless Bells. Si chiude il disco con l’introversa elettroacustica Quiet Corners, brano potente e deciso, e con una  ballata orchestrale come When We Were Young, sicuramente il punto più alto del lavoro, che certifica il grande senso della melodia e dell’architettura sonora di Chris Mills.

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Nove canzoni, nove brani di grande qualità, che rendono questo disco (soprattutto per chi scrive, avendo seguito Mills dagli esordi) decisamente bello e spero sorprendente per chi non lo conosce, una musica intensa, servita da una voce piuttosto roca, molto personale, dove percussioni, chitarre, strumenti a corda e il magnifico pianoforte di Knutsen contribuiscono a fare di Alexandria il biglietto da visita più convincente per Chris Mills e i suoi The Distant Stars. Bisogna solo ascoltarlo a lungo e con cura, se lo merita http://www.youtube.com/watch?v=Dpk3NH4SdKk !

Tino Montanari

Recuperi Di Fine Anno Parte 2: Forever Young! Israel Nash Gripka – Israel Nash’s Rain Plans

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Israel Nash Gripka – Israel Nash’s Rain Plans – Loose/Continental Song City/IRD

Israel Nash Gripka, nel giro di qualche anno, è passato da benemerito sconosciuto a fulgida promessa della canzone rock d’autore. Figlio di un pastore battista, Israel (nativo di Ozark nel Missouri) trova nella vecchia Europa l’approccio  per far conoscere la sua musica, suonando nei Club Inglesi, Svedesi e Olandesi, e proprio grazie alla piccola e indipendente Continental Song City della patria dei tulipani pubblica i suoi dischi, a partire dal folgorante esordio con New York Town (09), e nel successivo Barn Doors And Concrete Floors (11) http://discoclub.myblog.it/2011/04/04/e-questo-perche-l-ho-saltato-israel-nash-gripka-barn-doors-a/ regala una delle più brillanti canzoni d’autore degli ultimi anni, arrivando nello stesso anno a pubblicare un disco dal vivo Barn Doors Spring Tour, Live In Holland e un EP di difficile reperibilità Working Class Hero and Other Favorites, che certificano il suo indubbio talento.

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israel nash gripka working class

Questo nuovo lavoro Israel Nash’s Rain Plans è prodotto dallo stesso autore, con il supporto del fidato Ted Young (fonico dei Gaslight Anthem), che avvalendosi dei suoi musicisti di riferimento, ovvero il chitarrista Joey McClellan, il bassista Aaron McClellan (mi viene il dubbio che siano fratelli?) , il batterista Josh Fleishman e al mandolino e pedal steel il bravissimo Eric Swanson, dà vita ad un progetto di nove canzoni, composte e suonate in stato di grazia, che rinnova i fasti del roots-rock.

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Israel Nash Gripka mette sul piatto composizioni solide, a partire dall’iniziale Woman At The Well intro, chitarra e ritmica (molto Ryan Adams), fluida nel suo scorrimento http://www.youtube.com/watch?v=EZQ95otWrs8 , a cui fanno seguito due ballate Through The Door e Just Like Water che fanno riferimento al personaggio del titolo (Neil Young). Meglio ancora il roots rock deciso di Who In Time, canzone splendida, cantata con forza, con chitarra e armonica in evidenza, seguite dal folkeggiare quasi desertico dell’accorata Myer Canyon http://www.youtube.com/watch?v=g33DMj0x1IQ , mentre Rain Plans è una ballata elettroacustica dall’incedere affascinante http://www.youtube.com/watch?v=Lur7cI1Sq4Y . Un delizioso arpeggio di una dodici corde acustica introduce Iron Of The Mountain, una fluida rock ballad dalle tonalità malinconiche e con un coro finale melodioso (la perla del disco). Atmosfere del grande “loner” canadese si riscontrano anche nell’elettrica Mansions http://www.youtube.com/watch?v=ItmUG32Trfg , mentre la conclusiva Rexanimarum viaggia con un arrangiamento “bandiano” (nel senso che richiama la grande Band di Robbie Robertson) http://www.youtube.com/watch?v=wp7piqjzbvk .

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Queste canzoni potrebbero sbucare dalle “outtakes” di Harvest e dintorni (e nessuno si stupirebbe), perché in fondo Israel Nash Gripka è un revivalista della scena folk degli anni ’60, che ha avuto il merito di introdurre nel suo suono, elementi roots (influenzato per fare due nomi a caso da Dylan e Neil Young). Se amate lo Springsteen degli esordi, il Dylan di sempre, il Ryan Adams di Gold e Heartbreaker e il Neil Young di Harvest e On The Beach, questo disco fa per voi, in quanto il buon Israel Nash Gripka dimostra che la canzone d’autore americana, gode di buona salute, e in seguito Israel potrà essere un fedele compagno di viaggio, da condividere nella sua cruda e romantica poesia di strada.

Tino Montanari

Un “Folksinger” Anomalo! Ty Segall – Sleeper

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Ty Segall – Sleeper – Drag City Records

Ormai non passa giorno (ma è una tendenza in essere da qualche tempo, forse da sempre) senza che non siamo invasi da dischi che si rifanno a questa o a quella sonorità vintage, e anche Ty Segall , essendo un musicista “compulsivo”, dalle uscite discografiche estremamente ravvicinate e continue, tra LP, CD, EP, collaborazioni varie, almeno una quindicina di album usciti nei 5 anni passati dall’esordio omonimo del 2008, non si tira certo indietro. E avendo solo 26 anni rischia di battere anche i record detenuti in tempi recenti da Ryan Adams (che ultimamente si è placato) e Joe Bonamassa (in attesa del Live con Beth Hart, e forse qualcos’altro): il genere è diverso ovviamente, Segall si divide tra uno stile garage-indie-psichedelico nelle uscite con la band e ora questo folk acustico. ma sempre con una vena acida e indie, di Sleeper, che mi sembra abbia più di qualche punto di contatto con il Syd Barrett del dopo Pink Floyd, con meno classe ma il giusto impegno.

Come ha detto lo stesso Ty in alcune interviste di presentazione all’album, le canzoni del disco sono state ispirate dalla recente scomparsa del padre e anche dai cattivi rapporti causati dalle vicissitudini della madre, su cui non ha voluto approfondire ma alle quali ha dedicato il brano Crazy (e dire questo alla propria, e unica, madre, non deve essere certo cosa piacevole). Per la serie nulla si inventa e nulla si crea, o molto raramente, lo stile del disco potrebbe ricordare anche certe escursioni in territori “strani” di un Donovan o di un Roy Harper (ma magari manco li conosce ed è solo uno sfoggio di cultura musicale del vostro recensore).

I dieci brani che comprendono l’album hanno un substrato sonoro abbastanza uniforme, ovvero semplicemente chitarra acustica e voce, fanno eccezione l’iniziale Sleeper, cantata in un leggero falsetto straniante (più evidente in Crazy) e She don’t care, dove un violino e una viola cercano di ingentilire il suono crudo del disco, The Keepers dove una batteria leggera ed appena accennata anima l’atmosfera del brano e la rende più ricercata. E anche The Man Man dove un assolo acidissimo e inatteso di chitarra elettrica nella parte finale sembra apparire dal nulla. Il “trucchetto” è ripetuto anche verso la fine del disco, nella oscura Queen Lullabye, dalle sonorità volutamente lo-fi, peraltro presenti un po’ in tutto il disco e dove più che una chitarra elettrica sembra di ascoltare un aereo in volo. La conclusiva The West, viceversa, è proprio un brano da folk singer puro, addirittura country-blues, se volete.

Meglio il folksinger acido o il rocker? Vedremo alle prossime puntate, per il momento verdetto definitivo sul personaggio, almeno per il sottoscritto, sospeso, ma il disco ha un suo fascino “perverso” (dal nome di uno dei tanti gruppi in cui ha suonato)! 

Bruno Conti

Una Trasferta Norvegese! Chip Taylor – Block Out The Sirens Of This Lonely World

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Chip Taylor – Block Out The Sirens Of This Lonely World – Train Wreck 2013 – 2 CD

Chi segue le vicende musicali con immutata passione da decenni potrebbe ritrovarsi spiazzato davanti al nome di John Wesley Voight, in arte Chip Taylor. La sua carriera ha origine negli anni sessanta ed è quella di un autore abituato a vivere nell’ombra, al punto da non rendere pubblica una parentela illustre ( è il fratello minore del celebre attore Jon Voight, e di conseguenza il fortunato zio di Angelina Jolie) e custodire gelosamente la propria indipendenza concedendo poco o nulla ai rituali dello show-biz del mercato discografico. Solo la febbrile passione per il gioco (è un giocatore professionista), appanna per un lungo periodo la sua creatività che gli aveva permesso nei sixties di scrivere brani immortali, quali Angel Of The Morning, Wild Thing, (Jimi Hendrix e Troggs), Any Way That You Want Me ( di nuovoTroggs)*** e altri ancora che non sto a menzionare, torna oggi a mettere a frutto il suo talento con un doppio album di notevole impatto emotivo.

L’idea di fare questo disco, nella testa di Chip, scatta all’indomani dell’eccidio nell’isola di Utoya (Norvegia), e il cantautore che in quel periodo era in tour poco distante da quel luogo, si sentì in dovere di scrivere la canzone Darkest Day, in onore delle vittime. Il passo successivo per Taylor è stato chiamare il produttore e polistrumentista Goran Grini, il fidato chitarrista John Platania  e con il valido aiuto di turnisti locali come Bjorn Petterson al basso e Magnus Olson alla batteria, dare vita ad uno dei lavori più intensi della sua carriera.

Un filo conduttore malinconico pervade tutto il disco, a partire dall’iniziale Block Out The Sirens Of This Lonely World, passando per il folk di Never Said Goodbye e Get Me Back e le quasi recitative God Bless Norwegians, Hey Vinnie e That’s How I Love You Tonight. Proseguendo con la splendida North Caucasus Fight Club (una storia di due fratelli pugili), la delicata e tristissima It Wasn’t Me, It Wasn’t You, la ballata Pretty Good Order (Human Beings), per chiudere con il brano più elettrico del disco The Last Video ( che ricorda il miglior Ryan Adams) e la dolcezza struggente di Tears From An Old Yonkers Child. Il bonus CD contiene ulteriori cinque brani, divertenti, che hanno il merito di essere fuori contesto dal resto del disco, e valorizzano ulteriormente la bravura di questo autore.

Dopo una serie di dischi di ottima fattura scritti in coppia con la texana Carrie Rodriguez, da uomo di musica ed autore vero, Chip Taylor questa volta ha scritto per sè stesso, un album di ballate di spessore poetico che vale la pena di ascoltare, piccoli frammenti di dolore, ma anche di luce e di speranza, che blandiscono o scuotono la nostra sensibilità.

Tino Montanari

***NDB Tra i tanti che ci hanno lasciato quest’anno, a febbraio è scomparso appunto anche Reg Presley, il leggendario cantante dei Troggs, sicuramente non uno dei grandi in assoluto, ma una figura importante nel rock e nel pop britannico degli anni ’60 e ’70. Volevo semplicemente ricordarlo.

*Nota Del Bruno Bis. Oggi non mi è capitato di scrivere nulla di nuovo nel Blog, ma volevo rendervi partecipi del “friccico” di eccitazione che ha scatenato in me una notizia, rilasciata ieri all’ora di cena sul TG1 dal nostro amico “Vince Breadcrump” (quando ci parla di notizie internazionali, come l’anno scorso ad agosto quando ricordando il 35° anniversario della scomparsa di Elvis Presley, lo definì “un simpatico mascalzone”, e quello penso fosse il suo giudizio critico sulla carriera, musica scelta per l’occasione It’s Now Or Never, classico del R&R napoletano)! Già, ma vi chiederete tutti, quale è la notizia di ieri, 26 giugno 2013? Blowin’ In The Wind compie 50 anni! (Però l’Unità lo aveva preceduto già l’11 giugno e lì il Mollicone si deve essere un po’ spazientito con la redazione, “perché non mi avvisate di queste notizie!”) E pensare che io ricordavo queste date per il brano: scritto da Bob Dylan nel 1962, eseguito per la prima volta il 16 aprile al Gerde’s Folk City Club di NYC e pubblicato su Sing Out nel giugno, però sempre del 1962 (quindi al limite sono 51, gli anni) e poi sull’album The Freewheelin’ Bob Dylan il 27 maggio del 1963, mentre il singolo uscirà solo nell’agosto del 1963. Ma mi sbagliavo e ora lo so!

Tutte date da cancellare, il nuovo anniversario è il 26 giugno, prendete nota. Per fortuna che esiste il buon Vincenzo e non bisogna inventarlo (questa volta nel video del servizio c’erano anche le versioni di Springsteen, Joan Baez e Stevie Wonder), per cui visto che effettivamente sono passati 50 anni (circa), festeggiamo pure!

Bruno Conti

Vi Mancano Gli Stones? Beccatevi Questi! Deadstring Brothers – Cannery Row

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Deadstring Brothers – Cannery Row – Bloodshot CD 02-04-2013

Se avessero dovuto bendarmi e farmi ascoltare questo disco senza dirmi nulla, avrei pensato ad una oscura session dei primi anni settanta dei Rolling Stones, rimasta poi nei cassetti. I Deadstring Brothers sono un gruppo di Detroit cresciuto veramente a pane e Stones, ma non gli Stones classici (quelli più rock’n’roll per intenderci), ma quelli appunto del periodo 70/72, che flirtavano con la California e con il cosmic country di Gram Parsons e dei suoi Flying Burrito Brothers. Cannery Row è già il loro quinto album (non conosco i precedenti, tutti usciti per la Bloodshot), ed è un godibilissimo excursus in un sound d’altri tempi, ma sempre attuale (basti pensare all’ultimo album di Ryan Adams, Ashes & Fire) ed affascinante: il leader e deus ex machina del gruppo è Kurt Marschke, che in effetti tratta la band come una sua creatura, cambiando spesso i componenti (la versione attuale comprende JD Mack al basso, Brad Pemberton alla batteria, Mike Webb al piano ed organo, tra l’altro bravissimo, e Pete Finney a steel e dobro, molto valido anche lui, mentre Kurt si occupa delle chitarre).

Una band di elementi esperti, gente che ha suonato con Poco, Dixie Chicks, Hank Williams Jr. e lo stesso Ryan Adams, ai quali si aggiunge come special guest Mickey Raphael, armonicista storico della Willie Nelson Family Band. Gente che sa il fatto suo, e pure Marshke, cognome impronunciabile a parte, non è certo un pivello: il suo suono dipende sì dalle Pietre Rotolanti, ma in alcuni casi riesce a smarcarsi brillantemente da questa dipendenza e dimostra di saper camminare anche con le sue gambe. Cannery Row è, considerazioni a parte, un signor disco, e nei suoi quaranta minuti non c’è un solo secondo da buttare. Si parte davvero alla grande con Like A California Wildfire, classica ballata alla Jagger & Co., sembra una outtake incisa il giorno dopo la registrazione di Wild Horses, molto bella anche se derivativa. It’s Morning Irene inizia come una ballata folk, poi entra la band ed il brano si tramuta in un gustoso cocktail di country e cajun, con un’atmosfera nostalgica di fondo: un brano più personale questo. Oh Me, Oh My palesa altre influenze, come il periodo bucolico di Van Morrison (Tupelo Honey e dintorni, sempre di early seventies parliamo), ma anche The Band per l’uso dell’organo. The Lonely Ride è puro Stones sound, tra country e rock’n’roll (splendido l’uso del piano), grandissima canzone, molto coinvolgente: ricorda molto (ma molto) Dead Flowers e quindi sono di parte, perché lo considero il brano più bello di sempre dei Rolling. 

Cannery Row è un’intensa ballata, fluida e distesa, con un bel solo di organo, mentre Lucille’s Honky Tonk è un country-blues acustico, che si stacca un po’ dall’ombra degli Stones ma rimane ben dentro la grande musica (ottimi piano, slide e steel): musica suonata col cuore, e si sente. The Mansion, ancora acustica, è emozionante e ricca di pathos: quasi quasi mi viene da scomodare gli ultimi Black Crowes (*NDB Tra qualche giorno a proposito dei fratelli Robinso, bella sorpresa sul Blog, così costringo Marco a lavorare) quelli che alternano le loro classiche jam elettriche a splendide digressioni acustiche. Just A Deck Of Cards è guidata da un’ottima slide e dalla voce alla Jagger di Kurt; Talkin’ With A Man In Montana è un’altra grande canzone, una slow ballad pianistica e scintillante, un pezzo così Jagger e Richards non lo scrivono da una vita.  L’album si chiude, come era iniziato, cioè con una languida ballad figlia del binomio Stones/Parsons (Song For Bobbie Jo). Davvero un’ottima band questi Deadstring Brothers (o dovrei dire Kurt Marschke & The Deadstring Brothers), un po’ derivativa ma non sempre: se vi mancano gli Stones più roots e bucolici, questo dischetto fa al caso vostro.

Marco Verdi

Notizie Dal Pianeta “Red Dirt”. Brandon Jenkins – Through The Fire

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Brandon Jenkins – Through The Fire – Smith Entertainment CD

Brandon Jenkins, nativo dell’Oklahoma ma ormai texano d’adozione, è come ormai saprete uno dei maggiori esponenti del cosiddetto movimento Red Dirt, e con i suoi album precedenti (una decina) si è ritagliato insieme ai suoi colleghi appartenenti allo stesso filone un certo status di musicista di culto. Il suo capolavoro, nonché la sua opera più ambiziosa, rimane Brothers Of The Dirt del 2009, che come suggeriva il titolo ospitava la crema dei musicisti di questo particolare movimento (quindi Jason Boland, Cody Canada, Mike McClure, Randy Rogers e Stoney LaRue), un disco molto bello ed ispirato, e non solo grazie agli ospiti.

Il suo nuovo lavoro, Through The Fire, segue ad un anno e mezzo di distanza l’ottimo Under The Sun, e ci conferma il buon stato di forma di Brandon. Chi lo conosce sa già cosa aspettarsi: un country-rock ruvido e poco incline ai compromessi, con massicce dosi di blues, un po’ di atmosfere southern ed un suono diretto, potente, decisamente texano. Through The Fire non ha superospiti (solo Kim Deschamps dei Blue Rodeo in un brano), né forse l’ispirazione di Brothers Of The Dirt (che rimane il punto più alto della sua discografia, un disco che qualunque appassionato di vera musica dovrebbe possedere), ma l’onestà di Jenkins non si discute, oltre alla passione che mette in ogni nota delle sue canzoni.In quest’ultimo lavoro Brandon smorza un po’ i toni, il rock è meno presente, in favore di brani dal tono più raccolto, ma sempre con una certa tensione e diversi elementi blues: un paragone calzante potrebbe essere Ray Wylie Hubbard, altro texano doc che non è mai andato oltre il culto. La title track, che apre l’album, è un uptempo alla Neil Young (con tanto di armonica younghiana), voce già perfettamente in parte ed atmosfera evocativa.

Una bella canzone per un ottimo inizio. Burn Down The Roadhouse ha una partenza un po’ sghemba, ma si raddrizza quasi subito, assumendo toni bluesati e sporchi (qui la somiglianza con lo stile di Hubbard è chiara), con un breve ma intenso assolo chitarristico verso la fine; Horsemen Are Coming, dura ed elettrica, fa uscire l’anima rock del nostro, un brano diretto e senza fronzoli. In deciso contrasto Oh What Times We Live In, soffusa e quasi raffinata (non esattamente un termine che può venire in mente guardando l’aspetto fisico di Brandon…), contraddistinta da un songwriting di qualità, mentre Going Down To New Orleans è un delizioso pastiche acustico con una suggestiva fisarmonica alle spalle. Tattoo Tears è fluida e vibrante, dalla struttura molto classica, In Time, per pianoforte, violoncello e leggera orchestrazione, è un brano atipico ma decisamente suggestivo, mentre la crepuscolare Dance With The Devil, abbellita dalla steel di Deschamps, rimanda allo stile di Ryan Adams. Leave The Lights On è roccata, ma un po’ tignosa e ripetitiva, meglio Ridgemont Street, uno strumentale chitarristico vibrante, con il blues che fa capolino ed i musicisti che suonano sciolti come nella più classica delle jam sessions. Daddy Say, una cavalcata elettrica dal deciso sapore texano, e l’intensa Mountain Top chiudono il disco in netto crescendo.Un buon dischetto, forse non il suo migliore, ma insomma avercene di musica di questo tipo!

Marco Verdi

Non Si Finisce Mai Di Imparare. Da Milwaukee, Wisconsin Hayward Williams – Haymaker

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Hayward Williams – Haymaker – Continental Song City/IRD

Mi sono accorto che la locuzione “Non si finisce mai di imparare” appare abbastanza spesso nei miei Post ma non l’avevo mai utilizzata come titolo, quindi rimediamo subito. Hayward Williams è un cantautore americano originario del Wisconsin con tre album e un mini già nella sua discografia: lui cita tra le sue influenze, quelli che lo hanno convinto a prendere la chitarra e diventare un musicista, quattro album( e giustamente non vola basso), Astral Weeks di Van Morrison, Darkness On The Edge Of Town e Nebraska di Bruce Springsteen (ma poi nel suo secondo album Another Sailor’s Dream appare una cover di Thunder Road, non è una critica, bei gusti) e Heartbreaker di Ryan Adams.

E se dovessi fare una scelta direi che quello con cui trovo più punti di contatto (anche se poi ognuno ci vede e ci sente quello che vuole), almeno a giudicare da questo Haymaker, è proprio il nostro amico Ryan, se poi mi voglio spingere in ulteriori paragoni citerei anche Neil Young e i Jayhawks, soprattutto, ma non solo, per le due belle ballate elettriche, What’s Coming e All Too Willing, con quella struttura da lenta ed epica cavalcata e le due chitarre che si rispondono dai canali dello stereo, sferzanti ma dolci al tempo stesso, una quella di Williams stesso l’altra del suo amico, produttore ed alter ego da molti album, Dan McMahon, che suona anche molti altri strumenti nel disco. Il risultato, anche grazie alla bella voce, profonda e tenorile di Hayward, è molto coinvolgente e raffinato, le chitarre hanno la giusta grinta, un organo insinuante le aiuta, il drive sonoro potrebbe ricordare anche certi brani del Crosby elettrico o dei canadesi Blue Rodeo, ma con il timbro della voce che potrebbe avvicinarisi anche ad un Neil Diamond più rock.

Ma gli arpeggi delle due chitarre acustiche (termine che ricorre spesso in un altro “scriba” del Blog, vero Tino? stavolta me ne approprio) della iniziale Siren Sound mi ricordano molto le atmosfere sonore di un altro grande della musica d’autore, ovvero Bruce Cockburn, con cupe atmosfere sospese e maestose sottolineate dalle tastiere (synth o mellotron?) e da una una campana che nel finale di brano scandisce inesorabile lo scorrere del tempo. Ma Williams e soci sono in grado anche di fare del sano rock pettyano come nella tirata A Drop In The Delta, sempre se dimenticate la voce di Tom e pensate a una voce più spessa e scura. O alle derive Beatlesiane (white album meets americana) di Before The Storm dove Hayward Williams, di tanto in tanto sfoggia un falsetto intrigante, e le chitarre sono vagamente alla Harrison (forse in modo inconscio).

Molto bella anche High Horse, dove una seconda voce femminile e una steel ricorrente ci riportano proprio a quell’Heartbreaker di Ryan Adams, dove non avrebbe sfigurato. Vogliamo chiamarla Americana, Roots music o semplicemente bella musica, questo signore ha comunque del talento innegabile, come confermano le dolci melodie dell’avvolgente Winter Bird o i florilegi acustici di Dead Wood Calm che mi ricordano ancora l’altro Bruce, quello canadese. Bullet Report con la sua aria folk’n’roll nell’incrocio di elettriche ed acustiche e le atmosfere lente e vagamente psych aggiunge varietà ai temi sonori di questo Haymaker. Che si conclude dopo dieci brani e 37 minuti “pieni” di musica con Paper Chains un altro bel mid-tempo cantato a due voci (McMahon la seconda voce), con le tastiere ad interagire come di consueto con le chitarre con ottimi risultati, nel finale aperto ed arioso. Forse non un genio assoluto ma uno assolutamente da scoprire, anche lui “finanziato” dai fans attraverso Kickstarter, un modo per raccogliere fondi ed essere liberi di fare musica in questo ventunesimo secolo che incalza, nell’era di internet!

E la ricerca continua.

Bruno Conti

P.s Non essendoci molto materiale video recente mi sono arrangiato con quello che c’era.