Dal Vivo Sono Veramente Bravi! Wild Feathers – Live At The Ryman

wild feathers live at the ryman

The Wild Feathers  – Live At The Ryman – 2 CD Warner/Maverick               

Al primo album, quello omonimo del 2013, non dico che avevo gridato al miracolo http://discoclub.myblog.it/2013/09/15/ho-visto-il-futuro-del-rock-n-roll-e-il-suo-nome-e-the-wild/ , ma mi erano parsi una delle nuove band più fresche ed eccitanti in circolazione, tra quelle che meglio di altre erano state in grado di mischiare il rock classico, con ampie spruzzate country, echi di Stones, Allman, Jayhawks, Ryan Adams, Tom Petty, anche gli Avett Brothers, poi con il secondo album, Lonely Is A Liifetime, prodotto sempre da Joy Joyce, l’asticella del suono si era spostata in parte verso un approccio più bombastico, commerciale, fatto in serie, simile ai passi falsi recenti di formazioni tipo Mumford And Sons, The Head And The Heart (sempre con Joyce dietro la consolle), pur mantenendo comunque alcune caratteristiche del proprio sound, tipo l’approccio R&R, le belle armonie vocali e una capacità di scrivere brani dalle melodie consistenti http://discoclub.myblog.it/2016/05/26/presente-passato-del-rock-and-roll-the-wild-feathers-lonely-is-lifetime/ . Quindi li attendevo con curiosità alla prova del doppio dal vivo, prova quasi infallibile per un artista o una band che vuole dimostrate le proprie qualità e la capacità di stare su un palco (dico quasi, perché per esempio di recente i NEEDTOBREATHE, che nel 2015 avevano pubblicato un ottimo doppio Live From The Woods, lo hanno seguito con una tavanata galattica come il recente Hard Love http://discoclub.myblog.it/2016/11/08/invece-veramente-brutto-needtobreathe-hard-love/ ).

Ma questo rimane nel futuro,  concentriamoci sul presente, ovvero questo doppio CD dal vivo, registrato in uno dei templi riconosciuti e deputati della country music, il mitico Ryman Theatre di Nashvile, che negli ultimi anni ospita spesso anche formazioni rock. Il quartetto texano si presenta sul palco con una ampia selezioni di brani tratti dai due dischi precedenti, diciassette canzoni in tutto: l’apertura è affidata ad una splendida Help Me Out, tratta del recente Lonely Is A Lifetime, con i loro eccellenti incroci vocali, sia a livello armonie, sia delle diverse voci soliste che si intrecciano, mentre il jingle jangle e gli assoli ripetuti delle chitarre fanno dimenticare l’arrangiamento pomposo del disco di studio. Overnight, il brano di apertura del secondo album, ricordava molto il sound dei Jayhawks, e nella dimensione live conferma la sua validità, riff e ritmi coinvolgenti, grande country-rock della vecchia scuola, anche un approccio “antemico”, ma nella migliore accezione del termine, guitar music della più bell’acqua, e pure Backwoods Company, dal primo album,a livello riff non scherza, una via dei mezzo tra Petty e gli Allman, grinta e sostanza. If You Don’t Love è la prima pausa di riflessione nel concerto, una pop ballad molto raffinata, che ricorda i primi U2, mossa e con un ritornello facile da ricordare, seguita da Don’t Ask Me To Change, sempre ricca di sfumature pop-rock di gran classe, mentre Got It Wrong è un’altra tipica canzone del loro repertorio, “cantabile” e con un approccio avvolgente e assai godibile, con i soliti controcanti corali di grande effetto.

Hard Times è uno dei brani oltre i sei minuti dove la band mostra il proprio spirito più R&R, con chitarre e tastiere in libertà, in continuo crescendo, e questi suonano, ragazzi. Sleepers è un altro dei pezzi del secondo album che viene liberato da quel “big sound” fasullo a favore di una maggiore freschezza, poi gli oltre otto minuti di Goodbye Sound, uno dei pezzi migliori dell’ultimo disco, come dicevo nella recensione del CD mi ricorda le cose migliori di Blue Rodeo o Jayhawks, intrecci di chitarre e tastiere, oltre alle voci che armonizzano in modo perfetto, una pedal steel aggiunta e una gran coda strumentale a chiudere il cerchio. Molto piacevoli e consistenti anche Into The Sun e Happy Again, soprattutto la seconda, veramente tirata e con un gran riff; per non parlare di Left My Woman un’altra delle loro classiche ballate elettroacustiche in crescendo.. E siamo solo al terzo brano del secondo CD, a questo punto tocca a American, altro notevole brano dal flavor anni ’70, con chitarre e ritmiche galoppanti quasi stonesiane, poi a Lonely Is A Lifetime, un pezzo solo voci e chitarre acustiche, prima del gran finale che si apre con How, un altro dei brani dell’ultimo album che cresce nella vibrante versione Live, come pure la splendida The Ceiling in una versione monstre di oltre sette minuti, con chitarre e voci che girano a mille, prima di congedarci con la poderosa Hard Wind, altro brano R&R ricco di sostanza ed energia. Per il momento basta e avanza, dal vivo sono veramente bravi, per il futuro vedremo!

Bruno Conti

Cavalli Di Razza In Versione “Unplugged” – Band Of Horses – Acoustic At The Ryman

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Band Of Horses – Acoustic At The Ryman – Brown Records/Spin-Go

Ci sono gruppi che esigono un ascolto accurato prima di rivelarsi i “cavalli di razza” che nel corso della carriera sono poi diventati. I Band Of Horses rientrano in questa categoria: dopo lo splendido debutto con Everything All The Time (06) su Sub Pop Records (che conteneva The Funeral, una canzone che ha raccolto parecchi consensi nel circuito alternativo), a cui fecero seguito altri lavori meno ispirati ma sempre di buon livello come Cease To Begin (07), Infinite Arms (10 e Mirage Rock (12), è con questo live set acustico che (per chi scrive), fanno il salto di qualità http://www.youtube.com/watch?v=RxWSEZfplow .

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Il background artistico dei Band Of Horses, trio proveniente da Seattle, formato dal leader e cantante Ben Bridwell, con i suoi “stallieri” Rob Hampton e Creighton Barrett, dopo l’indie-rock delle prime uscite (il debutto e Cease To Begin), aveva in seguito intrapreso la strada di un pop-rock venato di country (Infinite Arms), per poi sterzare verso il folk-rock (Mirage Rock), rincorrendo negli anni un sound e una scrittura tipica della grande tradizione rock americana.

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Acoustic At The Ryman è il primo disco dal vivo del gruppo, registrato in due serate presso lo storico e mitico teatro di Nashville, con una strumentazione interamente in assetto acustico, con violoncello, chitarre, pianoforte e percussioni delicate. I dieci pezzi presentati sono tratti in modo omogeneo da tutti i dischi della band, alternando brani di grande impatto strumentale, ad altri momenti cantati, dalle ricche armonie vocali (nei brani storici).

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E allora idealmente saliamo sul palco con Benjamin Bridwell voce e chitarra, Ryan Monroe piano e chitarra, Tyler Ramsey alle chitarre, Bill Reynolds al basso e Creighton Barrett alle percussioni per introdurre l’iniziale Marry Song e Detlef  Schrempf (dedicato ad un grande giocatore tedesco del  basket professionistico USA) http://www.youtube.com/watch?v=m5dt01gDJ5Y , due dei tanti brani “rubacuori” del gruppo, mentre Slow Cruel Hands Of Time viene riproposta in una versione minimalista. Un tenue accordo di chitarra introduce la corale Everything’s Gonna Be Undone, a cui fanno seguito due cavalli di battaglia come No One’s Gonna Love You e Factory, che sembrano state scritte appositamente per queste versioni acustiche. Dopo una breve pausa (per accordare gli strumenti) si riparte con una Older in stile Crosby, Stills, Nash & Young, mentre la seguente Wicked Gil viene rivoltata come un calzino (sembra un’altra canzone), con largo uso del pianoforte. Accordi di piano che vengono riproposti nel singolo d’esordio The Funeral (estratto da Everything All The Time), dall’incantevole melodia http://www.youtube.com/watch?v=UI14P8WQROw , forse il brano più intimo e toccante della serata (una sorta di Stairway To Heaven della band) e chiudere con una Neighbor cantata coralmente quasi “a cappella” http://www.youtube.com/watch?v=QT36twWX4hA . Applausi.

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Acoustic At The Ryman soddisferà in pieno le aspettative dei tanti “fans” (come sempre in queste operazioni i brani diventano più intimi e raccolti ed emergono aspetti artistici meno evidenti), in questo caso dieci ballate mai troppo veloci, cantate con la bellissima voce di Ben e le pregevoli armonie delle seconde voci, che ci tengono compagnia per poco più di quaranta minuti, e nel caso abbiate un buon impianto stereofonico, sembra davvero di stare a pochi metri dai musicisti.

In una decina d’anni di attività i Band Of Horses, si sono guadagnati la giusta fama di essere una delle più solide “indie rock band” del panorama americano, e questa performance live (nel santuario del country a Nashville) li consacra definitivamente come un gruppo di musicisti di talento, che scesi dal palco, lasciano nel pubblico presente in sala, le emozioni autentiche che si cercano nella buona musica.

Tino Montanari

Un “Giovane” Di Talento. Jonny Lang – Live At The Ryman

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Jonny Lang – Live At The Ryman – SayRai Music

Per chi non lo conoscesse, come direbbe il finto ministro Maroni, “fischia se suona”. Per chi già lo conosce e lo apprezza, sarà occasione di giubilo e piacere ascoltare, finalmente, un album che gli rende completamente merito.

All’età di 29 anni appena compiuti e quindi tecnicamente un giovane Jonny Lang ha già alle spalle una carriera che dura da una quindicina di anni, quindi uno dei tanti bambini prodigio, ma di quelli bravi, della famiglia degli Stevie Winwood e Wonder, o per rimanere in anni più recenti e in ambito blues, Joe Bonamassa.

Sempre per chi non lo conosce ricordiamo che il suo esordio avviene nel 1995 a 14 anni con un album indipendente a nome Kid Jonny Lang & The Big Bang (non pervenuto), mentre quello ufficiale, per una major, la A&M del gruppo Universal avviene con l’ottimo Lie to me del gennaio 1997: blues, rock, soul, assoli di chitarra a iosa, cover di qualità ma subentra subito la sindrome del bel fiolin (bel ragazzo per chi non conosce il milanese), per il successivo Wander This World gli affiancano David Z, collaboratore di Prince, che firma anche un brano dell’album, che subisce una sterzata verso sonorità molto più commerciali ancorché valide che gli valgono una nomination ai Grammy (mah!)  e siamo nel 1998. Dopo una pausa di ben 5 anni nel 2003 esce Long Time Coming che sterza verso sonorità più influenzate dal soul e dal gospel ma la chitarra ruggisce meno. L’album del 2006 Turn Around l’ultimo per l’A&M è decisamente R&B oriented e la chitarra si sente pochissimo, quindi se volete sentire Stevie Wonder (grande pallino di Lang), l’originale è meglio.

Siamo arrivati a oggi e a questo Live At The Ryman che è uscito in versione digital download a fine 2009 e si trova, con fatica, in versione CD nel suo sito distribuito da quella etichetta indipendente dal nome improbabile che si legge all’inizio del post. Ma a noi non ci frega, visto che siamo in rete e questo è un Blog ben vengano anche questi prodotti cosiddetti “virtuali”: oltretutto si tratta di un ottimo album Live, cantato bene, suonato anche meglio, ottimo gruppo di musicisti, repertorio ben calibrato tra soul, rock, blues, venature gospel, scelta di cover eccellenti, pubblico entusiasta (con prevalenza, da quello che si percepisce dell’ambiente, di giovani e giovanissimi).

Jonny Lang, nella gerarchia dei chitarristi, che secondo il sottoscritto si divide in bravi, molto bravi, Fenomeni, Jimi Hendrix e gli altri, dove si pone?  Appurato che Hendrix fa categoria a sé, fuori concorso, gli altri non ci interessano, i fenomeni sono i soliti noti, Clapton, Beck, Page, Green, Santana, Allman e tra i “contemporanei” Stevie Ray Vaughan e Bonamassa, direi che possiamo inserirlo tra i Fenomeni molto bravi (tiè, fregati!), vicino a Derek Trucks e Kenny Wayne Sheperd per esempio, ma anche altri non citati. Della serie vorrei (diventare) un grande ma mi manca ancora quel quid.

In questo Live il nostro amico ci dà dentro alla grande, brani come Turn Around, A quitter never wins e Red Light sono dei notevoli tour de force chitarristici, con il consueto sound della chitarra di Jonny Lang, quel bel suono “grasso”, Claptoniano ma anche sanguigno alla Stevie Ray Vaughan. Anche il cantato è notevole, il ragazzo ha una bella voce piena di soul che molto deve a Stevie Wonder, come la bella cover di Livin’ For The City evidenzia (un appunto, un pelino lunga!). Comunque è l’album nel suo insieme che soddisfa. Promosso, adesso cercatelo!

Già nel 1999 a Montreux era una iradiddio.

Bruno Conti