E’ Sempre Un Piacere Ascoltare Un “Nuovo” Album Di Rory Gallagher, Specie Se Così Bello – Check Shirt Wizard Live In ’77

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Rory Gallagher – Check Shirt Wizard Live ’77 – 2 CD Chess/Universal

Qui https://discoclub.myblog.it/2020/02/02/novita-venture-2020-4-rory-gallagher-check-shirt-wizard-live-in-77-dai-magici-archivi-della-famiglia-il-6-marzo-arriva-un-altro-bel-doppio/  potete trovare quanto avevo scritto in sede di presentazione di questo doppio live e a questo link https://discoclub.myblog.it/2019/08/24/troppo-bello-per-non-parlarne-diffusamente-il-classico-cofanetto-da-5-stellette-rory-gallagher-blues/  trovate la recensione dello splendido triplo uscito lo scorso anno. E non credo neppure occorra ulteriormente ricordare chi sia stato Rory Gallagher, da sempre uno dei preferiti di questo Blog e andando a ritroso potete trovare diversi Post che tracciano in retropsettiva anche la sua carriera, per cui veniamo subito i contenuti di questo doppio CD.

Come detto in sede di presentazione si tratta di 20 brani estratti da 4 diverse esibizioni tenute in Inghilterra, tra gennaio e febbraio del 1977, dal mago dalla chitarra a quadri (come ci ricorda il titolo del CD). quindi non un vero concerto dal vivo completo, ma uno virtuale costruito estraendo da quei concerti quasi tutti i brani che Gallagher eseguì in quel breve tour, che poi ebbe una breve coda con una data alla Royal Albert Hall il 2 marzo, mentre le date dei quattro show da cui si è andati a pescare sono quelle del 18 gennaio all’Hammersmith Odeon di Londra, il 21 gennaio al Brighton Dome, il 17 febbraio alla Sheffield City Hall e il 18 febbraio alla Newcastle City Hall. Nel corso di quel tour tra Irlanda del Nord, Scozia e Gran Bretagna ci furono parecchie altre date, per cui non mi sento di escludere future uscite tratte da quella tournée, comunque saggiamente per l’occasione si sono evitati brani ripetuti più volte, creando appunto questa sorta di concerto virtuale. Con Rory troviamo la band che lo accompagnava all’epoca, già da alcuni anni, e con la quale aveva inciso Calling Card, uscito ad ottobre del ’76, che era l’abum in promozione, e cioé Gerry McAvoy al basso, Rod de’Ath alla batteria e Lou Martin alle tastiere.

Si parte subito alla grande con Do You Read Me, brano che appunto apriva quel disco: Rory, come sempre dal vivo, è in forma strepitosa, la registrazione è eccellente, per cui si gode appieno il suo stile fremente ed istintivo, mediato peraltro dalla tecnica sopraffina, che lo aveva fatto definire da Hendrix, sul finire degli anni ’60, “il miglior chitarrista del mondo” (tuttora al 57° posto, forse un po’ basso, nella lista dei migliori All Time, stilata da Rolling Stone), e tra i suoi fans ci sono anche Bob Dylan e The Edge, anche se il suono all’epoca era appena più “duro” rispetto a quello di Live In Europe e Irish Tour, era comunque un gran bel sentire, con la potenza inaudita di suono che Gallagher e soci sono in grado di riversare su un pubblico adorante, la chitarra imperversa, l’organo lo segue e la voce rude, maschia e cattiva di Rory chiude il cerchio, con la ritmica che pompa di brutto. Moonchild, sempre da Calling Card, in questo senso è forse ancora più brutale, una forza che che in quegli anni avevano forse solo i Led Zeppelin, per quanto declinanti, con la vecchia “scassata” Strato del nostro ancora in grado di regalare magie e fiumi di note; la granitica e riffatissima Bought And Sold arriva da Against The Grain, mentre da Calling Card, oltre alla sospesa e quasi psichedelica title track, arrivano anche la minacciosa e possente Secret Agent, sempre decisamente più rock che blues, la cadenzata e raffinata Jack Knife Beat, presente nel 2° dischetto, con un assolo spendido di Rory ben sostenuto dal piano di Martin, mentre Edged In Blue è una deliziosa e lirica blues ballad con retrogusti quasi hendrixiani, che poi accelera nella seconda parte.

Tattoo’d Lady è uno dei miei brani preferiti in assoluto di Rory Gallagher, tratto dall’album del 1973, una agile e scorrevole rock song dove si apprezza una volta di più l’apporto di Lou Martin al pianoforte, con un assolo fluido e ben congegnato, mentre il musicista di Cork ci delizia ancora una volta con il suo solismo variegato e sempre aperto a diverse soluzioni sonore. Come dimostra anche una eccellente versione di A Million Miles Away, una delle sue canzoni più belle, una blues ballad ad alto tenore melodico, in cui il nostro ci regala un assolo da sballo nella parte centrale, per poi lasciare spazio nel finale anche all’organo di Martin, bellissima. C’è anche un inconsueto e raro omaggio al soul & R&B con la cover di I Take What I Want di Sam & Dave, preso ad una velocità da ritiro della patente, ossia alla Rory Gallagher, sempre presa da Against The Grain, con De’Ath e McAvoy che imperversano come se non ci fosse un futuro, per tenere testa al nostro amico. Walk On Hot Coals suona nuovamemente non dissimile dai Led Zeppelin, con una veemenza e una potenza incredibili, con la solista anche in modalità slide, impegnata a mulinare in modo impressionante e con la sezione ritmica in modalità vorticosa https://www.youtube.com/watch?v=cJFIiGu-zvQ .

Ovviamente il blues non puo mancare in un concerto di Gallagher, quando si apre il secondo CD ed inizia la sequenza acustica, prima arriva il folk blues dei brano di Leadbelly Out On The Western Plain, seguito dalla deliziosa ed ondeggiante Barley And Grape Rag, altro brano originale estratto da Calling Card, che potrebbe sembrare un altro tradzionale in arrivo dalla grande depressione https://www.youtube.com/watch?v=7k_dSJ7I71A , con Rory a mostrare il suo virtuosismo anche alla chitarra acustica, che poi ribadisce, in modalità bottleneck, nel classico Too Much Alcohol, quasi una premonizione della sua futura condizione, il brano di JB Hutto che su Irish Tour era in versione elettrica, qui appare come un Delta Blues, e anche quando imbraccia il mandolino per Going To My Hometown, che lentamente si elettrifica e poi lascia spazio al piano di Martin, traspare il suo grande amore per le 12 battute realizzato sempre in modo genuino e con un grande trasporto assai apprezzato dal pubblico.

Nella sequenza del gran finale elettrico, oltre ai brani già citati, troviamo una Souped-up Ford, ancora da Against The Grain, a tutto boogie e di nuovo con la slide e il piano di Martin sugli scudi, e poi una colossale Bullfrog Blues che non ha nulla da invidiare a quelle presenti in Live In Europe e Irish Tour, nuovamente a tutto bottleneck, in una parola “viulenza” allo stato puro, nel miglior significato del termine. Used To Be, dal capolavoro Deuce, è un’altra fabbrica di riff, forse neanche gli Stones avrebbero potuto fare di più, e Country Mile, l’ultimo brano pescato da Calling Card, è un ennesimo boogie vertiginoso dove Rory Gallagher, distilla la sua arte nel creare quel blues elettrico ed elettrizzante che lui era tra i pochi in grado di creare, una vera meraviglia del “ragazzo” con la camicia a quadri”!

Bruno Conti

Il Disco Della Consacrazione Per Uno Dei “Nuovi” Fenomeni Della Chitarra. Albert Cummings – Believe

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Albert Cummings – Believe – Mascot/Provogue – 14-02-2020

Era quasi inevitabile che anche Albert Cummings, uno dei migliori chitarristi americani, prima o poi sarebbe approdato alla Mascot/Provogue: lui stesso ha detto di essere onorato per essere finito nella stessa etichetta di Joe Bonamassa, Walter Trout ed Eric Gales (e aggiungo io, decine di altri virtuosi della chitarra). Il nostro amico viene da Williamstown, Massachusetts e ha inciso finora non molti album (otto, compresi due live), visto che la sua carriera discografica ufficiale è partita solo intorno al 2000, quando aveva superato i 30 anni da tempo. “Scoperto” da Chris Layton e Tommy Shannon, a cui si era poi unito Reese Wynans, fu il primo musicista a registrare un intero album con i Double Trouble del suo idolo Stevie Ray Vaughan, dopo la scomparsa di quest’ultimo, e di cui quest’anno ricorre il 30° Anniversario dalla morte (come passa il tempo!): il disco From The Heart, uscito nel 2003, fu registrato proprio in Texas, con la produzione di Layton e Shannon. Da allora, quasi tutti i dischi successivi, usciti per la Blind Pig Records, sono stati prodotti da Jim Gaines https://discoclub.myblog.it/2012/09/13/un-ulteriore-virtuoso-della-6-corde-albert-cummings-no-regre/ , che torna dietro alla consolle anche per questo Believe, registrato in una delle mecche assolute della musica americana, i FAME Studios a Muscle Shoals, Alabama.

Nello stile di Cummings quindi per l’occasione, insieme all’immancabile blues, troviamo anche forti elementi soul, rock e country ( già presenti in dischi passati e nell’educazione musicale di Albert che nei primi passi fu però occupata dall’utilizzo del banjo e dalla passione per il bluegrass, poi sostituita dalla scoperta di SRV): il disco, in uscita il 14 febbraio, è probabilmente il migliore in assoluto di Cummings, che comunque raramente, se non mai, ha tradito le aspettative dei fan del blues elettrico, con una serie di album notevoli, dove accanto alle indubbie doti tecniche applicate alla sua Fender Stratocaster, si apprezza anche una eccellente vena di autore di canzoni, rendendolo una sorta di “cantautore” del blues-rock. Qualche cover ci scappa sempre, pochissime per la verità, Live esclusi, un B.B. King qui, un Merle Haggard là, e un brano di Muddy Waters, in tutti i suoi album, ma per il nuovo disco ce ne sono ben quattro (anzi  cinque), l’iniziale Hold On (manca I’m Comin’, ma il brano è proprio quello di Sam & Dave, scritto da Isaac Hayes), e per parafrasare potrei azzardare un  “I’m Cummings”, ma temo il linciaggio per la battuta, e quindi mi limito a dire che è una versione molto calda, in un florilegio irresistibile di fiati e voci femminili di supporto, con Albert che si conferma anche cantante di buona caratura , oltre che chitarrista sopraffino, con un assolo ”ispirato” da quel Duane Allman la cui immagine lo guardava dalle pareti degli stessi studi in cui si trovava lui in quel momento.

Già che siamo in tema di cover,  troviamo  pure una delicata e deliziosa Crazy Love di Van Morrison, trasformata in una bellissima deep soul ballad, anche grazie alla presenza del tastierista Clayton Ivey, uno di quelli che suonava ai tempi nei dischi prodotti a Muscle Shoals e proprio in chiusura di CD, una intensa e scoppiettante Me And My Guitar di Freddie King, con un assolo fiammeggiante che è un misto di tecnica raffinata e feeling. Venendo agli altri brani, come negli album precedenti le canzoni a livello di testi toccano i temi del working man (in fondo Cummings ha sempre lavorato in una azienda di costruzioni di famiglia), delle difficoltà economiche, questioni amorose e così via, niente trattati psicologici, ma uno sguardo sul quotidiano, con una attitudine compartecipe, mentre musicalmente il tema R&B e southern soul rimane anche nella ritmata Do What Mama Says, sempre con fiati, coriste e tastiere a profusione, mentre al solito la chitarra lavora di fino anche a livello di riff, con Red Rooster  (anche in questo caso se gli aggiungete Little è  quella di Howlin’ Wolf e Stones) che è un blues di quelli duri e puri, con una solista “cattiva” il giusto che impazza alla grande; Queen Of Mean è di nuovo un torrido “soul got soul” (?!?), il suono tra Stax e Hi records che usciva dai Fame Studios, e ancora oggi dai dischi di Delbert McClinton, Marc Broussard e altri praticanti del genere.

Con Get Out Of Here, che aggiunge elementi country e sudisti, sempre cantati con voce ricca di impeto e passione da Cummings, che comunque rilascia un torrido assolo dei suoi, tagliente, ripetuto e vibrante. Tra le cover in effetti c’è anche quella di My Babe, Willie Dixon via Little Walter, sempre con quello spirito “sudista” e “nero” che caratterizza tutto l’album, come ribadisce una ottima It’s All Good dove gli elementi country e soul sono ancora presenti negli arrangiamenti lussureggianti della produzione di Gaines che sfrutta al meglio i musicisti degli storici studi dell’Alabama, e Albert lavora comunque di fino con le eleganti volute della sua solista, che poi si scatena,  di nuovo con misura e classe, nel blues carnale Going My Way che cita nel testo il titolo dell’album, una visione ottimistica e piena di speranza “You can have anything you want, all you need to do is believe.” Lasciando all’eccellente Call Me Crazy il pezzo più blues, dove Cummings dà libero sfogo alla sua solista in un tour de force di grande intensità, con il wah-wah che impazza nel finale in omaggio al suo “maestro” Stevie Ray Vaughan. Un delle migliori uscite di inizio anno!

Bruno Conti

Correva L’Anno 1968 5. Una Splendida Appendice Ad Una Fortunata Serie Di Cofanetti. VV.AA. – Stax ’68: A Memphis Story

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VV.AA. – Stax ’68: A Memphis Story – Craft/Concord 5CD Box Set

A pochi mesi di distanza dal bellissimo Rarities: The Best Of The Rest, quarto e probabilmente ultimo episodio della serie di cofanetti Stax Singles https://discoclub.myblog.it/2018/02/04/torna-a-sorpresa-una-delle-piu-belle-serie-dedicate-alla-black-music-stax-singles-rarities-and-the-best-of-the-rest/ , la Concord (proprietaria del marchio della storica etichetta discografica) pubblica quasi a sorpresa un volume “spin-off”: Stax ’68: A Memphis Story, che raccoglie in cinque CD tutti i singoli, lati A e B, usciti nell’anno solare del titolo, quindi mezzo secolo fa. Il 1968 fu un anno importantissimo per la Stax, label nata a Memphis nel 1957 ed in pochi anni diventata leader nella diffusione della musica soul ed errebi ad opera di artisti perlopiù di colore (in concorrenza con la Motown di Detroit): infatti in quel periodo l’America era percorsa dai tumulti e dalle manifestazioni per l’affermazione dei diritti civili e dell’uguaglianza tra neri e bianchi (il cui culmine si ebbe proprio nel 1968 con l’assassinio di Martin Luther King), e Memphis era una delle città nelle quali la lotta era più sentita.

In tutto questo la Stax era vista un po’ come una sorta di “rifugio sicuro”, ed altre volte come una specie di zona franca che non veniva toccata dagli episodi di violenza che a quell’epoca non mancavano: questo perché gli studi dell’etichetta erano già da anni un esempio di integrazione razziale, dato che bianchi e neri vi lavoravano fianco a fianco in perfetta armonia, sia che facessero parte dello staff che del roster di artisti che vi andavano ad incidere. Infatti già da qualche tempo la musica che veniva pubblicata sotto il marchio Stax non era più solo soul, rhythm’n’blues e funky, ma si cominciava ad intravedere anche qualche “intrusione” del rock e perfino di country e psichedelia, e diversi artisti sotto contratto avevano la pelle bianca. Tutto ciò è testimoniato dunque in questo splendido cofanetto quintuplo (pubblicato in un formato simile alla dimensione di un 45 giri, con un bel libro rilegato ricco di informazioni e note ed i CD inseriti separatamente sul fondo), che raggruppa tutti i singoli pubblicati da Gennaio a Dicembre del 1968 all’interno dei quali, oltre alla maggioranza di canzoni a tema amoroso, si cominciavano a far largo brani che parlavano di libertà ed uguaglianza, come nel caso degli Staple Singers: non ci sono inediti, ma parecchie rarità questo sì.

Ma andiamo con ordine, esaminando gli episodi salienti dei cinque dischetti, dato che una recensione brano per brano delle 134 canzoni totali richiederebbe una rubrica settimanale. Il box parte con il botto, ovvero con la mitica (Sittin’ On) The Dock Of The Bay di Otis Redding, canzone uscita postuma a causa della tragica scomparsa a fine 1967 di quello che era l’artista di punta del catalogo Stax (la B-side è la vivace Sweet Lorene): Otis è presente anche più avanti nel primo CD, in duetto con Carla Thomas, con Lovey Dovey e New Year’s Resolution. Altri highlights del dischetto sono Sam & Dave con le energiche I Thank You e Wrap It Up, il blue-eyed soul dei misconosciuti Memphis Nomads (le gradevolissime Don’t Pass Your Judgement e I Wanna Be Your Lover & Your Honey), la deliziosa I Got A Sure Thing di Ollie & The Nightingales, la grande voce di Johnnie Taylor che giganteggia in Next Time e nel blues afterhours Sundown. Eddie Floyd era un grandissimo, e lo dimostra con le strepitose Big Bird e Holding On With Both Hands, potenti e ricche di feeling, ma non sono da meno né William Bell con le toccanti Every Man Oughta Have A Woman e Tribute To A King (nonostante qualche sviolinata di troppo) né Rufus Thomas con il luccicante errebi di The Memphis Train. Il secondo CD inizia con la vibrante Soul Power, un titolo che è tutto un programma, ad opera di Derek Martin, e prosegue con lo splendido white soul di Bring Your Love Back To Me e Here I Am di Linda Lyndell (che voce) e con la sempre impeccabile Carla Thomas (le coinvolgenti A Dime A Dozen e I Want You Back, cantate entrambe splendidamente).

Il CD alterna nomi noti come Isaac Hayes (con le peraltro non eccelse Precious Precious e Going To Chicago Blues, in cui sembra essersi appena svegliato dopo una serata di bagordi) ed il grande bluesman Albert King (alle prese con (I Love) Lucy e You’re Gonna Need Me) ad altri meno conosciuti come i Kangaroo’s (belle sia la corale Groovy Day che il quasi rock’n’roll di Every Man Needs A Woman), i Mad Lads con la romantica Whatever Hurts You e la mossa No Time Is Better Than Now, per concludere con la classe dell’Eddie Henderson Quintet (Georgy Girl e A Million Or More Times, due raffinati strumentali jazz) e con la stupenda ed emozionante Send Peace And Harmony Home di Shirley Walton, una delle più belle canzoni del box. Il terzo dischetto parte con i grandi Booker T. & The MG’s (la deliziosa e solare Soul-Limbo, dal sapore caraibico) ed ancora Eddie Floyd con le calde soul ballads I’ve Never Found A Girl e I’m Just The Kind Of Fool. Qui troviamo anche l’unico singolo targato Stax da parte di Delaney & Bonnie, contenente le ottime It’s Been A Long Time Coming e We’ve Just Been Feeling Bad, due pezzi tra rock ed errebi cantati e suonati in maniera perfetta, e c’è anche il loro amico Bobby Whitlock con la saltellante pop song Raspberry Rug ed il ficcante soul con fiati di And I Love You.

Per il resto abbiamo tanta gente meno famosa, tra cui si distinguono ancora la brava Linda Lyndell con le strepitose What A Man e I Don’t Know (Linda si conferma una vocalist eccezionale), due splendidi duetti tra Judy Clay ed il più noto William Bell (Private Number e Love-Eye-Tis), l’energica Broadway Freeze di Harvey Scales & The Seven Sounds, un brano funkeggiante alla James Brown, Lindell Hill con l’intensa Remone, il garage rock psichedelico degli Aardvarks (Subconcious Train Of Thought), ancora Judy Clay e la sua straordinaria voce in Bed Of Roses e Remove These Clouds, per finire in crescendo con i grandi Staple Singers alle prese con la trascinante Long Walk To D.C., un gospel elettrico dal ritmo decisamente sostenuto. Nel quarto CD troviamo la fulgida Who’s Making Love di Johnnie Taylor, uno dei più grandi successi della label, il solito Eddie Floyd con una scintillante cover, molto più ritmata dell’originale, di Bring It On Home To Me di Sam Cooke, Jeanne & The Darlings con la squisita It’s Unbelievable, i poco noti Southwest F.O.B. con la vibrante Smell Of Incense, una rock song con organo alla Doors (e con la beatlesiana ed orecchiabile Green Skies), ancora Booker T. & The MG’s con una splendida rivisitazione del tema western Hang’em High, ed il divertente country-pop Sally’s Got A Good Thing dei Village Sound.

Il quinto ed ultimo dischetto si apre con la bella Mighty Cold Winter di Dino & Doc, e poi ci fa incontrare di nuovo sia William Bell (da solo con la soulful e romantica I Forgot To Be Your Lover ed in duo ancora con Judy Clay per la sontuosa My Baby Specializes), sia Albert King e la sua inimitabile chitarra che arrota da par suo in Night Stomp, sia ancora gli Staple Singers, sempre impeccabili in The Ghetto e Got To Be Some Changes Made. Da citare infine The Goodies con il pop-rock West Coast di Didn’t Love Was So Good (lato B di Condition Red ma nettamente migliore), la bravissima Mable John, una voce degna di Aretha Franklin, con Running Out e Shouldn’t I Love Him, il rocker Billy Lee Riley con l vigorose Family Portrait e Going Back To Memphis, e le deliziose country ballads Who’s Making Love (la stessa di Johnnie Taylor, ma in un arrangiamento molto diverso) e Long Black Train, cantate da Daaron Lee.

Stax ’68 è quindi l’ennesimo cofanetto di quest’annata al quale è difficile dire di no, e questo vale anche se avete già le precedenti raccolte di singoli della leggendaria etichetta di Memphis.

Marco Verdi

Questo E’ Quasi Indispensabile! Southside Johnny & The Asbury Jukes – The Bottom Line New York City ’77

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Southside Johnny & The Asbury Jukes – The Bottom Line New York City ’77 – 2CD Echoes 

Nel 2015 Southside Johnny ha pubblicato Soultime!, uno dei dischi migliori dell’ultimo periodo della sua carriera (ma anche Going To Jukesville, Pills & Ammo e Grapefruit Moon, quello dei brani di Tom Waits, non erano per niente male): diciamo che più diventano difficili da reperire, distribuiti dalla Leroy Records tramite sito o ai concerti, più ci si riavvicina al periodo di grande splendore dell’era springsteeniana, a cavallo anni ’70/anni ’80. Ma in quegli anni la band era veramente formidabile dal vivo, nella versione con sezione fiati  una soul revue allo stato puro, con una con forte componente rock, l’altra faccia della E Street Band, con cui spesso si scambiavano musicisti e canzoni. Johnny Lyon ha tutt’ora una gran voce, ai tempi era uno dei “negri bianchi” migliori in circolazione: i primi album, I Don’t Want To Go Home, This Time It’s For Real e Hearts Of Stone sono dei mezzi capolavori, e il gruppo, sulla scia di Springsteen, era anche molto popolare (pur se il successo commerciale era moderato, infatti vennero mollati dalla Epic) . Proprio da quel periodo d’oro viene questo concerto al Bottom Line di New York: non è la serata immortalata nel mini album Live At The Bottom Line, pubblicato come promo nel 1976, ma una serata del giugno 1977, organizzata per lanciare, via broadcast radiofonico, l’appena uscito This Time It’s For Real.

Puro Asbury Sound, con in più la chicca della presenza di Ronnie Spector, in ben cinque brani, uno dei quali presente anche nel Very Best Of pubblicato di recente dalla ex cantante della Ronettes, ed ex di Phil Spector http://discoclub.myblog.it/2015/11/26/darlene-love-ecco-la-piu-famosa-delle-spector-girls-ronnie-spector-the-very-best-of-ronnie-spector/ . Ma la serata è incentrata tutta sulla esplosiva miscela di R&B, blue-eyed soul e rock che era il menu del gruppo all’epoca: le note del doppio CD della Echoes sono molto scarne, ma nella formazione c’erano anche i quattro Miami Horns, guidati da Richie “LaBamba” Rosenberg, con Billy Rush alla chitarra e Kevin Kavanaugh al piano, oltre allo stesso Lyon che suonava anche l’armonica. Qualità sonora molto buona e repertorio al fulmicotone: si parte subito fortissimo con This Time It’s For Real, la title track del nuovo album dell’epoca, scritta da Little Steven, poi è un tripudio di soul, Got To Get You Off On My Mind era un grande brano di Solomon Burke con l’ottimo Billy Rush alla chitarra ed il resto del gruppo in evidenza, Without Love, scritta da Carolyn Franklin, la sorella di Aretha e Ivory Joe Hunter, sempre tratta dal secondo album, è puro Jukes sound, per non parlare di Love On The Wrong Side Of Town, altra perla del duo Springsteen/Van Zandt, sincopata e spectoriana come si conviene.

Little By Little, un pezzo scritto da Mel London, mai inciso su dischi ufficiali dalla band, ma pescato dal repertorio di Junior Wells, è un bel blues & soul tirato con Southside in tiro all’armonica e Billy Rush alla solista, mentre She Got Me Where She Wants Me, sempre dalla penna di Steven Van Zandt (che firma ben otto brani del secondo album) è una sorta di soul ballad con la band che spalleggia Southside Johnny a livello vocale. It Ain’t The Meat (It’s The Motion), dal primo album, era uno dei brani salaci di Henry Glover, un musicista nero poco noto ai non addetti (ma tanto per dirne una ha scritto Drown in my own tears), e anche I Choose To Sing The Blues, che era nel repertorio di Ray Charles (e Billie Holiday). A questo punto sale sul palco Ronnie Spector per un ripasso del “Wall Of Sound”: quattro pezzi in sequenza, con la “Queen Of Rock’N’Roll” come viene presentata, Baby I Love You, e qui finisce il primo CD. Si riprende subito con Walkin’ In The Rain, una splendida versione di Say Goodbye To Hollywood, il pezzo di Billy Joel, che per me in questa versione è anche più bello dell’originale e una grandissima Be My Baby, una delle canzoni più belle di sempre.

Poi si prosegue con The Fever, l’inedito di Bruce che li aveva lanciati sul mercato discografico, gran bella versione con lunga intro di armonica, e ancora I Don’t Want To Go Home, il pezzo che comprende il famoso verso Reach Up And Touch The Sky che sarebbe stato il titolo del loro Live ufficiale. E per celebrare la festa una chilometrica (oltre tredici minuti) e fenomenale Havin’ A Party, uno dei capolavori assoluti della soul music, legata indissolubilmente a Sam Cooke, ma che non manca mai di entusiasmare il pubblico. Mancano ancora un altro brano con Ronnie Spector, questa volta a duettare con Southside Johnny per la bellissima You Mean So Much To Me, e per concludere un’altra formidabile canzone come You Don’t Know Like I Know, un pezzo di Isaac Hayes e David Porter, ma che tutti conosciamo nella versione di Sam & Dave, soul all’ennesima potenza per finire in gloria una magnifica serata. Forse si meriterebbe anche quattro stellette questo doppio CD!

Bruno Conti

Il “Solito” Album Di Joe Louis Walker, Quindi Bello! Everybody Wants A Piece

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Joe Louis Walker –  Everybody Wants A Piece – Mascot/Provogue 

Joe Louis Walker, nelle biografie più o meno ufficiali, fa risalire l’inizio della sua carriera al 1964-1965, quindi all’età di circa 16 anni (essendo nato il giorno di Natale del 1949 a San Francisco, California), prima nella zona della Bay Area in gruppi locali, poi a contatto con i grandi, soprattutto Mike Bloomfield, insieme al quale forgia una amicizia che durerà fino alla scomparsa di Bloomfield nel 1981, e con cui condividerà anche una stanza negli anni più bui di Mike. Nei primi anni conosce e frequenta pure Hendrix, John Lee Hooker, Mayall, Willie Dixon e moltissimi altri, ma la sua carriera discografica, caratterizzata da una lunga gavetta (come usa nell’ambiente), non decolla fino al 1986 quando pubblica il primo disco. Da allora ha inciso per moltissime etichette, la Hightone all’inizio, poi la Universal quando si chiamava ancora Polygram, la Telarc, la Evidence, la JSP, di nuovo la Hightone, una prima volta con la Provogue, la Stony Plain ed infine la Alligator, dove pubblica gli ultimi due dischi, Hellfire e Hornet’s Nest, probabilmente, a parere di chi scrive, i migliori della sua carriera, entrambi prodotti da Tom Hambridge, che con il suo manipolo di abilissimi musicisti e sessionmen estrae il meglio da JLW, che comunque, bisogna dire, ha sempre mantenuto un livello qualitativo molto elevato in tutta la sua produzione http://discoclub.myblog.it/2014/02/07/nel-nido-del-blues-joe-louis-walker-hornets-nest/ .

Per il ritorno con la Provogue Walker si affida ad un altro produttore (e chitarrista) di vaglia come Paul Nelson, a lungo collaboratore di Johnny Winter nell’ultima parte di carriera, che negli studi Chop Shop di Philadelphia lo affianca con la sua touring band abituale, Lenny Bradford, Byron Cage la sezione ritmica e Phillip Young alle tastiere, con lo stesso Joe impegnato anche all’armonica, oltre che a chitarra e voce, e ancora una volta estrae il meglio dal musicista californiano. Walker, sempre secondo il sottoscritto, con Robert Cray (reduce da un live strepitoso uscito recentemente http://discoclub.myblog.it/2015/09/02/quattro-decadi-del-migliori-blues-contemporaneo-robert-cray-band-4-nights-of-40-years-live/ ) è probabilmente uno dei migliori rappresentanti del cosiddetto “black contemporary blues”, uno stile che ingloba il meglio del Blues del 21° secolo (ma anche di quello precedente): voce potente, duttile ed espressiva al tempo stesso, capace di calarsi anche nei meandri della soul music più raffinata, uno stile chitarristico al tempo stesso aggressivo e ricco di tecnica, con elementi rock e tradizionali che si fondono in un solismo da virtuoso, ricco di feeling, ma capace di sfuriate improvvise e reiterate. Tutti elementi contenuti anche negli undici nuovi brani che compongono questo Everybody Wants A Piece: dalle furiose sferzate chitarristiche dell’iniziale e tirata title-track, con sezione ritmica e organo a seguire in modo quasi telepatico le evoluzioni del leader https://www.youtube.com/watch?v=FOOgJ6Ngcf8 , passando per la claptoniana Do I Love Her, dove Walker sfodera anche una armonica pungente e puntuale, e ancora una Buzz On You dove si vira verso un boogie R&R quasi stonesiano, o meglio ancora alla Chuck Berry che è l’articolo originale, con Young che raddoppia anche al piano.

Non manca Black & Blue, storia di un amore che cade a pezzi raccontata con un tempo incalzante, tra errebi ed eleganti atmosfere sospese che ricordano quelle tipiche del miglior Cray, ma anche le linee sinuose e moderne di Witchcraft, dove la solista di Joe Louis Walker comincia ad affilare gli artigli o le leggere derive hendrixiane di One Sunny Day, dove l’unisono voce-chitarra ricorda echi del grande Jimi https://www.youtube.com/watch?v=iF_RLwyMYYI . Ottimo anche il lungo strumentale Gospel Blues, un classico slow, dove la chitarra di Walker si avventura in tematiche care a Ronnie Earl, con un brano che è un giusto mix di tecnica sopraffina, feeling a palate e folate di grinta, un solo che avrebbe incontrato l’approvazione del vecchio amico Mike Bloomfield. E niente male anche il gospel soul dal profondo Sud di una ritmata Wade In The Water, così come pure il R&B fiatistico alla Sam & Dave della coinvolgente Man Of Many Words, con la chitarra comunque sempre pronta per improvvisazioni di grande spessore tecnico https://www.youtube.com/watch?v=YC9kRzEHJ18 . Gli ultimi due brani sono quelli più vicini al blues classico, Young Girls Blues è un tirato shuffle Chicago style, con pianino inevitabile di supporto, mentre per la conclusiva 35 Years Old JLW rispolvera l’armonica a bocca e aggiunge anche una slide malandrina che alza la quota di sonorità più vicine alle migliori tradizioni delle 12 battute. Quindi nuova etichetta ma per fortuna vecchio Joe Louis Walker, cioè ottimo, anche se i due dischi precedenti si fanno ancora preferire, di poco!

Bruno Conti

Intramontabile “Dandy” Del Rock – Bryan Ferry – Live In Lyon

bryan ferry live in lyon 2013

Bryan Ferry – Live in Lyon – Eagle Vision 2013 – Dvd – Blu-Ray Deluxe Edition

Sia come frontman dei Roxy Music e poi come solista, Bryan Ferry si è ritagliato nel corso di una carriera quarantennale (e oltre), uno spazio musicale che assimilava rock, pop, soul, blues e jazz, riuscendo a creare un suono che è unicamente suo. Ferry è originario di Washington (contea del Durham inglese), e ancora studente all’Università di Newcastle nel ’64 forma i Banshees e con loro incide il primo singolo I Got A Woman, Nel 1970 con Brian Eno, Phil Manzera, Andy Mackay, Graham Simpson e Paul Thompson forma i Roxy Music che guiderà (pur fra molte crisi) sino allo scioglimento avvenuto nel 1983. Con i Roxy, Bryan vive periodi di buon successo di critica (gli anni del “glam-kitsch rock” con Brian Eno) e altri di grande popolarità (a cavallo tra i ’70 e gli ’80) con un repertorio più leggero ed intrigante. Parallelamente agli impegni con il gruppo, Ferry sviluppa una propria carriera solista all’insegna del rock melodico e romantico, con un repertorio che attinge spesso ai “classici” leggeri americani (è il caso di These Foolish (73) e Another Time Another Place (74), con una buona selezione di cover d’autore (Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Miracles, Carole King), entrambi premiati dal pubblico inglese. Negli anni seguenti seguiranno con cadenza abbastanza regolare una dozzina di album di buon livello, di cui mi piace segnalare Taxi (93) composto interamente da cover (tra cui classici come All Tomorrow’s Parties, I Put A Spell On You, Amazing Grace), l’ottimo tributo a Dylan Dylanesque (06) e l’intrigante The Jazz Age dello scorso anno (una rivisitazione in chiave jazz strumentale dei suoi successi) http://www.youtube.com/watch?v=eJmlP7W2wQQ.

Nel luglio 2011 in pieno tour promozionale per l’album Olympia, Bryan Ferry ha fatto tappa al prestigioso Teatro antico di Fourvière (presso Lione), in una location da brividi e  con una band di primissimo livello comprendente Oliver Thompson e Neil Hubbard alle chitarre, Colin Good al piano, Andy Newmark e il figlio Tara alla batteria, Jeremy Meehan al basso, la bella e brava Jorja Chalmers alle tastiere e sax, e a completamento, un manipolo di coriste e ballerine, per una sontuosa scaletta (22 canzoni) infarcita di successi suoi e dei Roxy  Ferry sale sul palco e inizia lo show con un classico di Screamin Jay Hawkins I Put A Spell On You e le “dylaniane” Just Like Tom Thumb’s Blues e Make You Feel My Love, per poi colpire al cuore con le ballate romantiche Slave To Love, If There is Something, http://www.youtube.com/watch?v=uOw_dNkMx5Q Reason Or Rhyme  http://www.youtube.com/watch?v=0bmFl0seKII, una Oh Yeah (che dal vivo sprigiona sempre grande energia) e una torrida versione di Like A Hurricane di Neil Young . Dopo una delicata Tara in onore del figlio, parte il set con brani del periodo Roxy con la sempre emozionante “tropicale”Avalon, My Only Love, What Goes On, Sign Of The Times  e una frizzante Love Is The Drug. La parte finale del concerto rende omaggio ai grandi autori nuovamente con il Dylan di All Along The Watchtower, Let’s Stick Together (Wilbert Harrison), Hold On I’m Coming (Hayes e Porter, dal repertorio di Sam & Dave), e una sincera ed emozionante versione di Jealous Guy (Lennon), da sempre “cavallo di battaglia” di Bryan, in chiusura di una magnifica “performance” live.

Il concerto è supportato da immagini altamente suggestive, che ripercorrono, come detto, un repertorio quarantennale disseminato da successi planetari, dove Ferry ancora una volta affascina con il suo stile elegante e suadente (rivitalizzato da giovani musicisti come suo figlio e Thompson) e questo Live in Lyon è semplicemente un ultimo tesoro, in una vitale carriera piena zeppa di gioielli.

NDT: Il DVD è arricchito da un interessante documentario e un minuzioso making of straboccante di interviste ed esclusive riprese in studio, con interventi di Nile Rodgers, Flea e Dave Stewart.

Tino Montanari

Ristampe Che Passione! Edsel:Sam & Dave, Little Feat, Philip Bailey, Manhattan Transfer, Felix Cavaliere, Todd Rundgren, Foghat & Jesse Winchester

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La Edsel Records è una etichetta del Demon Music Group (la più grande compagnia indipendente dell’universo musicale britannico, fondata nel lontano 1980 da Andrew Lauder e Jake Riviera che erano i due “inventori” anche della Stiff Records) ed è specializzata nelle ristampe: dopo un periodo opaco durato per alcuni anni, nell’ultimo periodo ha ripreso con vigore a pubblicare materiale assai interessante tratto dal repertorio delle case discografiche più disparate. Mi sono accorto che nei miei periodici “resoconti” sulle uscite ho dato poco spazio negli ultimi tre mesi ai loro prodotti, in effetti solo il doppio dei Jo Jo Gunne, per cui oggi recuperiamo, anche con una piccola anticipazione sulle uscite di fine Aprile. Si tratta quasi sempre di CD nel formato 2in1: due album su un CD, due album su 2 CD o tre titoli su 2 CD ed escono con cadenza mensile (alla fine del mese). Ne ho scelti alcuni pubblicati tra gennaio, febbraio e quelli che escono in questi giorni.

Sam & Dave sono due “giganti” della musica soul: Sam Moore e Dave Prater hanno fatto la storia della Stax soprattutto con i loro singoli, ma questi quattro album usciti nella seconda metà degli anni ’60 sono imprescindibili per chi ama il Soul con la S maiuscola. Il primo CD, singolo, con 27 brani, contiene Hold On e Double Dynamite i primi 2 album del 1965-1966 più tutti i 45 giri lati A&B usciti nel periodo con brani come Hold On I’m Coming, You Don’t Know Like I Know e When Something Is Wrong With My Baby. Il secondo CD, doppio, contiene Soul Men e I Thank You sempre con moltissime bonus tracks e risale al periodo 1967-1968, il secondo disco non più su Stax ma su Atlantic e i due brani principali sono quelli che danno il titolo agli LP dell’epoca, Soul Man e I Thank You.

Philip Bailey non ha forse il pedigree di Sam & Dave ma è stato comunque il cantante degli Earth, Wind & Fire dal 1972 e con qualche pausa lo è tuttora. Questi due album Chinese Wall e Inside Out sono usciti per la CBS tra il 1984 e il 1986, periodo non molto fausto per la musica nera e il primo contiene il famoso duetto con Phil Collins, Easy Lover mentre nel secondo anche musicisti come Jeff Beck, Omar Hakim dei Weather Report, George Duke, Ray Parker, Daryl Jones, Nathan East e il produttore Nile Rodgers degli Chic più di tanto non possono fare, basta dire che l’unica bonus di questo doppio CD è un Dub Mix (?!?) di State Of The Heart. Per appassionati della musica anni ’80.

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Tutte queste ristampe hanno libretti molto curati, una buona rimasterizzazione e, soprattutto, costano poco! Proseguiamo:

i due album dei Little Feat Times Loves A Hero e Down On The Farm non sono i loro migliori in assoluto ma sono comunque esempi rispettabili del loro rock d’autore. Il primo è del 1977 e il secondo completato postumo dopo la scomparsa di Lowell George nel 1979. Time Loves A Hero, New Delhi Freight Train, Old Folks Boogie, Rocket In My Pocket sono dei signori brani e il gruppo li esegue ancora oggi dal vivo e li trovate in questo doppio CD.

I Manhattan Transfer oggi, anche per l’età, non sono più quel formidabile quartetto vocale, ma nel periodo da cui provengono il Live del 1978 ed Extensions del 1979, il primo con Cheryl Bentyne e quello che contiene la loro versione di Birdland dei Weather Report, erano fantastici.

Il nome Felix Cavaliere, ai non appassionati, dice poco, ma è stato il leader degli Young Rascals, poi Rascals uno dei gruppi bianchi che tra la fine degli anni ’60 e i primi ’70 meglio hanno saputo fondere il pop, il rock e la musica nera con canzoni come Good Lovin’, Groovin’, People Got To Be Free, i cui titoli magari non conoscete ma ascoltandole dovrebbero tornarvi alla memoria (spero). Questi 2 album solisti di Cavaliere uscirono entrambi per la Bearsville nel 1974 e sono stati già ripubblicati separatamente dalla Wounded Bird in CD (come più o meno tutti gli album di cui stiamo parlando che però spesso sono fuori catalogo o irreperibili). Felix Cavaliere e Destiny sono stati raccolti in un 2in1 e nel primo disco prodotto da Todd Rundgren suonano anche tutti gli Utopia mentre nel secondo ci sono Laura Nyro, Leslie West, Elliott Randall, Rod Price dei Foghat, Michael Brecker e David Sanborn.

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Proprio di Todd Rundgren prosegue la serie delle ristampe (ne erano già usciti in precedenza): quello con Todd Rundgren’s Utopia e Another Live è un appuntamento a cui non si può mancare. Se vi piace il rock progressivo, suonato da dei virtuosi dei loro strumenti, un po’ prolisso ma trascinante, assolutamente dovete acquistare questo doppio CD. Pensate agli Yes incrociati con Zappa, i Beatles e l’hard rock e avrete una vaga idea degli Utopia. Il primo album contiene una versione di The Icon che è un brano epico di 30 minuti mentre l’altro dal vivo, uscito nel 1975 (l’omonimo è del ’74), non è da meno. Hermit Of Mink Hollow, Healing e The Ever Popular Tortured Artist, 3 album su 2CD sono usciti tra il 1978 e il 1982. Pensate che in quegli anni Rundgren produsse anche Bat Out Of hell di Meat Loaf, Remote Control dei Tunes, la Tom Robinson Band, Wave di Patti Smith, i Psychedelic Furs e tanti altri album meno riusciti (qualcuno ha detto Walking Wild dei New England?). Ma poi, solo per avere fatto Skylarking degli Xtc merita la riabilitazione per molte ciofeghe successive. L’altro 3in2CD contiene A Cappella del 1985, dove, solo con la voce, imita anche il suono di tutti gli strumenti, Nearly Human del 1989 e Second Wind che è un live del 1991 nel quale era stato detto al pubblico di stare il più in silenzio possibile (non è normale, spesso un “genio”, ma non normale).

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I Foghat sono stati un formidabile gruppo di rock, hard-rock, blues-rock nato dalla fusione di 3 musicisti inglesi provenienti dalla scissione con Kim Simmonds dei Savoy Brown nel 1971, ossia Lonesome Dave Peverett, voce e chitarra solista, Tony Stevens al basso e Roger Earl alla batteria con l’aggiunta del virtuoso americano della slide Rod Price ( i due chitarristi sono entrambi scomparsi, qundi occhio alla band del batterista Earl che gira ancora con quel nome, sono come i Creedence senza Fogerty). La Edsel ristamperà tutti i 13 album della band usciti tra il 1972 e il 1983 per la Bearsville (allora non avevano problemi di prolificità) in varie combinazioni, ma quelli da avere sicuramente sono i primi 2 (che vedete qui sopra), l’omonimo Foghat del 1972, prodotto da Dave Edmunds e quello che si chiama Rock & Roll, del 1973 ma in copertina non c’e scritto nulla, vedete solo una michetta e una pietra ma ragazzi se suonano, del buon vecchio rock come Dio comanda e i 2 album stanno comodamente in un CD. E vendevano mezze milionate di dischi. Anche Energised e Rock & Roll Outlaws, entrambi del 1974, per usare un eufemismo, non sono niente male e ci stanno anche loro in un solo CD. Come pure Fool For The City del 1975 (2 milioni di copie vendute) e Nightshift del 1976. E in queste ristampe manca il micidiale Live, sempre del 1976, che uscirà nel prossimo giro di ristampe a fine Aprile.

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 Sempre nella serie delle uscite di Aprile usciranno anche questi tre Twofer dedicati a Jesse Winchester più la ristampa potenziata di Talk Memphis del 1981 con 6 bonus tracks. Ma ci torniamo al momento dell’uscita, nel frattempo, se volete, potete leggere questo breve post che avevo dedicato a questo grande cantautore lo scorso agosto piccoli-tocchi-di-classe-e-perle-estive-jesse-winchester-spe.html (magari eravate in vacanza o vi siete distratti un attimo).

Per il momento per le ristampe Edsel è tutto (ma ce ne sono moltissime altre)!

Bruno Conti