Adesso Si Esagera! Woodstock: 3 Days of Peace & Music Limited Edition Revisited Blu-ray

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L’ho detto varie volte ma secondo me ormai la case discografiche e cinematografiche prendono per il culo (per usare il noto francesismo) la gente senza ritegno, non è possibile continuare a pubblicare nuove edizioni delle stesse cose, ogni volta con qualcosa in più per ingolosire i potenziali acquirenti. Prendiamo questo Woodstock: 3 Days Of Peace & Music 40th Anniversary Edition The Director’s Cut. Era già uscito nel 2009, quando effettivamente era il 40° anniversario dal concerto del 1969, un bel quadruplo DVD con molte ore di materiale extra, più di otto ore di materiale in totale, tra film ed extra, mi pare. Ma ora (forse perché è il 45° anniversario?) esce questa edizione in triplo Blu-ray che recita Limited Edition Revisited! Scusa? Cosa vuol dire? Vediamo quindi, per capire, il retro del manufatto, che uscirà il 29 luglio per la Warner Home Video (se cliccate sull’immagine si allarga e potete leggere meglio).

woodstock blu-ray back

Effettivamente oltre a un po’ di memorabilia, tipo riproduzioni di biglietti, toppe e il Life Magazine dell’epoca, c’è anche dell’ulteriore materiale video extra. Cerchiamo in rete e vediamo cos’è!

New Never-Seen Concert Footage:

  • Book of Love
  • Come Back Baby
  • Everything’s Gonna Be Alright
  • Helplessly Hoping and Marrakesh Express
  • Mr. Tambourine Man and Tuning My Guitar
  • Oh Happy Day and I Shall Be Released
  • Persuasion
  • Pinball Wizard

Ovvero Sha Na Na il primo brano, Jefferson Airplane il secondo, Paul Butterfield Blues Band il terzo, CSNY il quarto e il quinto, Melanie il sesto e il settimo, Joan Baez l’ottavo e il nono, Santana il decimo e gli Who l’undicesimo. I titoli erano nel comunicato stampa che annuncia l’uscita, gli artisti li ho aggiunti io. Per un totale di circa un’ora di ulteriore materiale. Vale la pena? Non chiedete a me perché mi scappa la parolaccia, io vi ho informato poi vedete voi se farli del male o meno. Per il momento credo uscirà solo per il mercato americano, dove costerà tra i 35 e i 40 dollari, neanche moltissimo, però…

parolacce australia

E’ un cartello stradale australiano che indica “Divieto di parolacce”! A quando l’integrale in 30 DVD e 20 Blu-Ray? Per il cinquantenario?

Bruno Conti

*NDB Da domani riprendiamo anche con le recensioni, ho un po’ di arretrati da smaltire, alcune di artisti italiani interessanti che non riesco a fare per il Buscadero.

Tra Le Migliori Jam Band In Circolazione. The String Cheese Incident – Song In My Head

string cheese incident song in my head

The String Cheese Incident – Song In My Head – SCI Fidelity Records

Si tratta del primo disco in studio da nove anni a questa parte, solo il quinto della loro discografia (live e collaborazioni a parte), esce per festeggiare il 20° Anniversario di attività degli String Cheese Incident ed è prodotto da Jerry Harrison, si proprio lui, quello dei Talking Heads! Elaboriamo partendo da questi dati. Dieci brani nuovi, o almeno mai registrati in studio in precedenza, visto che parecchi erano già stati testati in concerto in questi ultimi dieci anni. I nomi principali della band, per fortuna, sono i soliti: Bill Nershi, il leader, chitarrista e cantante, Michael Kang, mandolino, violino, chitarra e anche lui vocalist, Kyle Hollingsworth, alle tastiere (come vedremo molto presenti in questo disco) e al canto, sezione ritmica con Keith Moseley al basso, e all’armonica quando serve nei brani country, Michael Travis, batteria e Jason Hann alle percussioni, ospite al banjo Chris Pandolfi.

Globalmente formano una delle migliori Jam bands presenti sul territorio americano. Diciamo che in questa ultima decade Jerry Harrison non si è dannato l’anima con il suo lavoro di produttore: ricordiamo l’album dei Rides lo scorso anno, i vari dischi di Kenny Wayne Shepherd antecedenti all’ultimo e il mega successo dei Lumineers, ma in questo disco si sente la sua impronta. In Song In My Head troviamo dieci brani, tutti abbastanza lunghi, ma non lunghissimi, tra i quattro e i sette minuti la durata, e tutti completamente diversi come genere l’uno dall’altro: il bluegrass ed il country che erano due degli elementi distintivi da cui partivano le idee per le lunghe jam presenti nei loro concerti e relativi dischi dal vivo, oltre a quelli “normali” qualche decina di titoli nella serie On The Road, sembrano abbastanza scomparsi, a favore di un approccio più eclettico e ritmico, comunque sempre presente nelle variazioni rock, psichedeliche, progressive e jazzate della loro carriera.

Anche se per la verità quando una infila il CD nel lettore parte una Colorado Blue Sky, tutta banjo, mandolini, chitarre, armonie vocali, puro bluegrass/country, sembrano i Poco, se non i Dillards o qualsiasi grande band country-rock dei primi anni ’70, l’organo di Hollingsworth in agguato, ma poi parte l’improvvisazione, i migliori Grateful Dead sono dietro l’angolo, le chitarre elettriche di Nershi (che firma il brano) e Kang disegnano linee strumentali di grande fascino ma anche virtuosismi a iosa, senza perdere di vista la quota acustica e vocale, entrambe curatissime, un inizio fantastico Poi parte Betray The Dark, firmata da Michael Chang, e ti viene da controllare il lettore, un attimo di distrazione e ho infilato Abraxas o Santana 3 nel lettore? Con Santana, Shrieve e Gregg Rolie, più tutti i percussionisti indaffaratissimi! No, confermo, sono proprio gli String Cheese Incident e il brano è pure molto bello, con l’aspetto ritmico della migliore Santana Band molto presente, e anche l’assolo di organo di Hollingsworth bellissimo, non ne sentivo uno così coinvolgente da quei tempi gloriosi, una meraviglia e poi quando partono le chitarre, una vera goduria https://www.youtube.com/watch?v=j5cf6Rsag4k . A questo punto cosa devo aspettarmi per il terzo brano? Let’s Go Outside, è un bel funky-rock alla Sly & Family Stone o per restare in tempi moderni tipo Vampire Weekend, chitarre choppate e tastiere analogiche si fanno strada tra il notevole lavoro dei vari cantanti prima del breve intermezzo quasi radiofonico della parte centrale, ma con una raffinatezza che è quasi sconosciuta nel pop moderno, e qui si vede lo zampino di Harrison. Song In My Head parte acustica ma poi diventa un boogie-rock degno di una grande jam band quale gli SCI sono, dal vivo dovrebbe fare sfracelli, con tastiere e chitarre pronte a sfidarsi con le evoluzioni vocali del gruppo.

Struggling Angel porta un ulteriore cambio di atmosfere, sembra un brano degli Eagles più country, quelli di Desperado o On The Border, con tanto di armonica. A questo punto cosa dobbiamo aspettarci, i Talking Heads? Partendo dai ritmi caraibici che ricordano certe cose sempre dei Vampire Weekend o del Paul Simon più scanzonato, ma anche un pizzico di Jimmy Buffett e un giro di basso irresistibile, Can’t Wait Another Day ci porta da quelle parti, ma ci arriviamo lentamente e nella successiva Rosie, che potrebbe uscire indifferentemente da Fear of Music (I Zimbra) dei Talking Heads o da qualche ritmo afro alla Fela Kuti, con densi strati di tastiere e percussioni https://www.youtube.com/watch?v=2gXx50gy8_M . In mezzo c’è So Far From Home, un pezzo rock divertente ma più scontato, non male comunque, con i soliti tocchi country-bluegrass tipici del loro stile, ideali per le improvvisazioni dal vivo, ma organo e chitarra “viaggiano” anche nella versione in studio https://www.youtube.com/watch?v=Xl5FTMmCMrg . Stay Through, una collaborazione tra Chang e Jim Lauderdale (?), con il suo groove tra reggae e R&B mi convince meno, un po’ buttata lì, più Tom Tom Club che Talking Heads, non particolarmente memorabile anche se sempre ben suonata. Conclude la lunga Colliding, un’altra sferzata di rock ad alta densità percussiva, con tastiere, anche synth e chitarre molto trattate che aggiungono un tocco di modernità alle procedure del disco di studio, senza cedere troppo ad un suono commerciale. Nell’insieme piace, anche se non si può gridare al capolavoro, ma secondo me un bel 7 in pagella, e non in condotta, se lo merita. E il 24 giugno esce Fuego, il nuovo album di studio dei Phish!

Bruno Conti

Meglio Di Quanto Ricordassi! Gary Moore – Back On The Streets Ristampa Potenziata

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Gary Moore – Back On The Streets – Universal 24-09-2013 UK 1-10-2013 ITA

Sono passati all’incirca due anni  e mezzo dalla morte di Gary Moore, avvenuta nel febbraio del 2011, e dopo la pubblicazione, soprattutto di materiale dal vivo inedito, da parte della Eagle/Edel che era l’ultima etichetta dell’artista irlandese, ora anche la Universal comincia a ristampare i vecchi dischi del chitarrista. E lo fa partendo proprio dal primo disco solista di Moore (se non contiamo Grinding Stone che era uscito nel 1973 come Gary Moore Band, disco interlocutorio ma non malvagio, dopo gli anni con gli Skid Row, non quelli “terribili” americani, ovviamente): il disco, pubblicato in origine nel 1978 dalla MCA, risentito oggi, a parere di chi scrive, non è per nulla male, anzi, decisamente un buon disco di rock. Rock in tutte le sfaccettature: hard rock, jazz-rock, blues rock, rock melodico e persino punk rock. Con tutta la maestria di Gary, che anche se non sempre viene riconosciuto tra i maestri dello strumento, è comunque un signor chitarrista. Gli anni passati nei Colosseum II e i vari passaggi con i Thin Lizzy del suo grande amico Phil Lynott hanno lasciato un segno più che evidente sullo stile eclettico e forse un po’ frammentario di Back On The Streets. Ma anche se quelli erano gli anni dell’esplosione del punk e della new wave in Gran Bretagna, il rock classico aveva sempre un forte seguito tra gli appassionati e gruppi e solisti non erano irreggimentati in generi a compartimento stagno.

E così nel disco vengono praticamente utilizzate due formazioni: quella jazz-rock dei brani dal 4 al 7, dove a fianco di Moore sono nuovamente Don Airey alle tastiere e John Mole al basso, reduci dall’appena terminata avventura con i Colosseum II e con l’aggiunta di Simon Phillips alla batteria, soprattutto nei tre strumentali, la lunga Flight Of The Snow Moose, Hurricane e What Would You Rather Bee Or A Wasp, che dimostrano che non avevano nulla da invidiare nelle loro evoluzioni a velocità supersonica  a formazioni come i Brand X di Phil Collins o i Gong di Pierre Moerlen, senza risalire a Mahavishnu Orchestra, Return To Forever o Tony Williams Lifetime. Ma c’era tutto un florilegio di chitarristi inglesi in quegli anni, da Allan Holdsworth a Gary Boyle, passando per lo stesso Jeff Beck, che frequentavano questo genere musicale, magari un po’ turgido e iper tecnico che però ha sempre avuto molti seguaci. Ma nel disco c’è anche l’hard poderoso dell’iniziale Back On the Streets, dove Phillips e Airey dimostrano di saperci fare anche in un ambito rock, la chitarra solista raddoppiata di Gary Moore ricorda molto il sound dei Thin Lizzy e il wah-wah innestato nell’assolo è devastante.

Phil Lynott canta e suona il basso, con Brian Downey alla batteria, in una magnifica versione della “sua” Don’t Believe A Word, una delle più belle canzoni scritte dal colored irlandese, anche con il suo repentino cambio di tempo nel finale, grande brano, con la chitarra di Moore che attinge a sonorità mutuate dal suo grande maestro Peter Green! La stessa formazione accelera ulteriormente temi e ritmi, in una frenetica Fanatical Fascists, scritta sempre da Lynott, ma cantata da Gary, che per la veemenza potrebbe ricordare il punk di gruppi come i Clash o gli Stiff Little Fingers che imperavano in quegli anni. In mezzo ai brani jazz rock c’è una strana Song For Donna, una canzone d’amore che illustra anche il lato più dolce della musica di Moore, sempre presente negli anni, con delle ballate spesso melodiche (e scritte con Lynott) come la insinuante Parisienne Walkways, qui cantata da Phil ma che sarebbe diventata un cavallo di battaglia imprescindibile nei concerti di Moore e il suo primo grande successo nelle classifiche inglesi, una via di mezzo tra le melodie di Peter Green e Carlos Santana.

Il brano Track Nine, il primo delle bonus tracks, nonostante il nome, non ha nulla a che vedere con gli esperimenti dei Beatles, ma è sempre un furioso jazz-rock, mentre l’altra bonus, Spanish Guitar, uscita nel 1979 come singolo in Norvegia, appare in ben tre versioni (non c’era altro?), una cantata da Lynott, una da Moore e una strumentale ed è una specie di variazione sul tema francese di Parisienne Walkways, questa volta in “salsa” spagnola e santaneggiante. In definitiva un bel dischetto, considerando anche che esce a prezzo speciale,  per la gioia degli amanti dei chitarristi, ma non solo, un ulteriore tassello nella carriera di Gary Moore, che toccherà i suoi vertici nel periodo Blues!

Esce a fine mese.

Bruno Conti   

“Vecchio” Ma Sempre Nuovo. Ronnie Earl & The Broadcasters – Just For Today

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Ronnie Earl and The Broadcasters – Just For Today – Stony Plain/CRS/Ird

Mi è capitato molte volte, nel corso degli anni, di recensire dischi di Ronnie Earl per il Busca (e per il Blog temp-7c86eb47861bfd87e08cf80efc4797bd.html), e, come dicevo nella recensione del penultimo, Spread The Love e ribadisco per questo Just For Today, se vi dovessi dire qual è il mio album preferito nella sua copiosa discografia, sarei in seria difficoltà e quindi ogni volta, non sbagliando mai, mi limito a citare il più recente. Questo non vuol dire che sono tutti uguali fra loro (beh, un po’ sì, per essere onesti, anche se il livello è sempre medio-alto): d’altronde Earl (un quasi omonimo, tradotto in inglese, di chi scrive) è un virtuoso chitarrista, uno dei migliori, fa del Blues, perlopiù strumentale, è su piazza da oltre un trentennio, prima nei Roomful Of Blues, poi come leader di varie edizioni dei Broadcasters, periodicamente piazza un nuovo CD sul mercato che, immancabilmente, soddisfa la piccola schiera di appassionati del personaggio e del genere, ma non turba i sonni di coloro che non si muovono entro queste ristrette coordinate.

E’ questo è un peccato, perché il musicista merita, escludendo i fans, che una volta appurato che il nostro non abbia fatto un disco di dubstep o tarantelle delle Transilvania (se esistono!) e quindi acquistano in ogni caso i suoi dischi, anche l’appassionato di buona musica un paio di dischi del buon vecchio Ronnie (60 anni quest’anno) li dovrebbe avere nella propria discoteca. Perchè non proprio Just For Love, che tra l’altro è uno dei rari dischi dal vivo registrati nel corso della sua carriera? Gli elementi migliori ci sono sempre, come al solito: tecnica strumentale all’attrezzo (di solito una Fender Telecaster) mostruosa, in bilico tra le folate texane chitarristiche à la Stevie Ray Vaughan di una iniziale tiratissima The Big Train, dove ben sostenuto dall’organo B3 di Dave Limina che gli tira la volata, mostra tutte le sue virtù di solista, ma anche (come direbbe un “nostro amico” politico”, ma è ancora in giro? Quasi quasi gli faccio scrivere la prefazione al Blog, è uno specialista del genere) gli slow blues in crescendo, con finali lancinanti che ti sommergono sotto un diluvio di note e che sono il suo marchio di fabbrica e che molto, secondo me, devono a Roy Buchanan, un altro che come Earl raramente cantava e quando lo faceva era meglio non lo avesse fatto, Blues For Celie è il primo della serie, e si becca la giusta ovazione del pubblico a fine esibizione, pur segnalandovi che il disco è registrato in modo perfetto, non sembra neppure un live, lo capisci solo da applausi e presentazioni a fine brano.

D’altronde Ronnie Earl, per problemi di salute, raramente suona dal vivo, e quando lo fa rimane comunque nei paraggi di casa, nel Massachusetts, Boston e dintorni (ma quest’anno è in tour negli States), oppure invita il pubblico in studio, come per il precedente live del 2007, Hope Radio (anche in DVD). Miracle è un altro di quei brani torrenziali, dove lo spirito del miglior Santana o di Buchanan via Jeff Beck si impadronisce delle mani di questo uomo che è una vera forza della natura con una chitarra in mano. Se ami il genere, ripeto, uno così non ti stanchi mai di ascoltarlo, peraltro lui non è instancabile come Bonamassa che fa quattro o cinque dischi all’anno, quindi è sostenibile anche a livello finanziario, il precedente CD era del 2010. Heart Of Glass( ma anche la finale Pastorale) è un altro di quei brani, lenti e sereni, ricchi di spiritualità, dove Earl esplora il manico della sua chitarra alla ricerca di soluzioni di tecnica e di feeling che ti lasciano sempre basito per l’intensità dei risultati. Rush Hour è uno dei rari shuffle, dedicato al grande Otis Rush, dove Ronnie viene raggiunto sul palco dal secondo chitarrista Nicholas Tabarias per fare pulsare alla grande il suo Blues. Ampio spazio per Dave Limina, questa volta soprattutto al piano, nel travolgente Vernice’s Boogie ma poi è nuovamente tempo di tributi con Blues For Hubert Sumlin, un altro dei grandi, affettuosamente ringraziato anche nelle note del libretto, uno slow di quelli torridi come il nostro sa fare come pochi.

Per la cover di Equinox di John Coltrane oltre allo stile di Carlos Santana i Broadcasters si affidano anche ad un groove latineggiante che fa tanto Santana Band e la solista, ben coadiuvata dall’organo di Limina, cesella note, timbri e volumi con una precisione e una varietà incredibili che sfociano anche in territori tra jazz e blues, come ama fare pure un altro virtuoso della chitarra come Robben Ford. Ain’t Nobody’s Business, un’altra delle cover presenti, faceva parte del repertorio di Billie Holiday e sotto la guida del piano di Limina la band si lancia anche in territori ragtime e poi di nuovo, in tuffo, nel blues. Un altro omaggio Robert Nighthawk Stomp, quasi a tempo di R&R e sono di nuovo le 12 battute di Jukein’ a introdurre l’unico brano cantato dell’album, una fantastica e vibrante I’d Rather Go Blind affidata alla ottima voce di Diane Blue. Forse niente di nuovo, ma non suona mai “vecchio”!  

Esce il 9 Aprile.

Bruno Conti

Forse Non Più Un “Innovatore”, Sicuramente Ancora Un Grande Musicista (E Che Gruppo)! John McLaughlin & The 4Th Dimension – Now Here This

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John McLaughlin & The 4Th Dimension – Now Here This – Abstract Logix/Ird

Era da qualche tempo che non seguivo più con attenzione le evoluzioni della musica di John McLaughlin, anche se nell’ultima decade il musicista inglese stava vivendo una sorta di seconda giovinezza musicale, ma sicuramente il suo momento di maggiore splendore lo ha vissuto a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, prima con la collaborazione in due dischi che hanno visto la nascita del Miles Davis “elettrico” (in A Silent Way e ancora di più Bitches Brew), tanto da meritarsi anche un brano a proprio nome, e poi con la fondazione della Mahavishnu Orchestra, uno straordinario gruppo che per primo ha affrontato quello stile musicale che allora fu definito Jazz-rock e poi, con connotati più “morbidi” e funky, meno furiosi sarebbe diventata fusion. Ma McLaughlin, già da prima aveva esplorato le connessioni tra jazz, rock e blues, in una formazione come la Graham Bond Organization, dove con lui suonava gente come Jack Bruce, Ginger Baker e Dick Heckstall-Smith e lì imparava l’arte della improvvisazione strumentale jazz applicata ad una musica con molti agganci al rock classico.

I primi dischi della Mahavishnu Orchestra, Inner Mountain Flame, Birds Of Fire e il Live, erano suonati con una ferocia e una carica che allora avevano solo le prime formazioni di hard rock, ma con una perizia strumentale quasi senza uguali, se non nei migliori musicisti dell’epoca: Hendrix fu sicuramente una influenza su McLaughlin, come anche il Tony Williams Lifetime, in cui peraltro militò (e nel quale, anni dopo, fu sostituito da Allan Holdsworth). Ma nella formazione della Mahavishnu c’erano altri musicisti formidabili, a partire da Billy Cobham, che era una sorta di piovra umana della batteria, con mani ovunque che si muovevano freneticamente sul suo strumento (e che con Spectrum, di lì a poco, avrebbe realizzato una creatura simile ma più spostata verso il rock), o un tastierista come Jan Hammer, fra i primi ad usare strumenti elettrici ed elettronici in un ambito jazz e con sonorità rock, e poi compagno di avventura di Jeff Beck, un altro che ha preso una bella sbandata per il genere, che continua a tutt’oggi. Al violino, un virtuoso dello strumento elettrico, Jerry Goodman, proveniente da un gruppo quasi psichedelico come i Flock. Il più “scarso” fra loro, ma è un eufemismo, era il bassista Rick Laird, diciamo che era il meno incline al virtuosismo del gruppo.

Dopo questa lunga introduzione, saltiamo (non perché non sia valido, ma per motivi di spazio) di sana pianta tutta la carriera successiva di John McLaughlin, la collaborazione mistica con Santana (tutti e due vestiti di bianco, come due pirla), la seconda versione della Mahavishnu con Jean-Luc Ponty e il batterista (Narada) Michael Walden, il periodo “orientale” con gli Shakti, le collaborazioni in trio acustico con Paco De Lucia e il suo epigono (nella fase elettrica) Al Di Meola e poi tutto quello che è venuto dopo, dagli anni ’80 fino a questi The 4Th Dimension, che sono nuovamente un gruppo di musicisti straordinari a livello tecnico e  che hanno ridato alla musica del chitarrista quel drive sonoro che si era un po’ smarrito in una serie di album sempre validi, ma abbastanza blandi e ripetitivi ( a questi livelli comunque elevati, ovviamente). Now here this, a livello innovativo non porta nulla di nuovo, ma è suonato un gran bene, e gli amanti del genere avranno modo di apprezzare le evoluzioni sonore di tutti i componenti del gruppo.

Dai duelli, a mille all’ora, tra la chitarra di McLaughlin e la batteria dell’indiano Ranjit Baron (uno che non ha nulla da invidiare al miglior Billy Cobham), nell’iniziale Trancefusion, dove si cominciano ad apprezzare anche il piano elettrico di Gary Husband (collaboratore di Allan Holdsworth e mille altri), e il basso vorticoso del camerunense Etienne M’Bappé che al basso elettrico e fretless è una sorta di incrocio tra Jaco Pastorius e Stanley Clarke, un altro mostro di bravura. Parlando proprio di “mille” e oltre, la tanto da me vituperata AllMusic Guide, riporta 1245 collaborazioni di McLaughlin nel corso della sua carriera pluridecennale (qualcuna “ciccata” come al solito, perché mi sembra improbabile che nel 1954 abbia suonato con Stan Getz, a 12 anni e anche con i Platters?!?), mentre con le sorelle Labeque sì, anche perché una delle due è stata sua moglie. Nell’altrettanto potente groove di Riff Raff, dove l’interplay tra il basso funky di M’Bappé e la batteria di Baron si avvicina alla stratosfera del ritmo, Gary Husband utilizza un synth spaziale che ricorda le sonorità futuristiche di Jan Hammer e riaccende la vecchia fiamma della improvvisazione più feroce, in un McLaughlin che non sentivo così ispirato nei suoi assoli da lunga pezza. Addirittura in Echoes From Then sfodera delle timbriche di chiara derivazione rock, con una chitarra dal suono duro e grintoso che ha poco del tocco raffinato dei solisti jazz, mentre tutti gli altri strumentisti lo attizzano di gusto, con le sinuose linee di basso dell’africano e l’intricatissimo lavoro della batteria dell’indiano, per non parlare delle tastiere, veramente bravi. 

Dopo un terzetto di brani quasi ail limiti della frenesia, Wonderfall si appoggia al piano acustico di Husband e al basso fretless di M’Bappé per un approccio più lirico, rilassato, quasi morbido, mentre Call And Answer giostra attorno ad un prodigioso assolo di basso che ricorda i virtuosismi indimenticabili del miglior Jaco e McLaughlin e Husband si scambiano assoli degni di quelli della coppia Beck e Hammer. Not here, not there è l’altro brano tranquillo, un mid-tempo sognante, dalle scansioni tra soul e derive quasi pop, con un lungo assolo molto lirico e melodico, inconsueto per McLaughlin, forse l’unico pezzo che potremmo definire “fusion”. Guitar Love, ancora rockeggiante, con M’Bappé che suona il suo basso con i guanti (inteso in senso letterale, se guardate la foto interna il musicista suona con un paio di guanti) e McLaughlin che improvvisa lunghe sequenze di note con la sua chitarra e Baron si sfoga dei suoi patimenti per le collaborazioni bollywodiane con A.R. Rhaman, con delle serie di scariche di batteria che faranno godere i patiti dello strumento, mentre nella parte conclusiva Husband rilascia un bel assolo di organo. Nella conclusiva Take It Or leave it, c’è una commistione tra atmosfere indiane e il basso funky slappato (mancava!), mentre le tastiere avvolgono il sound di questo brano, il più breve dell’album, sotto i 4 minuti.

Bello, non pensavo, “after all these years” e a 70 anni suonati, Mister John McLaughlin è ancora un signor musicista, e con un fior di gruppo! Per appassionati del genere, ma anche per amanti del virtuosismo non fine a sé stesso, per ascoltare qualcosa di diverso.

Bruno Conti

Un Chitarrista Che “Fa L’Indiano”! Indigenous Featuring Mato Nanii.

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Indigenous Featuring Mato Nanji – Blues Bureau International/Shrapnel

Mato Nanji, più che “fare l’indiano” lo è proprio, pellerossa naturalmente, della tribù Sioux dei Lakota e vive ancora nella riserva del South Dakota, che fa anche rima. Il gruppo, all’origine, seconda metà anni ’90, era nato come un affare di famiglia, un fratello, una sorella e il cugino, tutti appassionati di Blues, passione nata sui dischi di B.B. King e Buddy Guy che portava a casa il babbo, grande appassionato del genere. Poi, Mato soprattutto, ha integrato questo sentimento con l’amore per chitarristi come Hendrix, Santana e soprattutto Stevie Ray Vaughan. E fino al 2006 tutto è andato bene, con una nutrita serie di album di poderoso rock-blues pubblicati per diverse etichette. A quel punto il resto della famiglia ha deciso di andarsene e Mato Nanji ha sciolto la band pubblicando un album da solista e poi nel 2010 ha ripristinato la vecchia ragione sociale per un album Acoustic Sessions, in compagnia della moglie Leah, che non (mi) aveva entusiasmato, come riportato su queste pagine virtuali indigenous-acoustic-sessions.html. Non un disco brutto, diciamo di transizione (come si dice quando non si vuole essere cattivi). Ora, sempre utilizzando il nome del gruppo, ritornano gli Indigenous con un disco che promette bene già dal sottotitolo, “All Electrified Guitar Made in Usa”, che vede a fianco del rientrante cugino American Horse alle percussioni, una solida band che sostiene la fiammeggiante e tiratissima Fender del leader, la classica line-up, basso, batteria e organo. Se aggiungiamo che la (co)produzione è affidata a quel Mike Varney, boss della Blues Bureau Int./Shrapnel che di dischi di chitarra se ne intende, direi che la missione è compiuta.

Come ciliegina sulla torta e eccellente brano di apertura, c’è anche un duetto con un altro che di rock-blues e di chitarre se ne intende, Jonny Lang (hanno fatto parte entrambi dell’Experience Tour, dedicato a Hendrix): Free Yourself, Free Your Mind è un perfetto esempio di quell’hard blues ricco di soul che entrambi frequentano da tempo, con le due chitarre e le voci che si intrecciano con perfetto tempismo, l’inizio non poteva essere migliore, grande apertura. Ma anche il resto non scherza, il disco ha quel feeling da concerto dal vivo con la chitarra di Mato Nanji libera di improvvisare ma nello stesso tempo con un bel suono da disco di studio ben prodotto, sentire Everywhere I Go che permette di apprezzare anche la bella voce del leader, finalmente un chitarrista con una voce rauca e potente, una rarità nel genere. Jealousy si getta nel Texas Blues alla Stevie Ray Vaughan, poderoso e ad alta tensione chitarristica con la solista che viaggia che è un piacere. Someone Like You con le percussioni in primo piano, ondeggia tra Santana e ZZtop, boogie latino. I Was Wrong To Leave You con l’organo a sostenere la solista di Mato è uno slow blues atmosferico tra Stevie Ray e Jimi mentre No Matter What It Takes si basa proprio su un riff hendrixiano e tempi più rock.

Anche Storm, grazie alle sue percussioni impazzite che sostengono basso e batteria in libera uscita, è uno strumentale di stampo Santaniano con il wah-wah di Nanji che raggiunge vette di virtuosismo notevoli. Find My Way rallenta i tempi ma non il fervore vocale e chitarristico. All Those Lies dimostra una volta di più che il nostro ha perfettamente fatto suo lo stile alla Vaughan, non un clone ma un ottimo discepolo ( e quindi di rimessa del grande Jimi). E infatti The way I feel è più vicino a quest’ultimo. Wake Up è una bella slow ballad ricca di melodia con percussioni e organo ancora una volta a sostenere il tessuto della canzone, a dimostrazione che anche i rockers hanno un’anima gentile (ma dalla scorza dura). By My Side è un rock-blues come potrebbero farlo i Los Lobos quando si avvicinano a tempi più bluesati e la conclusione è affidata a una torrida When Tomorrow Comes, forse la migliore del lotto, un altro slow tirato e ad alta gradazione con la chitarra che una volta di più fa i numeri e che conclude bene come era partita questa nuova fatica degli Indigenous. Powerful rock-blues. Ben tornati!

Bruno Conti   

Chitarristi A Go-Go! Santana, Sonny Landreth, Joe Bonamassa, John Mayer, Tedeschi-Trucks Band

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Per una strana congiunzione delle lune stanno per uscire o sono usciti una serie di album di alcuni dei migliori chitarristi, “antichi e moderni”, attualmente in circolazione; di Joe Bonamassa che uscirà il prossimo 22 maggio vi ho già riferito con un Post ad hoc in anteprima: finalmente-ma-quando-dorme-joe-bonamassa-driving-towards-the.html. Anche degli altri ho intenzione di occuparmi (mi è venuto un po’ minaccioso!), ma per il momento:

Santana Shape Shifter Starfaith Records/Sony Music

E’ il miglior disco di Carlos Santana degli ultimi 20 anni, che stando allo sticker sul CD è più o meno il tempo che ci ha messo a farlo. Si tratta di un disco strumentale, niente ospiti presi a casaccio dai generi più disparati, non sarà un capolavoro ma è un piacere ascoltare di nuovo uno dei migliori chitarristi in circolazione che lascia correre le mani sulle corde del suo strumento. Ogni tanto c’è un po’ di melassa in eccesso, come in Never The Same Again scritta con Eric Bazilian o In The Light Of A New Day firmata con Narada Michael Walden, ma i “lentoni” sono uno dei suoi marchi di fabbrica dai tempi di Samba Pa Ti, Song Of The Wind o Europa, meglio questi brani che improbabili duetti con Jacoby Shaddix, Nas, Will.i.am, Sean Paul, Musiq, i P.o.d., Placido Domingo e metallari assortiti, ma potrei continuare all’infinito. Al momento sto approfondendo l’ascolto, poi vi faccio sapere. Mi sono girato e rigirato il libretto ma non c’è il nome di un musicista indicato, neanche a pagarlo: presumo che tra i musicisti ci sia la nuova moglie, Cindy Blackman, ottima batterista anche, l’unica ringraziata, forse Chester Thompson, Karl Perazzo e il figlio Salvador Santana che firmano dei brani con Carlos. Sicuramente c’è un brano, Mr.Szabo dedicato al grande chitarrista jazz di origini ungheresi Gabor Szabo, che era l’autore di Gypsy Queen il famoso brano in medley con Black Magic Woman su Abraxas e per l’occasione Santana ci regala una inconsueta performance all’acustica. Basta, basta, proseguo nell’ascolto, tanto volendo lo trovate già nei negozi, fisici e virtuali. Per essere onesti c’è un brano cantato Eres la luz, un flamencone alla Gypsy Kings, mmmhh!

Rigorosamente tutto strumentale è il nuovo album di Sonny Landreth Elemental Journey, in teoria in uscita il 29 maggio per casa Proper ma già giunto sulle nostre lande per la distribuzione IRD. Anche in questo non è una grandissima perdita la mancanza della voce perché il buon Sonny non è un cantante memorabile per usare un eufemismo ma si poteva cercare un cantante adeguato, che so un John Hiatt. Ma basta fantasticare! Nel disco ci sono tre ospiti: due colleghi chitarristi, Joe Satriani, nell’iniziale pirotecnica Gaia Tribe e il grande e misconosciuto (ma non dagli appassionati della chitarra) Eric Johnson che aggiunge la sua chitarra alla slide di Landreth nella lirica Passionola. C’è anche il percussionista Robert Greenidge con le sue steel drums nella Caraibica Forgotten Story. Il disco abbandona quasi del tutto il blues e il cajun misti al rock dello stile abituale per spostarsi verso un sound molto anni ’70 che ricorda oltre ai due citati Satriani e Johnson, gente come Steve Morse o anche qualcuno ha citato Ritchie Blackmore e Ronnie Montrose. La slide non manca mai, in cinque brani c’è anche una sezione archi e anche in questo caso,a un primo ascolto, ottimo per gli appassionati di chitarrra.

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John Mayer, Eric Clapton non manca mai di portarlo al suo Crossroads Guitar Festival, e il “giovine” (va beh, 35 anni) è un buon chitarrista come ha evidenziato soprattutto negli ottimi album Live con il suo Trio dove al basso c’era Pino Palladino e alla batteria Steve Jordan, meno nei 4 precedenti album di studio. Questo Born And Raised evidenzia uno spostamento verso sonorità più morbide e californiane, con la produzione di Don Was e la partecipazione di Crosby & Nash nella title-track, è forse il suo migliore album in assoluto. Non guasta la presenza di Chuck Leavell tastiere (orfano degli Stones) e di Jim Keltner alla batteria. Eichetta Sony, nei negozi da martedì 22 maggio.

Stessa etichetta per il doppio Everybody’s Talkin’ Tedeschi Trucks Band Live ma siamo a ben altri livelli. Un disco stupendo, due chitarristi e una cantante fantastica, undici elementi sul palco per un disco che ci riporta al grande rock degli anni ’70. Revelator era un buon disco di studio e ha vinto il Grammy come miglior disco Blues, ma qui siamo in “paradiso”: sono “solo” undici brani, ma ne troviamo due attorno ai 5 minuti, compresa la stupenda title-track, cover del brano della colonna sonora dell’Uomo Da Marciapede, per il resto, sei brani intorno ed oltre i 10 minuti e uno che supera i 15, ma niente paura, la noia è lontanissima. Qui sono in dirittura d’ascolto negli ascolti, quindi domani o dopo recensione completa. Anche questo esce martedì prossimo.

Bruno Conti

Novità Di Febbraio Parte II. Anais Mitchell, Amos Lee, Punch Brothers, Simple Minds, Santana, Drew Nelson, Peter Hammill E… Purtroppo, Whitney Houston

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Anche questa settimana molte uscite discografiche ( o meglio la prossima), per cui senza indugio partiamo e anche questa volta il tutto diviso in due parti…

Esce il più volte annunciato e recensito nuovo album di Anais Mitchell, si chiama Young Man In America nei negozi da martedì prossimo 14 febbraio per la Wilderland Records/Audioglobe e se ne parla, appunto, un gran bene. Partecipano, tra gli altri, Todd Sickafoose che suona il contrabbasso e produce, Chris Thile al mandolino, Andrew Borger alla batteria e collaboratore di Norah Jones e Tom Waits, il chitarrista Adam Levy, anche lui collaboratore di Norah Jones e Tracy Chapman, Brandon Seabrook a banjo e chitarra, ma tra gli strumenti impiegati ci sono anche violino, fisarmonica, organo e fiati, quindi lo spettro sonoro è abbastanza ampio. Lei non ha una voce straordinaria ma molto espressiva ed è pure una grande autrice, ovvero scrive delle ottime canzoni. Vedremo se sarà bello come l’eccellente Hadestown.

As The Crow Flies di Amos Lee è un mini CD o EP se preferite, con sei brani realizzati per il precedente Mission Bell e non utilizzati. L’etichetta è sempre la Blue Note, produce Joey Burns dei Calexico e partecipa anche il batterista John Convertino dello stesso gruppo. Il disco dello scorso anno mi era piaciuto parecchio e quindi fido che anche questo sia il suo giusto compendio.

I Punch Brothers sono uno dei gruppi migliori del nuovo Bluegrass americano ( e sono, curiosamente, l’opening act del tour europeo di Amos Lee) e Who’s Feeling Young Now è il loro terzo album per la Nonesuch Records, produce Jacquire King reduce dalle collaborazioni, tra i tanti, con King Of Leon, Modest Mouse, Tom Waits e Josh Ritter. Il leader, ex Nickel Creek, è quel Chris Thile appena citato per l’album di Anais Mitchell.

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Si riparte alla grande con i cofanetti ( e a fine mese è atteso The Wall che conclude la trilogia delle ristampe dedicata ai Pink Floyd). Tra poco i Simple Minds partiranno con un tour dove riprodurranno integralmente i loro primi 5 album che però, come sapete, sono 6:

Disc 1: Life in a Day
Disc 2: Real to Real Cacophony
Disc 3: Empires and Dance
Disc 4: Sons and Fascination
Disc 5: Sister Feelings Call
Disc 6: New Gold Dream

La Virgin pubblica (una settimana prima che in Inghilterra) questo cofanetto sestuplo che si chiama X5 dove oltre agli album originali ci sono b-sides, extended versions, demos e brani dal vivo per rendere più gustoso il piatto.

La Cleopatra Records si sta costruendo una buona reputazione per una serie di novità e ripubblicazioni tra le quali spicca l’ottimo cofanetto quadruplo dei Quicksilver Messenger Service. I Box si chiamano sempre Anthology e anche questo dei Santana non sfugge alla regola ma poi non sono delle raccolte, si tratta di materiale molto raro e inedito (a parte i Bootleg). Questo nuovo album, sottotitolato 68-69 The Early San Francisco Years raccoglie materiale precedente al loro primo omonimo disco per la Columbia e contiene il seguente materiale:

DISC 1: LATIN GROOVES
1. Evil Ways (Live)
2. Soul Sacrifice
3. Jingo (Jin-Go-Lo-Ba)
4. Fried Neckbones And Some Homefries
5. Latin Tropical
6. El Corazon Manda
7. Acapulco Sunrise
8. Coconut Grove
9. Hot Tamales

DISC 2: SANTANA BLUES
1. With A Little Help From My Friends
2. Every Day I Have The Blues
3. Persuasion
4. As The Years Go By
5. Travelin Blues
6. Let’s Get Ourselves Together
7. Just Ain’t Good Enough (Live)
8. The Way You Do To Me (Live)
9. Rock Me (Live)

DISC 3: IMPROVISATIONAL JAMS
1. Santana Jam
2. Jam In G Minor
3. Jammin’ Home
4. Jam In E
5. Funky Piano (Live)
6. Santana Jam (Live)

Diciamo che i prodotti della etichetta americana non sono facilissimi da reperire in Italia, ma si trovano!

Dopo il doppio Piano, Guitar, Vox aggiungendo un Box al titolo, otteniamo un cofanetto di 7 CD con 84 brani sempre ad opera di Peter Hammill. Sempre registrato nel tour tra Giappone e Regno Unito ed edito dalla Fie Records la “fregatura” sta nel fatto che contiene anche i due dischi già editi a parte e che uscendo in una costosa e limitata tiratura di 2000 copie non sarà facile da recuperare.

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Ufficialmente escono entrambi martedì 14 febbraio per la Red House ma in effetti la IRD li ha già distribuiti in Italia negli scorsi giorni. Il primo è il nuovo disco di Drew Nelson, un cantauore del Michigan già in pista da alcuni anni e di cui bellamente ignoravo l’esistenza, ma non si può seguire tutto. Questo nuovo Tilt-A-Whirl, dopo la partecipazione a Dark River, lo proietta su tematiche roots tra Springsteen e Steve Earle. Il primo brano, addirittura, Promised Land, già dal titolo, ma anche musicalmente, mi è sembrata una outtake da The Wild, The Innocent and The E Street Shuffle. Ovviamente ci si ritorna, approfondendo, nei prossimi giorni.

Anche Little Blue Egg, con la sua bellissima copertina, esce in questi per la Red House, ma si tratta di materiale registrato ad inizio anni 2000 in quanto Dave Carter, uno dei due titolari del disco con Tracy Grammer, è in effetti scomparso nel 2002. Ma la sua “socia” sta gestendo il materiale d’archivio lasciato dal compagno di avventura e che tra il 1997 e il 2002 ha scritto brani eseguiti da Joan Baez, Mary Chapin Carpenter, Chris Smither e Lucy Kaplansky. Si tratta di musica acustica, di origine folk ma con elementi di Americana e un raro spessore qualitativo. La rivista specializzata americana Dirty Linen ha detto che “In ogni universo razionale, Carter and Grammer verrebbero citati negli stessi termini di John Lennon e Bob Dylan”. Forse è una iperbole, ma sono sicuramente bravi.

Per finire questa “puntata” vi ricordo il nuovo album dei Winterpills, si chiama All My Lovely Goners è il loro quinto (compreso un EP), edito dalla Signature Records. Tra indie-rock, rock classico e pop di squisita fattura, con intrecci vocali morbidi tra le voci di Philip Price e Flora Reed. Anche se sono di Northamptom, Massachussets il suono è quello tipico della California anni ’70 che sta tornando in grande auge di questi tempi.

A domani per le altre uscite.

Bruno Conti

P.S. Mentre scrivevo questo Post ho letto della morte di Whitney Houston e anche se musicalmente non è sulla lunghezza d’onda di questo Blog non posso negare che si sia trattato di un grande talento vocale, non per nulla era la figlia di Cissy Houston (quella delle Sweet Inspirations che cantavano con Ray Charles e Aretha Franklin, che era la sua madrina) e anche la cugina di Dionne e Dee Dee Warwick, quindi la musica scorreva nelle sue vene.

Purtroppo, negli ultimi anni, in quelle stesse vene erano scorse molte sostanze sospette e pericolose e anche se si era sottoposta a parecchie cure disintossicanti le circostanze della sua morte, avvenuta in un albergo di Beverly Hills, a poche ore dalla cerimonia dei Grammy a cui doveva partecipare, lasciano credere che evidentemente non era uscita dal tunnel. Aveva 48 anni e nella sua carriera aveva ottenuto 415 premi e aveva venduto più di 170 milioni di copie di dischi ed era nota in tutto il mondo per la sua partecipazione al film The Bodyguard, il cui singolo I Will Always Love You detiene tuttora il record di singolo più venduto nella storia da una artista femminile. Un altro record che le appartiene, curiosamente, è quello del disco gospel più di successo di tutti i tempi (con grande gioia della mamma), The Preacher’s Wife, che è anche il suo disco, forse, qualitativamente migliore, secondo chi scrive. Ma i gusti sono personali ed opinabili, quindi…

Riposa In Pace anche tu Whitney Elizabeth Houston, 9 agosto 1963 -11 febbraio 2012. Un vero peccato ancora una volta!

Sempre In Pista Nonostante Gli Anni Che Passano! Fairport Convention -Babbacombe Lee Live & By Popular Request

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Oggi una breve noticina veloce che è una sorta di anticipazione di prossime recensioni a venire. Questa mattina parlando con Marco Verdi si diceva della uscita di due nuovi CD dei Fairport Convention che vedete sopra, venduti solo sul loro sito e usciti dopo Festival Bell. Visto che su questo Blog si parla “obbligatoriamente” di tutto ciò che è Fairport, in qualita di Editore, Factotum e Dittatore  gli ho commissionato le due recensioni in questione che leggerete a breve (così impara a parlarne!). L’altro collaboratore del Blog, Tino Montanari, sta preparando quella del nuovo Bap Kennedy e chi scrive domani vi allieterà con la seconda serie di uscite di questo febbraio 2012 (tra cui un gustoso cofanetto dedicato ai Santana).

A domani.

Bruno Conti

Un Nome Bizzarro Per Un Grande Gruppo Anni ’70! Be-Bop DeLuxe – Futurist Manifesto 1974-1978 The Harvest Years

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Be-Bop DeLuxe – Futurist Manifesto 1974-1978 The Harvest Years – 5CD – EMI Catalogue/Harvest

Nella stessa benemerita serie di cofanetti di ristampe della EMI Inglese dove sono usciti i Box di Frankie Miller, Hawkwind, Barclay James Harvest e  molti altri di cui vi ho parlato in queste pagine virtuali, è stato pubblicato di recente (un mesetto fa) anche questo Futurist Manifesto dedicato ai Be-Bop DeLuxe, la creatura di Bill Nelson, uno dei gruppi più sottovalutati del rock inglese anni ’70 e questa raccolta potrebbe essere l’occasione per colmare una lacuna nelle vostre discoteche e nei vostri ascolti (la categoria della recensione è “carbonari” non a caso)!

Nati nel 1972 sono stati inseriti nel filone glam rock, ma quello del miglior Bowie se proprio vogliamo paragonarli al Duca Bianco, anche se Nelson ha sempre respinto questo accostamento, poi sono stati citati Roxy Music, King Crimson, Van Der Graaf, Pink Floyd, Frank Zappa e un po’ di tutti questi elementi effettivamente confluiscono nella musica del gruppo. Ma se dovessi indicare un genere direi rock, puro e semplice, con tutte quelle influenze ma è proprio rock, anzi rock chitarristico, perchè Bill Nelson è uno dei grandi “guitar heroes”  misconosciuti della musica degli anni ’70, un solista dalla tecnica notevole e con un gusto quasi unico per le sonorità più ricercate e raffinate. E sono stati anche un gruppo di successo in Inghilterra, i loro dischi navigavano spesso nei top 20 delle classiche britanniche di quegli anni e addirittura Live In The Air Age, che vedete indicato a parte perché purtroppo non è contenuto nel box in questione, è salito fino al 10° posto delle British Charts. Non male per un doppio disco dal vivo con il meglio dei loro concerti di quegli anni e pubblicato nel 1978 a termine carriera.

E si tratta di un disco fantastico (il CD uscito rimasterizzato nel 2004 è singolo) che s’ha da avere: una serie di brani dove lo stile “futurista” del gruppo viene sublimato in una serie di assoli di chitarra meravigliosi di Bill Nelson che culminano in una versione di Adventures In A Yorkshire Landscape che si colloca tra le pietre miliari del solismo rock di quegli anni, immaginate una via di mezzo tra un Gilmour meno “psych”ma con qualche spunto Blues che anche il chitarrista dei Pink Floyd ha nei suoi gusti e nel suo DNA, il Santana più melodico e il Peter Green più ricercato ed avrete una vaga idea di cosa aspettarvi. Questo disco non lo trovate nel quintuplo ma si trova a parte a prezzi comunque molto contenuti, per non dire economici.

Anche l’antologia, come le altre della serie, si trova a poco più (o poco meno) di 20 euro ed è una vera cornucopia di sorprese: si parte con il rock più tradizionale di Axe Victim e Futurama per approdare al sound influenzato dalla new wave e ancora dal Bowie berlinese (quello con Fripp & Eno) degli ultimi album Modern Music e Drastic Plastic e della postilla del 1979 Sound On Sound già a nome Bill Nelson’s Red Noise che annuncia la svolta più elettronica della carriera successiva e che non trovate in questo disco.

Rimanendo a questo Futurist Manifesto, oltre a una serie di belle canzoni di grande spessore cantate con voce chiara, vibrante e “gentile, tipicamente inglese, troverete anche molti esempi dello stile chitarristico di Nelson una sorta di Tom Verlaine ante-litteram su questo lato dell’Oceano. Oltre ai cinque album di studio completi nel quinto CD c’è una serie di inediti in studio e soprattutto dal vivo veramente interessanti. E il suono ricavato dalla rimasterizzazione fatta negli Abbey Road Studios nel 2011 è veramente notevole, con qualche eccezione tratta dai remasters effettuati nel 2004 per i singoli album. Sinceramente io (oltre al Live) avevo un Best Of pubblicato una ventina di anni fa, Raiding The Divine Archive, e la differenza nel suono è veramente abissale.

Non male per un gruppo di cui non si ricorda neppure l’esatta grafia del nome, Be Bop o Be-Bop con la lineetta? Dovrebbe essere giusta la seconda grafica ma spesso sulle copertine dei CD si trova senza. Ma sono dettagli, l’importante è la musica che se seguirete il mio “consiglio d’acquisto” vi sorprenderà e anche per già li conosce c’è in ogni caso “trippa per gatti” in questo cofanetto!

E il jazz, nonostante il nome, non c’entra per nulla, forse qualcosa del jazz-rock di quegli anni.

Bruno Conti