Non E’ Solo Fortunata, E’ Proprio Brava! Carter Sampson – Lucky

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Carter Sampson – Lucky – Continental Song City/CRS

Come faceva giustamente notare l’amico Marco Verdi recensendo il precedente album Wilder  https://discoclub.myblog.it/2016/06/11/dallaspetto-fisico-lo-si-direbbe-la-musica-country-pure-bella-carter-sampson-wilder-side/ (e nel frattempo è uscito anche Queen Of Oklahoma & Other Songs, una compilation di canzoni dagli introvabili primi album ed EP), Carter Sampson non ha certamente il phisyque du role della classica cantante country: occhialini e taglio di capelli che le conferiscono l’allure di una cantautrice intellettuale e raffinata, e fin qui potremmo esserci perché due o tre brani che viaggiano su queste coordinate li troviamo in questo Lucky. Per il resto, anche se viene dall’Oklahoma, come ha orgogliosamente ribadito nella canzone che dà il titolo alla raccolta ricordata poc’anzi, il suo suono, comunque con elementi “roots” ed Americana, rimanda più a quello classico di Nashville, anche se dal lato giusto della città, quello abitato da Emmylou Harris e Dolly Parton, ma anche Patsy Cline e il lontano parente Roy Orbison sono stati accostati alla genuina Okie.

Che anche in questo album usa una pattuglia di musicisti provenienti dal suo stato: non riporto i nomi di tutti, ma il co-produttore dell’album, con la stessa Sampson, Jason Scott, opera proprio in Oklahoma, insieme ad altri talenti locali come Kyle Reid, John Calvin Abney, Lauren Barth, Jesse Aycock e Jared Tyler, tutti anche cantautori in proprio (e alcuni di loro li trovate pure nel disco di Levi Parham), e non escluderei la presenza del polistrumentista Travis Linville che aveva prodotto il precedente disco, e tutti costoro dovrebbero coprire la presenza cospicua di chitarre, acustiche, elettriche, ma anche dobro, mandolino, pedal steel che punteggiano questo Lucky, che se privilegia per l’occasione l’uso della canzone uptempo, forse eccelle ancor di più nelle ballate, dove la voce di Carter Sampson assume dei timbri vocali che al sottoscritto tanto hanno ricordato Norah Jones, un’altra che ha sempre frequentato la musica country. Chiunque si voglia ricordare, poi la Sampson ha comunque una propria personalità che la rende una delle migliori portabandiera delle nuove generazioni del fuori Nashville. Il disco, come si diceva, privilegia i tempi mossi ma è appunto nelle ballate che si gusta ancor di più la deliziosa voce della nostra amica: la bellissima Hello Darlin’, scritta da Zac Copeland, dove si canta di malinconie d’amore, da sempre uno dei temi più usati nella migliore country music, una ballata che scivola voluttuosa su una magnifica ed avvolgente pedal steel, con tocchi di mandolino e piano, delicate chitarre acustiche e la voce sognante ed evocativa di Carter che tanto rimanda alla più languida e trasognata Norah Jones, un piccolo gioiellino.

E anche la cover conclusiva della classica Queen Of The Silver Dollar di Shel Silverstein, che ricordiamo in una bellissima versione di Emmylou Harris su Pieces Of The Sky, è una vera leccornia di sapori e languori country, tra pedal steel e piano la voce quasi galleggia sulle onde della musica. Ma anche quando i ritmi sono più serrati, ad esempio nel trittico iniziale, tutto a firma Carter Sampson, non si può fare a meno di apprezzarne il talento e la voce, sempre espressiva e incalzante, come nella title track che viaggia sulle ali di chitarre elettriche e dobro, con un corposo contrabbasso in evidenza, o su Anything Else che dopo una partenza attendista si assesta su un mid-tempo invitante, o sul train time  della incantevole Peaches, scritta con Scott. Ten Penny Nail, di nuovo firmata con Jason, è più bluesy ed intricata, mentre All I Got è una sorta di country got soul da cantautrice classica e Tulsa, scritta da Kalyn Fay, una specie di gloria locale, è un’altra splendida ballata mid-tempo di puro stampo country, con un’armonica e l’organo che fanno capolino nella ricca strumentazione. Di fattura squisita pure Wild Ride, di nuovo con la voce in splendida evidenza e notevole anche Rattlesnake Kate dove il dobro tratteggia con puntualità una ennesima canzone dove si apprezzano i talenti vocali e compositivi della bravissima Carter Sampson. Se passa di nuovo dalle nostre parti nelle lande italiche non mancate all’appuntamento, nel frattempo gustiamoci questo ottimo album.

Bruno Conti

Adesso E’ Giunta L’Ora Di Scrivere Un Po’ Per Sé Stessi! James LeBlanc – Nature Of The Beast

james leblanc nature of the beast

James LeBlanc – Nature Of The Beast – Dreamlined/Red CD

James LeBlanc, oltre ad essere il padre di Dylan LeBlanc (un giovane e promettente musicista che ha già qualche disco all’attivo http://discoclub.myblog.it/2010/08/24/giovani-virgulti-crescono-1-dylan-leblanc-paupers-field/ ) è anche un affermato autore per conto terzi, avendo scritto diverse canzoni per nomi di punta a Nashville come Jason Aldean, Martina McBride, Gary Allan e Travis Tritt (il cui successo da Top Ten Modern Day Bonnie & Clyde porta proprio la firma di LeBlanc). Originario di Shreveport, Louisiana, James ha anche un album al suo attivo, Muscle Shoals City Limits (2003), ma in generale ha sempre preferito restare nelle retrovie e sbarcare il lunario con il remunerativo lavoro di songwriter su commissione. Ora però ha finalmente deciso di mettere fuori la testa e dare un seguito al suo ormai lontano primo album, ed il risultato finale è talmente riuscito che mi chiedo perché avesse aspettato così tanto. Nature Of The Beast, nel quale LeBlanc raccoglie alcune canzoni da lui scritte ma tenute nei cassetti, non sembra infatti il lavoro di uno che non ha quasi mai inciso a suo nome, ma bensì è il prodotto di anni di esperienza come songwriter e di frequentazioni di musicisti più o meno noti e di studi di registrazione dove si respira aria di leggenda (per esempio era di casa ai Muscle Shoals Studios, dove ha inciso il primo disco, mentre questo è stato registrato a Sheffield, sempre in Alabama).

Nature Of The Beast non è un disco country, almeno non come uno si potrebbe aspettare: il country c’è, ma è usato quasi da sfondo alle ballate profonde del nostro, canzoni lente, meditate ma piene di feeling e mai noiose. Un tipico disco da cantautore, più che da countryman, registrato con la produzione di Jimmy Nutt (che come ingegnere del suono ha lavorato anche con Jimmy Buffett e Jason Isbell) e vede in studio con lui un numero di musicisti non estesissimo ma di alto livello, tra i quali il figlio Dylan ed il grande bassista della gang di Muscle Shoals David Hood. Il disco inizia con la title track, lenta, crepuscolare, con la chitarra arpeggiata e la voce profonda di James ad intonare un motivo intenso, drammatico e di grande pathos: prendete le cose migliori di Calvin Russell, levategli un po’ di polvere texana ed avrete un’idea. Mean Right Hand è un brano full band, ma anche qui l’accompagnamento è discreto, nelle retrovie, in modo da mettere in primo piano la melodia e la voce, una bella canzone con agganci anche allo Springsteen di Tom Joad; My Middle Name è ancora lenta, ma la batteria scandisce il tempo in maniera netta e c’è una chitarra elettrica che ricama alle spalle del leader, un altro pezzo di buona intensità, da cantautore più rock che country. Yankee Bank è più ricca dal punto di vista strumentale, è sempre una ballata ma con maggiore energia ed un bell’intreccio di chitarra, steel ed organo, oltre ad un motivo di prima qualità.

LeBlanc si conferma un songwriter di vaglia, ma dimostra di essere anche un performer di livello. Bottom Of This è una country song, sempre lenta e malinconica, ma dallo script solidissimo ed ottimo lavoro di piano e steel, Answers (scritta dal figlio Dylan) dà una scossa al disco, il ritmo è più sostenuto e la chitarra elettrica è in primo piano, oltre ad un refrain che prende all’istante, mentre I Ain’t Easy To Love è un altro brano spoglio ma di grande carattere, e qui l’arma in più è la seconda voce femminile di Angela Hacker, fidanzata di James ed artista per conto suo. Una splendida steel (Wayne Bridge) ci introduce alla lenta Nothing But Smoke, dove LeBlanc ha sicuramente fatto tesoro della lezione di Willie Nelson: l’ennesimo slow, ma la noia è bandita; bella anche Anchor, distesa, fluida e con la solita melodia di prim’ordine, tra le migliori del CD, mentre 4885 inizialmente vede il nostro in quasi totale solitudine, poi dalla seconda strofa entra il resto della band, anche se James se la cavava comunque anche con pochi strumenti attorno. L’album si chiude con la vibrante Coming Of Age, più mossa ma sempre senza andare sopra le righe, e con la deliziosa cover di Beans, un vecchio brano di Shel Silverstein che qui è un honky-tonk con arrangiamento di altri tempi ed un bel ritornello corale, un finale in allegria e dunque in decisa controtendenza.

Per quanto mi riguarda James LeBlanc può pure continuare a scrivere per altri, ma se quando incide a suo nome il livello è questo, mi auguro che non faccia passare altri 14 anni prima del prossimo disco.

Marco Verdi

Che Disco! June Tabor & Oysterband – Ragged Kingdom

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June Tabor & Oysterband – Ragged Kingdom – Topic Records

Maestoso, magnifico, meraviglioso, un disco stupendo e mi fermo perché non vorrei esagerare. Dischi così belli nell’ambito folk-rock si facevano solo negli anni ’70 (ma anche in qualsiasi altro tipo di musica è difficile trovare album così completi). Nel 1990 June Tabor e la Oysterband avevano già fatto un altro disco in coppia, Freeedom and rain, che era bello, persino molto bello ma questo nuovo Ragged Kingdom supera ogni aspettativa, un album che compete con classici come Liege and Lief dei Fairport o Below The Salt degli Steeleye Span o Sweet Child dei Pentangle per la profondità dei contenuti, la scelta del materiale, la qualità delle esecuzioni, la strepitosa bravura di June Tabor che è una cantante incredibile (sto iniziando a essere in difficoltà negli aggettivi). La Tabor che quest’anno ha già pubblicato un disco Ashore, bellissimo, che si candidava autorevolmente a disco Folk dell’anno ma questo Ragged Kingdom lo supera.

 

Una delle più riuscite fusioni tra la voce emozionante della Tabor e il sound elettrico ed elettrizzante della Oysterband, tra le migliori band di folk-rock della scena britannica in attività dalla seconda metà degli anni ’70 quando i Fiddler’s Dram che avevano come vocalist Kathy Lesurf si fusero con la Oyster Ceilidh Band che all’inizio era una dance band (nell’ambito folk ovviamente). Più o meno nello stesso periodo June Tabor esordiva con un disco Silly Sisters registrato in coppia con Maddy Prior degli Steeleye Span. Se volete investigare sulle loro carriere separate potete provare uno qualsiasi dei dischi solisti della Tabor (sono quasi tutti belli) oppure il cofanetto quadruplo pubblicato dalla Topic nel 2005, Always. Per la Oyster Band (staccato), potete provare Liberty Hall del 1985 e per la Oysterband (attaccato, ma sono sempre loro) Deserters, oltre che, per entrambi Fredom and Rain.

 

La cosa migliore, per questa unica occasione e se già non frequentate il genere e i personaggi in questione, sarebbe quella di partire dal fondo con questo Ragged Kingdom: sono dodici brani, uno più bello dell’altro, ma con delle punte di qualità che si stagliano su uno standard elevatissimo che gli ha fruttato giudizi da 5 stellette da parte di Mojo, Guardian, BBC e altri e che sono inconsueti abitualmente. 4 stellette vengono date con noncuranza e spesso a sproposito ma cinque sono l’eccellenza assoluta (e in questo caso meritata).

A partire da una rilettura gagliarda dello standard Bonny Bunch Of Roses dove l’andatura incalzante della costruzione musicale della Oysterband stimola la Tabor in una interpretazione profonda e ricca di significati di questo celebre brano che rinasce a nuova vita per l’ennesima volta. E che dire della rilettura di un brano che difficilmente si accosterebbe alla musica popolare inglese (o forse sì?)? That Was My Veil di PJ Harvey si riveste di nuovi sapori con la voce profonda ed evocativa della Tabor che è una delle migliori cantanti della musica inglese, in assoluto, generi a parte. Il primo duetto con la voce storica degli Oysterband, John Jones è un delizioso traditional chiamato Son Of David e le due voci si intrecciano e si completano in un modo quasi magico, con il violino di Ian Telfer che aggiunge ulteriore spessore all’esecuzione.

 

Che si ripete e si amplifica in una rilettura semplicemente “definitiva” di Love Will Tear Us Apart dei Joy Division (un classico dei loro concerti), che diventa un brano acustico, dove la chitarra di Alan Prosser e il cello di Ray Cooper (Chopper per gli amici) accompagnano le voci sublimi di Jones e June Tabor verso vette quasi ineguagliabili. Voci che sono nuovamente protagoniste nella versione accapella di (When I Was no but) Sweet Sixteen, anche questa superba.

Judas (Was a Red-headed Man) dall’andatura decisamente folk-rock classica e If My Love Loves Me, entrambe con il melodeon di John Jones in evidenza, sono “solamente” belle. Un brano di Shel Silverstein The Hills Of Shiloh, che è un piccolo classico delle canzoni americane dedicate alla guerra civile e contro la guerra stessa è noto, tra le tante, per la versione di Judy Collins, ma questa cantata da June Tabor accompagnata solo da una chitarra in pura tradizione folk è veramente emozionante. Fountains Flowing è un’altra canzone tradizionale che si immerge profondamente nella tradizione del miglior folk-rock inglese, sembra una di quelle magnifiche accoppiate di Sandy Denny e Richard Thompson dei tempi d’oro. E anche The Leaves of Life due o tre frecce al suo arco le ha.

Ma sono i due brani conclusivi che ritornano a livelli incredibili, prima una versione particolarissima e superba di Seven Curses di Bob Dylan con il cello di Ray Cooper che si disputa la scena con le voci duettanti di June Tabor e John Jones. E per finire un altro brano tra i più belli della storia della musica americana, The Dark End Of The Street che dalla versione originale (e inarrivabile) di uno dei maestri della musica soul, lo sfortunatissimo James Carr è passata nei decenni attraverso Aretha Franklin, Ry Cooder, Eva Cassidy, i Moving Hearts, lo stesso Springsteen per approdare alla versione di questo disco dove le voci di Jones e Tabor si intrecciano ancora una volta accompagnate da un violino e da una fisarmonica (pardon, English Concertina) che la rendono ancora una volta un classico della tradizione folk.

 

Credo che difficilmente quest’anno si siano fatti o si faranno dischi più belli, alla pari forse ma non superiori. Altamente, caldamente e “disperatamente” consigliato. Se vi piace il folk, come dicevo nel Post precedente, qui siamo su livelli stratosferici!

Bruno Conti