Primo Disco A Tutto Blues Per La Rocker Canadese…E La Voce E’ Sempre Fantastica! Sass Jordan – Rebel Moon Blues

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Sass Jordan – Rebel Moon Blues – Stony Plain CD

Sass Jordan è una poderosa cantante canadese molto popolare in patria, titolare di una discografia di valore con sette album pubblicati tra il 1988 ed il 2009, che complessivamente hanno avuto anche vendite ragguardevoli avendo superato abbondantemente il milione di copie totali. La Jordan ha avuto una carriera all’insegna di un rock-blues sanguigno e potente sul genere di Dana Fuchs e Beth Hart, grazie ad una voce splendida ed al fatto di essere una performer di notevole presenza fisica, cosa che l’ha portata ad essere richiesta anche come attrice e giudice in diversi talent musicali. Queste attività parallele possono senza dubbio averla distratta, dato che dal 2009 bisogna arrivare fino al 2017 per avere un suo disco nuovo, che poi nuovo al 100% non era in quanto Racine Revisited, come suggerisce il titolo, eea la reincisione ex novo brano dopo brano di Racine, il suo album più popolare uscito originariamente nel 1992. Per fortuna non abbiamo dovuto aspettare altri otto anni per avere un nuovo CD accreditato alla Jordan dato che è da poco uscito Rebel Moon Blues, album in cui Sass omaggia grandi bluesman del passato incidendo una serie di cover (lasciando quindi i dubbi su un sopravvenuto “blocco della scrittrice”, anche se qui su otto brani totali c’è almeno una nuova canzone scritta da lei), e dandoci in definitiva il primo album di puro blues della sua carriera.

Sì, perché se da un lato è vero che nella musica di Sass la componente blues è sempre stata molto presente, un disco come Rebel Moon Blues non lo aveva mai fatto, ed una volta ascoltato l’album fino in fondo devo dire che ne valeva la pena: infatti la Jordan, oltre a confermarsi una cantante carismatica e dalla voce superba, si rivela essere anche un’interprete coi fiocchi, che non si limita a riproporre pedissequamente versioni standard di classici del blues ma riesce a rimodellarli adattandoli alla perfezione alla sua ugola possente ed alle sue ottime doti di performer. In più, Sass è accompagnata da una band coi fiocchi, gli Champagne Hookers, che forniscono ai brani un background sonoro di tutto rispetto: i due elementi che si elevano sono Chris Caddell, superbo chitarrista capace di straordinari assoli ma mai senza strafare ed in grado di restare nelle retrovie se necessario (un po’ come Jimmie Vaughan nel suo ultimo Baby Please Come Home) ed il bravissimo armonicista Steve Marriner, ma anche gli altri membri suonano come Dio comanda (Jimmy Reid alla chitarra ritmica, Jesse O’Brien al pianoforte, Derrick Brady al basso e Cassius Pereira alla batteria).

L’album parte con il classico di Sleepy John Estes Leaving Trunk, che inizia con un’armonica dal timbro decisamente blues e la sezione ritmica che entra sicura un attimo prima della voce arrochita di Sass, un concentrato di potenza, grinta e feeling che contrasta apertamente con il suo aspetto fisico di bionda piuttosto avvenente: bella versione, tosta e bluesata fino al midollo. La nota My Babe di Willie Dixon viene trattata coi guanti bianchi: ancora la splendida armonica di Marriner protagonista quasi alla pari della Jordan, tempo cadenzato, chitarra che detta il ritmo e naturalmente la voce sicura e sensuale della leader; Am I Wrong è un pezzo di Keb’ Mo’ ed è proposto sottoforma di gustoso boogie blues “rurale” dominato dalla slide acustica e con la grande voce di Sass che fornisce il supporto adeguato. One Way Out è proprio lo standard di Elmore James e Sonny Boy Williamson che però sarà per sempre legato alla Allman Brothers Band, ma anche la Jordan fa la sua bella figura con una cover decisamente calda e passionale, in cui l’artista di Montreal canta unendo grinta e classe, e Caddell rilascia una prestazione eccezionale alla slide questa volta elettrica: grande rilettura.

Palace Of The King è un classico di Freddie King (scritto però da Leon Russell con Don Nix e Donald “Duck” Dunn), e vede ancora la chitarra protagonista (non più slide ma “claptoniana”), mentre sulla voce di Sass non mi esprimo più per non essere ripetitivo: il ritornello corale, maestoso, assume tonalità quasi gospel; The Key è l’unico pezzo scritto dalla Jordan, e pur mantenendo elementi blues nel suono si tratta di una rock’n’roll song al 100%, in cui la bionda cantante fa il bello e cattivo tempo con indubbio carisma e ci consegna una prestazione trascinante. La formidabile Too Much Alcohol (di JB Hutto), è puro Mississippi blues, con voce (e che voce), slide acustica e pathos a mille, e porta alla conclusiva Still Got The Blues, una delle signature songs di Gary Moore, una sontuosa ballad riletta in maniera strepitosa per quanto riguarda la parte vocale e più che adeguata dal lato strumentale (d’altronde Moore come chitarrista non si batte facilmente).

Un gran bel dischetto per una grande voce (anche se non avrei disprezzato un paio di brani in più): ora spero di rivedere il nome di Sass Jordan di nuovo tra noi a breve, magari con un album di canzoni nuove.

Marco Verdi

Un Gran Bel Concerto Per Una Delle Leggende “Minori” Del Blues. Johnny Shines – The Blues Came Falling Down Live 1973

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Johnny Shines – The Blues Came Falling Down Live 1973 – Omnivore Recordings

Johnny Shines è considerato, giustamente, almeno dalla critica, uno dei più grandi “praticanti” del blues acustico del Delta: anche se il nostro nasce nei sobborghi di Memphis, Tennessee, nel 1915, ha poi frequentato la zona, diventando discepolo prima del giovane Howlin’ Wolf, e per questo fu chiamato “Little Wolf”, poi in seguito incontrò colui che fu la sua più grande ispirazione, Robert Johnson , cercando di carpirne lo stile e la tecnica. Però, per varie vicissitudini e necessità lavorative della vita, la sua carriera non è mai decollata e per il grande pubblico Shines rimane uno sconosciuto, per quanto illustre: 4 canzoni registrate per Columbia nel 1946, pubblicate solo 20 anni dopo, 2 brani per la Chess incisi nel 1951, anche questi poco fortunati a livello discografico, visto che Johnny non gradì molto il cachet da “lustrascarpe” proposto dal boss Leonard Chess, che infatti lo inserì nei loro registri come “Shoe Shine Johnny”. Poi all’esplosione del blues nel South Side di Chicago, qualche registrazione per etichette locali, che non uscirono dai confini della città, una prima “riscoperta” a metà anni ’50, quando si esibiva negli stessi locali di Howlin’ Wolf, e quella definitiva nella grande ondata del blues anni ’60, con registrazioni per Vanguard, Testament, Biograph, Adelphi, Blue Horizon, Rounder e così via, rimanendo comunque sempre un artista di culto.

Dopo la morte, avvenuta nel 1992 a Tuscaloosa, in Alabama, diverse etichette periodicamente ne hanno pubblicato materiale edito ed inedito, ora arriva questo concerto “scoperto” dalla Omnivore e relativo ad una serata alla Washington University, Graham Chapel, St. Louis, nel 1973, anche se dalle note non è dato sapere la data esatta di questo Live, che comunque rimane una performance assolutamente degna della sua reputazione come uno dei grandi ”eroi misconosciuti” delle 12 battute classiche. Una qualità sonora spettacolare, che ci permette di godere la tecnica chitarristica sopraffina di Shines, un vero maestro della chitarra acustica, come ci dimostra subito in uno scintillante Big Boy Boogie, uno strumentale fantastico dal ritmo ondeggiante, in cui le sue mani volano sulla chitarra, mentre Johnny intrattiene il pubblico con alcuni commenti mentre si esibisce; Seems Like A Million Years, uno degli altri tredici brani a sua firma (ce ne sono anche quattro di Robert Johnson, uno di Sleepy John Estes e uno di Blind Willie Johnson) è il primo pezzo dove si apprezza la sua voce vissuta, profonda e risonante, vibrante e potente, in grado di salire e scendere di tono in modo mirabile, mentre narra le storie dei suoi protagonisti comuni, accompagnandosi sempre con quella chitarra che è una propaggine imprescindibile della sua anima.

Per Cold In Hand Blues sfodera un bottleneck magistrale, fremente e palpitante come la sua interpretazione vocale, trattenuta ma al contempo intensa https://www.youtube.com/watch?v=5VvR7f4sAk4 , Kind Hearted Woman Blues è il primo dei brani di Johnson, un esempio del miglior Delta blues eseguito in modo perfetto ed appassionato. Seguita  da una veemente Have You Ever Loved A Man (i temi dei brani sono sempre quelli, si intrecciano con quelli di decine di altri autori, come è consuetudine nel blues, dove ogni canzone difficilmente appartiene ad un singolo autore, ma fluttua nell’aria per essere carpita ed adattata alle proprie esigenze da chi la trova), e ancora dalla vissuta e potente Stay High All Night Long, dal traditional gospel Stand By Me, da un’altra composizione di Johnson, I’m A Steady Rollin’ Man,e poi ancora di Shines, Happy Home e Someday Baby Blues di John Estes, un ulteriore Johnson “minore” (se esiste) la breve e intricata They’re Red Hot (Hot Tamales). You’re The One I Love, preceduta da una lunghissima introduzione sulle virtù del blues, è più lenta e meditativa, Sweet Home Chicago, l’ultimo pezzo di Robert Johnson, direi che non ha bisogno di introduzione, il pubblico gradisce, le mani battono a tempo e quelle di Shines volano nuovamente sul manico della chitarra.

Non mancano un paio di slow magnifici come The Blues Came Falling Down e Big Star Falling (negli ultimi tre brani c’è anche Leroy Jodie Pierson alla seconda chitarra). Nel finale di concerto riappare il bottleneck per Tell Me Mama, Ramblin’ e una sgargiante rilettura del classico di Blind Willie Johnson It’s Nobody Fault But Mine, la brevissima e scatenata Goodbye Boogie e la conclusiva, intensa How You Want Your Rollin’ Done. Per chi ama il blues duro e puro, ma non noioso: un bel “regalo” per rivalutare un personaggio  come Johnny Shines , che forse in vita non ha avuto il credito che meritava.

Bruno Conti

Di Nuovo Effetti Slide! Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’

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Ron Hacker & the Hacksaws – Goin’ Down Howlin’ – Ron Hacker

Nell’ultimo periodo, puntuale, ogni due anni circa, Ron Hacker si (ri)presenta con un nuovo album, e noi, altrettanto tempestivi, ve ne diamo conto. Dopo gli ultimi, notevoli, Filthy Animal e Live In San Francisco http://discoclub.myblog.it/2013/01/12/l-arte-della-slide-ron-hacker-live-in-san-francisco/ , il musicista della Bay Area (ma originario di Indianapolis, 70 anni quest’anno) ci propone, nella consueta formula del trio, la sua personale visione del Blues, e lo fa rivisitando, in questo Goin’ Down Howlin’, molti classici delle 12 battute, invertendo il programma tipico delle sue esibizioni, concertistiche e discografiche, dove abitualmente si ascoltava una serie di brani della stesso Hacker, arricchita da alcun cover, scelte con cura nel repertorio sterminato del blues. Per l’occasione il vecchio Ron apre il nuovo album con due brani che portano la propria firma e poi rilegge una serie di canzoni famose di Sleepy John Estes, due brani, Little Walter, Jimmy Reed, Fred McDowell, Chuck Berry, St. Louis Jimmy Oden, e Chester Burnett (aka Howlin’ Wolf), a cui si ispira il titolo del CD. Come ricorda nelle note la figlia Rachell (con due l, così chiamata in onore del mentore di Hacker, Yank Rachell), la musica di questi musicisti è stata la colonna sonora della sua vita, fin dall’infanzia, e se agli altri bambini cantavano ninne nanne, lei si trovava a canticchiare Miss You Like The Devil di Slim Harpo, un brano composto quasi 100 anni prima. Quindi le sembra giusto e doveroso che il babbo abbia voluto rendere omaggio ai grandi musicisti blues che lo hanno preceduto.

Armato della sua immancabile chitarra d’acciaio e di un bottleneck, come riporta la foto di copertina, aiutato da Artis Joyce al basso e da Ronnie Smith alla batteria, e con la sua inconfondibile voce vissuta, Ron Hacker ci regala dieci perle di blues classico (una in due versioni), con due brani acustici, posti in apertura e chiusura, che incapsulano questo disco, tra i migliori della sua discografia. Si apre con Evil Hearted Woman, solo voce e chitarra, e poi si comincia a rollare, con il boogie scatenato di Big Brown Eyes, dove la slide del titolare inizia a macinare note con la consueta grinta e maestria. La prima cover è un adattamento dello stesso Hacker di Hate To See You Go, un brano di Little Walter, dalla classica costruzione sonora, che conferma l’impressione che per l’occasione Ron abbia trattenuto la sua proverbiale furia sonora, brani più brevi del solito, al solito infarciti di soli, però meno selvaggi e irrefrenabili del solito. Impressione confermata nella successiva Axe Sweet Momma, il primo dei brani a firma Sleepy John Estes, qui reso in una versione elettrificata dove si apprezza, come sempre, la slide del titolare, mentre Baby What You Want Me To Do è uno dei brani più famosi di Jimmy Reed e del blues tutto, eccellente la versione presente nell’album, come pure quella di You Got To Move, brano di Fred McDowell, già apparso in altri dischi di Hacker, per esempio in Filthy Animal, dove era attribuito a Memphis Minnie, per l’occasione in versione solo voce e chitarra slide.

Nadine, di Chuck Berry ovviamente, richiede una veste elettrica più tirata e il nostro Ron non si tira indietro, anche se fino a che non si scatena al bottleneck, la prima parte sembra un poco con il freno a mano tirato. Come ricorda il titolo, Goin’ Down Slow, è uno dei grandi “lenti” del blues, prima in versione elettrica, eccellente, e poi in chiusura, acustica, brano famoso anche nella versione di Howlin’ Wolf, e che nel corso degli anni hanno suonato tutti, da B.B. King agli Animals, i Canned Heat, gli stessi Led Zeppelin la suonavano live nel medley di Whole Lotta Love, come riportato nel bellissimo How The West Was Won, ma anche Duane Allman, Eric Clapton, Jeff Beck, tutti i grandi chitarristi l’hanno suonata, poteva mancare la versione di Ron Hacker? Che poi rende omaggio anche all’appena citato Chester Burnett con una sapida Howlin’ For My Darlin’ e chiude con una scoppiettante Goin’ To Brownsville che più che a Sleepy John Estes sembra appartenere ad Elmore James per la sua profusione di effetti slide.

Bruno Conti  

Un Altro!?! Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.10

johnny winter live bootleg 10

Johnny Winter – Live Bootleg Series Vol.10 – Friday Night

Ebbene sì, un altro, è il secondo del 2013 e il decimo pubblicato dalla Friday Music dal 2007 ad oggi (qui trovate quello che ho scritto sull’argomento nel Blog e altro http://discoclub.myblog.it/?s=johnny+winter+bootleg+series+9&submit=Cerca). Non male come media, considerando che la serie dedicata a Dylan, che pubblica anche materiale di studio, per amor di Dio, e pure confezioni multiple, però è arrivata a 10 volumi in 22 anni dall’uscita del primo, nel lontano 1991, che raccoglieva pure i primi tre capitoli in unica confezione. Il materiale è sempre interessante, Johnny Winter dal vivo non tradisce mai, si ripete pochissimo nella scelta dei pezzi, ma viceversa non sempre la qualità sonora è eccelsa, ok di Live Bootleg Series si tratta, ma ci sono Bootleg e bootleg, alcuni sono registrati dal mixer, quindi soundboard quality, ma non è matematico, questa volta i 6 brani sono tutti piuttosto buoni, ma non sempre nei precedenti volumi è stato così. Poi il fatto di non sapere di che anno sono le registrazioni, chi ci suona, in che località si è tenuto il concerto, non è molto professionale.

Si presume che il materiale provenga, più o meno, dal lasso di tempo che va dal periodo fine anni ’70 agli inizi anni ’90, ogni tanto era riportato che il bassista fosse Jon Paris, che ha suonato spesso con lui in quella decade, ma per deduzione non come fatto certo. Bontà loro, almeno vengono indicati i titoli dei brani contenuti nei CD, in qualche volume c’è anche una breve presentazione che rimane abbastanza sul vago, nel caso del volume 10 porta la firma di Tom Guerra, musicista di Vintage Guitar Magazine, due o tre numeri fa c’era una breve prefazione di Warren Haynes. Tutti giustamente a cantare le lodi di uno dei più grandi chitarristi blues (e non solo) bianchi degli ultimi 50 anni. Però le cose migliori d’archivio dal vivo non sono uscite in questa serie: penso al fantastico Live At Fillmore East 10/3/70 o all’ottimo Woodstock Experience con la registrazione completa della sua partecipazione al celebre Festival, ma anche l’eccellente Rockpalast del 1979, uscito sia in CD che DVD, che coincide in molti casi con quello del presente CD.

Comunque “accontentiamoci”, perché ci va comunque di lusso: questa volta troviamo, forse per il periodo in cui viene pubblicato il dischetto, una inconsueta Please Come Home For Christmas che predispone al periodo festivo http://www.youtube.com/watch?v=N1pkLRRZGTE, ancorché non sia una versione straordinaria, senza brillare è comunque una piacevole canzone. Gagliarda è la versione di Suzie Q, il celeberrimo brano di Dale Hawkins, che tutti ricordano nella versione dei Creedence e che Winter interpreta in quello spirito bayou-rock, con voce sicura e chitarra tagliante. Notevole è la versione di un piccolo classico del blues, Diving Duck Blues, un brano di Sleepy John Estes fatto alla Johnny Winter, con la sezione ritmica libera di improvvisare e la chitarra dell’albino texano in vena di torrernziali equilibrismi sonori di alta scuola, con qualche deriva hendrixiana, un brano che vale il prezzo d’ammissione quasi di solo. Love her with a feeling è il classico slow blues che non può mancare in un concerto del nostro http://www.youtube.com/watch?v=PPCOc0k3Obc, un brano di Lowell Fulsom che trasuda feeling ad ogni nota e che illustra ancora una volta quella scuola texana che negli anni a seguire avrebbe prodotto anche il grande Stevie Ray Vaughan, fa capolino anche una armonica che non è dato di sapere da chi sia suonata.

One Step At A Time è l’unico brano a firma di Winter e proviene dall’album del 1978, White, Hot & Blue, lo stesso che conteneva anche Divin’ Duck e quindi ci fa ritenere che il concerto venga proprio da quella epoca, un brano nel classico Chicago Blues Style di Winter di quegli anni, gli stessi in cui produceva il grande Muddy Waters per la sua etichetta Blue Sky. A questo punto potrei azzardare che l’armonicista presente in modo più che evidente anche in questa canzone sia Pat Ramsey, che appariva nel disco in studio. E per creare un ulteriore collegamento con l’opera del grande Muddy l’ultimo brano presente in questo CD (canzone natalizia già citata a parte) è una versione ricca di elettricità di Catfish Blues, pezzo che si ricorda anche nelle esperte mani dell’altrettanto grande Jimi Hendrix, al quale la versione di Johnny si può tranquillamente accostare. E se non ho ascoltato male mi pare che la proverbiale slide di Winter non faccia mai la sua apparizione in questo capitolo 10, che rimane comunque un signor disco per gli appassionati di blues e di Winter in particolare.

Bruno Conti

Father And Sons. James Luther Dickinson And North Mississippi Allstars – I’M Not Dead I’M Just Gone

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James Luther Dickinson and North Mississippi Allstars – I’m Just Dead I’m Not Gone – Memphis Int. Rec.

Questo raro incontro discografico (“unico” nella discografia di Jim Dickinson), tra padre e figli, vede la musica, senza voler essere blasfemi, nella parte dello “Spirito Santo”. Registrato il 2 giugno del 2006 al New Daisy Theater di Memphis, Tennessee, in Beale Street, la via del Blues per antonomasia, questo concerto viene pubblicato solo oggi, a tre anni di distanza dalla scomparsa di Mudboy.

Si tratta di un concerto gagliardo, esuberante, dove non solo il Blues, ma tutte le “radici” della musica della famiglia Dickinson vengono rivisitate: registrato in Mono, ma con un ottimo suono, il concerto, per rimanere in tema religioso, è preceduto da un breve sermone anti Bush (era l’epoca) del Rev. Dickinson, ma poi si dipana con un sound che ricorda i suoi vecchi datori di lavoro, gli Stones dell’epoca Exile, quelli più “caattivi” (doppia a) e pericolosi. Dall’apertura tosta di Money Talks, un vecchio brano di Sir Mack Rice, con le sue sonorità viziose, attraversate dalle sciabolate della slide di Luther “Keith’n’Mick” Dickinson, si viaggia subito sulle traiettorie del miglior rock ad alta gradazione blues, quello più genuino e ruspante. Uno che introduce il brano successivo, Ax Sweet Mama come, “scritto dal mio vecchio amico Sleepy John Estes”, come lo definisci se non leggendario – Morto ma non andato! – la sua musica vive in questo suono “paludoso” e volutamente grezzo e in questo brano che cita anche Leaving Trunk e Sloppy Drunk, rivive il mito del blues e del rock più sapido, suonato dal pianino di Jim e dalla chitarra di Luther e cantato con una voce, non bella, ma che, a chi scrive, sembra quella di un John Mayall più incazzato, se mi permettete l’analogia, un altro però che ha fatto di questa musica una religione.

Pure nella successiva cover di Codine, un grande brano di Buffy Sainte-Marie, la voce è rotta, quasi spezzata, ma percorsa da una grinta che sfiora la missione: i North Mississippi Allstars, Luther, Cody alla batteria e il bassista Chris Chew, suonano con un fervore incredibile, degni alunni della lezione di vita e di musica insegnata loro dal grande musicista di Memphis, che si cimenta da par suo al piano. Dopo una breve presentazione dei suoi tre figli, due veri e uno spirituale, ci si rituffa nella musica con una Red Neck, Blue Collar di Bob Frank, che è puro Outlaw Country, le armonie vocali sono di Jimmy Davis. Il concerto è composto solo da nove brani, dura poco più di 42 minuti, ma ha una intensità incredibile, non c’è grasso che cola, solo musica di qualità, non è questa la casa del virtuosismo, anche se i musicisti sono di gran spessore, niente lunghi assolo, solo il minimo indispensabile, con i due Luther che si dividono i brevi spazi solisti e la band che segue con vigore, come nella cover di Kassie Jones, Pt.1 di Furry Lewis, un altro che ha fatto la storia di questa musica, Jim declama Blues e Luther lo segue con la sua slide.

Anche quando fa rollare il suo pianino a tutta birra, come nella cover scatenata a tempo di R&R di Rooster Blues, un vecchio brano scritto da Jerry West, che era uno dei cavalli di battaglia di Lightnin’ Slim, senti che c’è tanta passione e competenza nella musica, e questa versione accelerata è presa dal repertorio di Ronnie Hawkins che viene ringraziato nel finale con un “Dio Benedica Ronnie Hawkins!” molto sentito. Quando i musicisti rendono omaggio al B.B. King D.O.C. di Never Make Your Move Too Soon si percepisce un piacere, una gioia irrefrenabile nel suonare questa musica, essere sul palco e divertirti e suonare la musica che ami, cosa puoi volere di più?  Se poi il tutto è suonato con questa classe e nonchalance l’ascoltatore percepisce quel quid indefinibile che divide i grandi musicisti (di culto) dalle mezze calzette. Di nuovo il country scalcagnato ma irresistibile di Truck Drivin’ Man con la seconda voce di Davis e il pianino di Jim Dickinson in overdrive prima del finale sontuoso con una Down In Mississippi quasi solenne che omaggia la loro terra e la loro musica e permette, per una volta, a Luther Dickinson di lasciarsi andare a una improvvisazione chitarristica leggermente più estesa, sotto l’occhio benevolo e benedicente del babbo che ha lasciato il testimone in mani esperte. Se questo deve essere l’ultimo commiato, il vecchio Mudboy ci lascia alla grande!

Bruno Conti