Anche In Versione Acustica La Conferma Di Una Voce Splendida. Marc Broussard – Home (The Dockside Sessions)

marc broussard home

Marc Broussard Home (The Dockside Sessions) – G-Man Records

New Orleans, e tutta la Louisiana in generale, in ambito musicale sono rimasti uno degli ultimi baluardi della buona musica, quella vera, naturale, ruspante, rispettosa della tradizioni, una barriera contro il cattivo gusto imperante nella musica attuale: gli artisti, sia quelli autoctoni che i cosiddetti “oriundi”, nati altrove ma che lì si sono stabiliti, offrono una resistenza, quasi una resilienza, verso le derive della massificazione che tendono a rendere tutto uguale ed assimilato, il mondo della rete e dei social media ha questa tendenza a fagocitare tutto (per non parlare dei cosiddetti talent) e quindi i veri talenti fanno fatica ad emergere o appunto a resistere, e diventano purtroppo sempre più piuttosto marginali. A New Orleans e dintorni non è così, la musica si respira ancora nelle strade, nei locali, nei Festival, anche se fa fatica ad uscire da quei confini: qualcuno ci prova ed insiste, come Marc Broussard, che dopo l’uno-due eccellente del 2016-2017 con Save Our Soul 2 e Easy To Love https://discoclub.myblog.it/2017/11/23/diverso-dal-precedente-ma-sempre-musica-di-classe-marc-broussard-easy-to-love/ , ci delizia con questo Home (The Dockside Sessions) che raccoglie una serie di esibizioni (molte peraltro facilmente rintracciabili su YouTube in formato video) registrate appunto ai Dockside, gli studi casalinghi situati a Maurice, sempre in Louisiana.

Un album dove Marc, con l’aiuto di pochissimi musicisti, spesso solo una chitarra acustica ed un pianoforte, non sempre insieme, ha (ri)visitato una serie di canzoni, sia proprie che classici del  soul , in una veste intima e delicata, ma non priva della forza intrinseca insita nella musica di Broussard, che è poi la sua voce: splendida, vellutata, da bianco con l’anima nera, con uno stile che per una volta è stato definito con esattezza attraverso il termine di “Bayou Soul”, un misto di R&B, funky, swamp rock, pop, blues e ovviamente soul , eseguito con una naturalezza quasi disarmante. Il nostro amico ha passato la sua giovinezza e gli anni formativi tra Carencro, dove è nato (e che era il titolo del suo secondo album) e Lafayette, dove il babbo Ted Broussard (una leggenda locale con i Boogie Kings) lo ha nutrito a pane e musica, e i risultati si sentono in ogni disco che pubblica: anche il “nuovo” Home è una vera panacea per le nostra orecchie torturate spesso da sonorità insulse e senza costrutto,  si tratta sicuramente di musica di culto, destinata a pochi, anche per la scarsa reperibilità dei suoi dischi, che però meritano sicuramente lo sforzo di una ricerca.

French Café, posta in apertura, è una canzone di David Egan (altro figlio della Louisiana, autore sopraffino scomparso nel 2016), un brano solo voce e pianoforte (il padre Ted, anche se è principalmente un chitarrista), ballata suadente e di gran classe, che, anche in questa versione più intima di quella che era presente sul disco di esordio del 2002, riluce delle sue squisite capacità interpretative, uno che in questo campo non è sicuramente inferiore a gente come John Hiatt o Delbert McClinton, tanto per non fare nomi. Broussard non tradisce neppure come autore, canzoni come le bellissime The Wanderer , con chitarra acustica aggiunta, Lonely Night In Georgia, The Beauty Of Who You Are, con i suoi altopiani vocali, la dolce e malinconica Gavin’s Song, l’intensa Let Me Leave, l’avvolgente Send Me A Sign (e le altre che non cito per brevità, ma non ce n’è una scarsa), parlano di un interprete affascinante per la sua capacità di immergersi  a fondo nell’atmosfera della canzone.

E che poi eccelle anche quando viene a confrontarsi con canzoni immortali come lo splendido blues I Love You More Than You’ll Ever Know, il brano di Al Kooper che grazie alla voce superba di Marc e alla elettrica di Ted Broussard, nonché di un piano elettrico, raggiunge livelli di intensità straordinari, poi replicati in versioni  eccezionali di Do Right Woman, Do Right Man, dove quasi non fa rimpiangere la grande Aretha, per non parlare di una mirabile Cry To Me, il capolavoro di Solomon Burke, che era già presente come bonus in Save Our Soul II, e di una splendida These Arms Of Mine, che sono sicuro il grande Otis Redding da lassù avrebbe certamente approvato. Chiude un album eccellente l’unico pezzo con la band completa, una intensa e tirata Home Anthology che illustra anche il lato elettrico di questo grande cantante. Ancora una volta, sentire per credere.

Bruno Conti

Il “Blues Brother” Originale Colpisce Ancora! Curtis Salgado – The Beautiful Lowdown

curtis salgado the beautiful lowdown

Curtis Salgado – The Beautiful Lowdown – Alligator/ird 

Anche al nostro amico si potrebbe applicare la regola cinematografica dei sequel e quindi il titolo del Post riecheggia la saga della Pantera Rosa o di Guerre Stellari. A chi non lo ricorda o non lo sa, vorrei far presente che Curtis Salgado é il “Blues Brother originale”, il musicista in carne e ossa a cui si ispirò John Belushi per la  creazione del Live A Briefcase Full Of Blues e poi della colonna sonora del film Blues Brothers. Ho già raccontato la storia, ma visto che Curtis pubblica album con una cadenza quadriennale, mi sembrava giusto rinfrescare la memoria dei lettori. In quel locale di Eugene, Oregon dove Belushi stava girando Animal House, ci fu una sorta di epifania: John, che ai tempi era un appassionato soprattutto di metal, per la prima volta incontrò Curtis Salgado, che poi sarebbe diventato il suo mentore ed ispiratore per la creazione del personaggio Joliet “Jake” Blues https://www.youtube.com/watch?v=38ewGmzaxFs . Ma soprattutto il nostro era, ed è, un formidabile cantante, un vero “bianco” dall’anima e dalla voce “nera”, con una emissione vocale che ricorda al 75-80% Solomon Burke e per il resto B.B. King; Salgado è una vera forza della natura, anche notevole armonicista e buon autore, negli anni è stato pure cantante della primissima versione della Robert Cray Band, poi dei Roomful Of Blues, ha fondato Curtis Salgado & the Stilettos, iniziando la sua carriera solista. E per dare credito al suo personaggio di Curtis (che nel film era interpretato da Cab Calloway) ha subìto anche un trapianto di fegato nel 2005, dopo una vita di probabili eccessi, come il suo amico John.

Ma la voce è rimasta sempre intatta, e dagli anni 2000 ha iniziato a pubblicare ottimi dischi con regolarità, nel 2012 si è accasato con la Alligator con cui ha pubblicato lo splendido Soul Shot http://discoclub.myblog.it/2012/03/25/il-blues-brother-originale-curtis-salgado-soul-shot/  e ora torna alla carica con questo nuovo The Beautiful Lowdown. Salgado più che un Blues Brother è un “soul brother”, perché nella sua musica la quota di soul & R&B è nettamente preponderante rispetto al blues (che pure è presente in quantità, soprattutto dal vivo), ma la sua arma vincente è la voce, si tratta di uno dei rari casi in cui anche se gli date da cantare l’elenco telefonico (se ne trovate ancora) l’effetto sarebbe devastante. Inutile dire che per fortuna nel disco le canzoni presenti sono più che adeguate, suonate ed arrangiate con grande maestria da un manipolo di esperti musicisti, guidati dal batterista Tony Braunagel, che è il co-produttore del disco (ed il secondo migliore nel campo dopo Tom Hambridge): Braunagel (attuale batterista della band di Robert Cray) ha radunato per il disco alcuni musicisti eccellenti, tra i tanti, Johnny Lee Schell alla chitarra, Mike Finnigan  (ora con Bonnie Raitt( e Jim Pugh (anche lui a lungo con Cray), alle tastiere, una pattuglia di ben sei altri chitarristi, bassisti vari, tra cui, parlando di Bonnie, James “Hutch” Hutchinson, fiati e background vocalist a profusione e il risultato si vede e si sente.

A partire dalla scarica di puro R&B fiatistico dell’iniziale Hard To Feel The Same About Love, con Salgado che titillato dalle background vocalist, dai fiati e dal gruppo tutto, inizia a dispensare la sua sapienza soul, con quella voce ancora pimpante a dispetto dei 62 anni suonati; Low Down Dirty Shame è un funky soul sinuoso ed avvolgente, che tra chitarrine maliziose ed un organo Hammond d’ordinanza ribadisce i pregi della migliore soul music, con Schell che ci regala il primo solo di slide dell’album. I Know A Good Thing, con slide, Alan Hager per l’occasione, ed armonica che si rispondono dai canali dello stereo è la prima traccia decisamente blues, puro Mississippi Sound, anche se il disco è stato registrato in California. Walk A Mile In My Blues, titolo evocativo, è più grintosa e fluida, ma sempre intrisa dal fascino delle 12 battute, un brano quasi alla BB King, con uso di fiati, mentre Healing Love è la prima ballata, e qui sembra di ascoltare Solomon Burke redidivo, con quella voce rauca ma poderosa, da vero nero, cosa che Salgado non è, ma ce ne facciamo un baffo.

E che dire di Nothing In Particular (Little Bit Of Everyting), pagina 12 del manuale del perfetto soulman, organo, chitarre, voci femminili di supporto, tutti gli ingredienti cucinati alla perfezione; con quella voce riesco a sopportare anche l’incursione nel reggae di Simple Enough. Per poi tornare a un blues di nuovo alla BB King nell’ottima I’m Not Made That Way e ad un’altra ballata splendida come Is There Something I Should Know, dove la voce duettante è quella di Danielle Schnebelen (ora in arte Nicole), altra bianca dalla voce che più nera non si può, i due si sfidano, si confrontano, si accarezzano, e quello che gode è l’ascoltatore. Un po’ di sano funky alla James Brown non guasta, e My Girlfriend svolge questa funzione alla perfezione, prima di lasciare spazio di nuovo al blues con uno shuffle pungente come Ring Telephone Ring e a un mid-tempo blue eyed soul con uso di armonica come Hook Me Up. Chi ama le grandi voci qui avrà motivo di soddisfarsi appieno. Ufficialmente esce l’8 aprile.

Bruno Conti

La Più “Bianca” Delle Cantanti Nere Recenti? Shemekia Copeland – Outskirts Of Love

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Shemekia Copeland – Outskirts Of Love – Alligator

Il titolo del Post forse non è accurato al 100%, ma quello giusto lo avevo già utilizzato per il recente album di Amy Helm, “degna figlia di tanto padre”, e quindi ho dovuto ripiegare su quello che leggete, con punto di domanda, che comunque fotografa efficacemente, per quanto parzialmente, i contenuti di questo album, il nono (compresa una antologia) di Shemekia Copeland, che vede il suo ritorno in casa Alligator, dopo due dischi pubblicati per la Telarc, peraltro molto buoni, in particolare l’ultimo 33 1/3, uscito nel 2012, che vedeva anche la partecipazione di Buddy Guy JJ Grey e la produzione di Oliver Wood (dei Wood Brothers, di cui vi segnalo in uscita il 2 ottobre il nuovo album Paradise) che produce anche questo nuovo Outskirts Of Love, che “risponde” al precedente con la presenza come ospiti di Billy Gibbons, Alvin Youngbood Hart Robert Randolph, e tra i musicisti impiegati vede anche Will Kimbrough, Arthur Neilson, Guthrie Trapp Pete Finney a vari tipi di chitarra. Come ricorda il titolo di cui sopra il nuovo CD ha un suono più “bianco”, più rock del penultimo, con la scelta di brani come Jesus Just Left Chicago degli ZZ Top dove Billy Gibbons inchioda un paio di solo che ne testimoniamo la buona forma, in attesa del suo album solista previsto per novembre https://www.youtube.com/watch?v=wc1j5Z7L0bU .

Ma anche una versione molto rootsy, pigra e ciondolante di Long As I Can See Light dei Creedence, e pure una escursione nel puro country, Drivin’ Out Of Nashville, con tanto di pedal steel affidata a Pete Finney, dove Shemekia ci ricorda che il country in fondo è solo il blues con un twang aggiunto, e le chitarre di Will Kimbrough e Guthrie Trapp lo confermano. E pure il poderoso rock-blues ad alto tasso chitarristico che apre l’album, una Outskirts Of Love veramente sontuosa, magnetica e tirata che conferma questo spirito battagliero del disco, come pure la cover di una vecchia canzone di Jesse Winchester Isn’t That So che diventa quasi un brano tra New Orleans sound e i Little Feat più laid-back. E anche l’ottima Crossbone Beach, uno dei tre brani firmati da John Hahn con il produttore Oliver Wood, ha questo drive funky-rock e chitarristico con la steel guitar di Robert Randolph a disegnare le consuete ma sempre impossibili traiettorie sonore https://www.youtube.com/watch?v=5VI6-DAwZUo . Naturalmente sul tutto si erge la magnifica voce di Shemekia Copeland, che la rivista inglese Mojo ha recentemente definito come un incrocio tra Mavis Staples Koko Taylor, e sentendola come non si può non essere d’accordo. Però il soul, il R&B, il gospel e ovviamente il blues non possono mancare: per esempio nel sentito omaggio al babbo Johnny Copeland in una gagliarda cover di un pezzo anni ’80, tratto dai dischi Rounder del genitore (di cui vi consiglio assolutamente il superbo Showdown, il disco registrato con Robert Cray Albert Collins), Devil’s Hand è un pezzo blues sanguigno, con una piccola sezione fiati (in realtà costituita dal solo Matt Glassmeyer), dove Jano Nix oltre che confermarsi eccellente batterista si esibisce con grande perizia anche all’organo Hammond https://www.youtube.com/watch?v=xKQwwQSVetM . The Battle Is Over (But The War Goes On) è un vecchio pezzo di Sonny Terry & Brownie McGhee che riceve un altro trattamento ad alta densità elettrica, con una chitarra che taglia in due la canzone e Shemekia che canta con impeto e passione.

Ottimo anche il duetto con Alvin Youngblood Hart, impegnato sia come seconda voce che come chitarrista in Cardboard Box, un pezzo a firma John Hahn Ian Siegal che è uno di quelli dal suono più autenticamente blues con un flavor sonoro quasi simile ai dischi di Ry Cooder degli anni ’70. I Feel A Sin Coming On ha lo stesso titolo di uno dei recenti brani delle Pistol Annies, ma in effetti è una cover di un magnifico brano deep soul degli anni ’60 di Solomon Burke, di cui mi sono andato a risentire l’originale, e secondo me questa versione di Shemekia è addirittura più bella, con fiati, organo, chitarre e voci di supporto a seguire la Copeland che ci regala una interpretazione vocale di grande intensità. Di Isn’t That So, Long As I Can See Light e di una “minacciosa” Jesus Just Left Chicago abbiamo già detto e non posso che confermare, con una nota di merito per il lavoro quasi certosino della band coordinata da Oliver Wood. A completare l’album rimangono il blues elettrico urbano di Wrapped Up In Love Again, un pezzo di Albert King dove brilla la chitarra dell’ospite Arthur Neilson Lord, Help The Poor And Needy, un gospel-blues semiacustico di Jessie Mae Hemphill, una delle tante blueswomen originarie della zona del Mississippi arrivata alle registrazioni discografiche in età matura, di cui Shemekia Copeland rende con grande partecipazione questo brano dai connotati senza tempo.

Potrei aggiungere “gran bel disco” e consigliarvelo caldamente, cosa che faccio.

Bruno Conti

La “Nonna” Del Southern Soul! Candi Staton – Life Happens

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Candi Staton – Life Happens – Beracah Records

La sua carta d’identità recita anni 74 (ma dalla cover del CD si vede che sono portati benissimo), anche se prima di leggere questa recensione, molti, tanti (purtroppo) non sapranno chi è Candi Staton, complice una carriera che ha portato questa meravigliosa cantante ad abbandonare la “soul music” per oltre un ventennio (dopo i successi degli anni ’70), per una serie di problemi personali (tra perdite personali, divorzi e dipendenza dall’alcol), trovando infine rifugio tra le mura della Chiesa, cosa che l’ha portata ad incidere per anni solo brani “gospel”. L’album della rinascita, lo splendido His Hands (06) venne alla luce sotto la produzione di Mark Nevers dei Lambchop, e conteneva undici perle che spaziavano fra soul e rhythm & blues, alcune cover d’autore, come Cry To Me di Bert “Russell” Berns, lanciata dal grande Solomon Burke, tutte cantate con “anima” genuina dalla Staton. Disco bissato dal successivo Who’s Hurting Now? (09), nell’interregno è stata pubblicata una compilation di gospel-soul come Evidence The Complete Fame Records Masters (11), con materiale d’archivio. Ora eccola di nuovo sul mio lettore con questo Life Happens, ad inondarci i padiglioni auricolari con la sua musica che spazia dal country rock al southern soul, con sfumature di toni blues e funky, facendosi produrre dal grande Rick Hall  titolare della Fame Records, ricomponendo un binomio di grande successo negli anni ’70.

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Per questo lavoro (il ventisettesimo della sua carriera, fidatevi, ho contato e ricontato) oltre a musicisti di area, Candi si è avvalsa, tra gli altri, di Toby Baker e Larry Byron alle chitarre, Mose Davis alle tastiere, Mike Burton al sassofono, Steve Herman al corno, e di suo figlio Marcus Williams (ha suonato anche con Isaac Hayes e Peabo Bryson) alla batteria, registrando il tutto negli storici Fame Studios di Muscle Shoals in Alabama https://www.youtube.com/watch?v=QvpfqzZjpOI .

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Life Happens è una miscellanea di generi che dal brano d’apertura, Three Minutes To A Relapse condiviso con Jason Isbell e John Paul White dei Civil Wars, spazia tra il rhythm and blues di brani come Go Baby Go, Close To You e Where Were You When You Knew?, le atmosfere soul di Have You Seen The Children? e Beware, She’s After Your Man, passa per il funky affumicato alla Etta James di Never Even Had The Chance e Even The Bad Times Are Good, ma è indubbio che siano le ballate dove Candi dà il meglio di sé, nelle languide My Heart’s On Empty, I Ain’t Easy To Love https://www.youtube.com/watch?v=9J-7KChSle8 e You Treat Me Like A Secret, Commitment, per finire con le struggenti armonie di una Better World Coming, e i leggeri rintocchi di pianoforte e chitarra, che dialogano brillantemente con la Staton e varie voci di supporto in una celestiale For Eternity.

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La cantante di Hanceville, Alabama, con quattro decenni di carriera alle spalle, è stata sicuramente artefice di un percorso artistico che per un certo periodo l’ha vista anche protagonista della “disco”, attraversando il deserto per la redenzione con il “gospel”, e trovando la meritata serenità con la triade iniziala con His Hands, fino a giungere a questo Life Happens, dove ogni canzone è la storia della sua vita, con tutti i suoi alti e bassi, gioie e dolori (amori, disperazione, redenzione e speranza). Per chi scrive è bello sapere che Candi Staton non è andata via, canta ancora per noi, perché di dischi cosi, personalmente ne vorrei almeno uno al mese. Altamente consigliato.

Tino Montanari

Cantautore O Produttore? Joe Henry – Invisible Hour

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Joe Henry – Invisible Hour – Work Song/ Ear Music/Edel Records

Lo ammetto, sono un “fan” di lunga data di Joe Henry (cognato di Madonna, ha sposato la sorella Michelle, ma non è una colpa), dai tempi dell’esordio con Talk Of Heaven (86), e l’ho seguito negli anni, mentre uscivano Murder Of Crows (con Mick Taylor e Chuck Leavell) (89), lo splendido ma poco considerato Shuffletown (90) (andatevi a risentire la traccia iniziale Helena By The Avenue https://www.youtube.com/watch?v=l2nDnE4LQS8 ),  e poi ancora Short Man’s Room (92) accompagnato dai Jayhwaks, e Kindness Of The World (93), i due lavori più influenzati dal suono americana, la trilogia Trampoline (96), Fuse (99) e Scar (01); poi Joe ha firmato per la Anti Records e le cose sono cambiate, con un disco dal suono molto personale come il geniale Tiny Voices (03), e le raffinate incisioni dell’ultimo periodo con Civilians (07) con Bill Frisell e  Van Dyke Parks, Blood From The Stars (09), e infine le sfumature blues di Reverie (11). Nel contempo Joseph Lee Henry (il suo vero nome) ha imparato a fare il produttore iniziando con Bruce Cockburn (insieme a T-Bone Burnett), Teddy Thompson (figlio di Richard & Linda) , proseguendo con Solomon Burke (con cui ha vinto un grammy nel 2003), Ani DiFranco, Bonnie Raitt, Bettye Lavette, il suo amico Loudon Wainwright III e ultimamente, con uno dei miei gruppi preferiti, gli Over The Rhine, e  mille altri (anche Lisa Hannigan, che troviamo sotto, tra i collaboratori di questo album)…

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Mi viene da pensare che l’occasione di stare a contatto con musicisti di diverso genere ed estrazione musicale gli ha fatto certamente bene, lo ha stimolato ad apprendere tutte le mille sfumature che la musica offre, e ora tutto quello che ha appreso si certifica in questo nuovo Invisible Hour (che esce in questi giorni) uno dei suoi dischi migliori in assoluto, un lavoro intenso e maturo, musicalmente ineccepibile, curato sia negli arrangiamenti che nella stesura delle canzoni.  Registrato in una settimana nel suo studio di Pasadena, Joe come sempre si avvale di musicisti di grande qualità, tra i quali ricordiamo Greg Leisz e John Smith alle chitarre, David Piltch o Jennifer Condos al basso, Jay Bellerose alla batteria, il figlio Levon ai fiati, e tra gli ospiti la brava Lisa Hannigan (cantante e musicista irlandese, a sua volta, già collaboratrice di Damien Rice) e i Milk Carton Kids alle armonie vocali, e direi anche non trascurabile l’apporto del noto romanziere Colum McCann per la stesura dei testi.

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Pur non essendo un “concept album”, le canzoni di Invisible Hour girano attorno al concetto del matrimonio, come ha ricordato in alcune interviste lo stesso Henry, a partire dal trittico iniziale, con la magnifica Sparrow https://www.youtube.com/watch?v=f5nAIX1aM6w , Grave Angels https://www.youtube.com/watch?v=XSneRuPlN3I  e i nove minuti di una Sign dove è la voce di Joe a farla da padrona (tra Van Morrison e il miglior Dirk Hamilton), dialogando con il suono minimale degli strumenti https://www.youtube.com/watch?v=cRp1w8Zqr4g . Un tocco dolce di chitarra introduce la title track, Invisible Hour, composizione intensa e struggente https://www.youtube.com/watch?v=MTl25EQ9Zls , per poi passare alle trame più ricche e complesse di Swayed  e ai suoni quasi gospel di Plainspeak, con largo uso del sax da parte del figlio Levon, mentre nell’ottima Lead Me On troviamo Lisa Hannigan al controcanto.

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Lo spirito di Tom Waits aleggia nell’acustica Alice, mentre il ritmo si innalza con Every Sorrow, la canzone più “roots” dell’album, andando poi a chiudere con Water Between Us, una solida ballata melodica, introdotta dalle note del piano e accompagnata nello sviluppo da sax e clarinetto (ha tutte le qualità per entrare nel novero delle sue canzoni più belle), e nella conclusiva, lunga e intensa Slide, una di quelle composizioni che rimangono impresse nella memoria per lungo tempo.

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Anche se il suo “status” attuale di produttore supera quello dell’autore e cantante (ma non per chi scrive), Henry non rinuncia a pubblicare dischi, e dopo una lunga e importante carriera quasi trentennale https://www.youtube.com/watch?v=567GTsSgNtw , esce con questo lavoro raffinato e delicato, percorso da avvolgenti trame, acustiche e non, supportate dalla sua abituale voce calda e sinuosa, rendendo l’ascolto un esercizio di gusto e delicatezza. Per i pochi che ancora non lo conoscono, Joe Henry è un amante della musica, di quella vera, e Invisible Hour conferma la sua bravura di musicista e produttore, e quindi di essere ampiamente in grado di portare avanti entrambe le professioni. Tra i dischi dell’anno!

Tino Montanari

I Migliori Dischi Del 2012. Un Altro Collaboratore!

 

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Pensa che ti ripensa, l’anno scorso si era “allargato”, quest’anno “dagli una mano si prendono il braccio”, la lista si è vieppiù dilatata (l’anno scorso se non sbaglio erano 23 più alcune categorie extra, nel 2012 sono diventati oltre 30) ma dato che sono io il primo “trasgressore” si accetta tutto. Quindi questa è la lista di Tino Montanari (magari i caratteri di stampa uguali agli altri, si potevano tentare, in ogni caso…):

DISCO DELL’ANNO: LEONARD COHEN – OLD IDEAS

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CANZONE DELL’ANNO: BETH HART – CAUGHT OUT IN THE RAIN

COLONNA SONORA: LAWLESS – NICK CAVE & WARREN ELLIS

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DISCO BLUES: GUY DAVIS – THE ADVENTURES OF FISHY WATERS 

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DISCO COUNTRY: TRAMPLED BY TURTLES – STARS AND SATELLITES

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DISCO ITALIANO: FRANCESCO DE GREGORI – SULLA STRADA

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DISCO LIVE: WALKABOUTS – BERLIN

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DISCO SOUL: SOLOMON BURKE – THE LAST GREAT CONCERT

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COFANETTO DELL’ANNO: COWBOY JUNKIES – THE NOMAD SERIES

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RISTAMPA DELL’ANNO: WILLY DEVILLE – LIVE IN PARIS AND NEW YORK

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GRUPPO ITALIANO: GIARDINI DI MIRO’ – GOOD LUCK

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DVD MUSICALE: O.A.R. – LIVE ON RED ROCKS

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CONCERTO: ALEJANDRO ESCOVEDO – PAVIA

 

ALTRI DISCHI:

ZACHARY RICHARD – LE FOU

JOHN HIATT – MYSTIC PINBALL

PAUL SIMON – LIVE IN NEW YORK CITY

BOB DYLAN – TEMPEST

BAND OF HEATHENS – THE DOUBLE DOWN LIVE IN DENVER

MARLEY’S GHOST – JUBILEE

DREW NELSON: TILT A WHIRL

WIDESPREAD PANIC – WOOD

SPAIN – THE SOUL OF SPAIN

MUMFORD & SONS – BABEL

RUSTED ROOT – THE MOVEMENT

ED ROMANOFF – ED ROMANOFF

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OTIS GIBBS – HARDER THAN HAMMERED HELL

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MARY GAUTHIER – LIVE AT BLUE ROCK

MARK KNOPFLER – PRIVATEERING

DEVOTCHKA – LIVE WITH THE COLORADO SYMPHONY

DECEMBERISTS – WE ALL RISE OUR VOICES

THE MYSTIX – MIGHTY TONE

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POGUES – THE POGUES IN PARIS

THE WHITE BUFFALO – ONCE UPON A TIME IN THE WEST

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MICK FLANNERY – RED TO BLUE

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JAMES YORKSTON – I WAS A CAT FROM A BOOK

CORY CHISEL & THE WANDERING SONS – OLD BELIEVERS

MARY CHAPIN CARPENTER – ASHES & ROSES

RIVER CITY EXTENSION – DON’T LET THE SUN GO DOWN ON YOUR ANGER

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JEFF BLACK – PLOW THROUGH THE MYSTIC

BETH HART – BANG BANG BOOM BOOM

WOVENHAND – LIVE AT ROEPAN

SEAN ROWE – THE SALESMAN & THE SHARK

CALEXICO – ALGIERS

MINNESOTA – ARE YOU THERE

LOWLANDS – BEYOND

Tino Montanari

P.s. Ogni occasione è buona per segnalare nomi nuovi o tralasciati nel corso dell’anno, questi “esercizi” valgono anche come occasioni per segnalare sempre e comunque della buona musica. La lista del BEST 2012 di Mojo la pubblico domani. Vi basti sapere che il miglior disco dell’anno per la rivista inglese è Blunderbluss di Jack White. Non perché sia brutto, tutt’altro, ma il migliore. Mah!

Dovete anche avere pazienza se le pagine del Blog diventano “pesanti”, tra video ed immagini, e quindi ci mette un po’ di tempo a caricare, ma poi ne vale le pena, sempre buona lettura e buona visione e ascolto.

Bruno Conti

Un “Arzillo Vecchietto” Di 76 Annni, Ma Che Bravo! Johnnie Bassett – I Can Make That Happen

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Johnnie Bassett – I Can Make That Happen – Sly Dog Records

Johnnie Bassett è un gagliardo settuagenario, 76 anni per la precisione, che fa dell’ottimo Blues tinteggiato di soul e ricco di funky. Questo I Can Make That Happen è solo il 6° album in una carriera iniziata già negli anni ’50,  anche ci sarebbe pure un live del 1994 che inaugura la sua carriera discografica a quasi 60 anni suonati, e forse (ma senza il forse), questo ultimo è il suo miglior album in assoluto. Accompagnato dalla crema di due band locali di Detroit, i Brothers Groove e i Motor City Horns e accompagnandosi alla grande con la sua Gibson, di cui è un maestro, Bassett ci regala uno di quei rari dischi che si godono dall’inizio alla fine, un piccolo capolavoro di equilibri sonori tra blues e soul.

Nativo della Florida ma trapiantato a Detroit Mr. Bassett parte sparato con una funkyssima (si può dire!) Proud To be From Detroit con fiati in overdrive, ritmica in spolvero, la chitarra in primo piano e la voce che è ancora in grado di fare meraviglie. Love Lessons è un mid-tempo più rilassato con piano e organo a tratteggiare il suono del brano e la solita chitarra che cesella brevi e ficcanti assoli. Spike Boy è un’altra piccola meraviglia, Bassett nella presentazione sul sito la definisce una “Henry Mancini meets Blues” e per i suoi florilegi fiatistici che incontrano il suono limpido della chitarra e la voce espressiva del leader ci può stare. La title-track ha qualcosa del BB King degli anni d’oro, chitarra limpida e voce espressiva, fiati di supporto e tutta la band che gira a meraviglia intorno alla voce di Bassett, che anche nella scelta delle cover ha un gusto notevole: Cry To Me di Solomon Burke non è un brano facile da cantare, o vai allo scontro frontale con la voce del “King Of Rock’n’Soul” e rischi la figuraccia o ti inventi un arrangiamento divertente ed efficace alla Willy Deville (non so perché mi è venuto in mente lui!) e fai godere l’ascoltatore, come in questo caso.

Anche quando si passa al soul puro come nella sontuosa Teach Me To Love cantata in duetto con la “Diva” locale Thornetta Davis (che di tutte le etichette possibili nel mondo, è sotto contratto per la Sub Pop) Bassett si conferma cantante espressivo e partecipe come pochi. Dawging Around è uno strumentale swingatissimo con spazio per tutta la band ma fin troppo di maniera. Cha’mon è un altro brano ad alta gradazione funky che ci riporta ai temi musicali del brano iniziale e Bassett tenta anche un paio di urletti non male. Reconsider Baby è uno dei classici del Blues, scritto da Lowell Fulsom, l’hanno suonata e cantata un po’ tutti, da Bobby Bland e Magic Sam, per arrivare fino a Clapton e Bonamassa, ognuno nel proprio stile, la versione di Bassett ovviamente è vicina allo spirito dell’originale.

Altro blues classico ancorché scritto da Chris Codish, che è il tastierista dell’album e autore di molti dei brani, anche Motor City Blues è ancora un buon esempio della classe del vecchio Bluesman, ma nel finale il disco perde un po’ la spinta dei brani della prima parte e anche Let’s Get Hammered ha un bel groove, buoni interventi chitarristici e vigore vocale da parte di Bassett ma manca di quel quid che era presente in altri brani del’album. Dell’annunciata versione di Wind Cries Mary che mi aveva incuriosito non c’è traccia nell’album ma non inficia il giudizio più che positivo di questa prova di Johnnie Bassett.

Bruno Conti

Il “Blues Brother” Originale! Curtis Salgado – Soul Shot

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Curtis Salgado – Soul Shot – Alligator Records

Il nome Curtis Salgado ai più non dirà nulla, ma se partite dall’abbigliamento – giacca nera, occhiali scuri –  e poi vi soffermate sul genere musicale, blues, soul, R&B, e fate un salto temporale a Eugene, Oregon vicino a Portland, dove era la sua base in quegli anni, comincerete a capire. In quel periodo John Belushi era lì per girare il film Animal House e nei ritagli di tempo libero dalle riprese del film frequentava i locali della zona dove si esibiva un giovane musicista con la sua band che era già allora una forza della natura, un artista di culto locale, con degli spettacoli incendiari. I due diventano amici e Curtis Salgado inizia Belushi ai misteri della musica nera e insieme sviluppano l’idea che da lì a poco si  sarebbe trasformata nei Blues Brothers, prima con un tour nazionale che darà vita all’album Briefcase Full Of Blues e poi culminerà nel grandissimo film di John Landis.

I personaggi di Joliet Jake e Elwood Blues, che insieme sono il combinato della “persona” di Salgado, grande cantante ma anche armonicista, creati da Belushi e Aykroyd  che non hanno mai nascosto il debito dovuto a questo signore, anche se la cosa è poco nota (per usare un eufemismo): infatti se controllate attentamente le note dell’album originale, Briefcase, Salgado viene ringraziato, giustamente, e il personaggio interpretato da Cab Calloway nel film si chiama, guarda caso, “Curtis”! Diciamo solo che la sua carriera non ha avuto i riscontri commerciali e finanziari dei personaggi che ha ispirato ma Salgado oltre ad avere avuto il suo gruppo degli Stilettos, ha fatto parte della prima versione della Robert Cray Band, la migliore e poi ha contribuito al successo dei Roomful of Blues, ha cantato con Santana e con la Steve Miller Band dal vivo. Nel corso di una collaborazione con il grande chitarrista Albert Collins è stato lui ad inventare il nomignolo “Master Of The Telecaster”, eppure pensate che il primo album è solo del 1991 e nel corso della sua attività ne sono usciti solo otto compreso questo Soul Shot. Senza dimenticare che nel 2006 gli è stato diagnosticato un tumore al fegato e l’anno successivo è stato sottoposto (grazie ai fondi raccolti dai suoi amici musicisti) a un trapianto per debellare la malattia che nel frattempo si era estesa anche ai polmoni, ma ha superato anche questa prova. E nel 2008 era di nuovo sulla strada a fare concerti e realizzava quello che era il suo migliore album fino ad allora, l’eccellente Clean Getaway che gli valse il Soul Blues Male Artist Of The Year nel 2010.

Ma questo Soul Shot, il primo per la Alligator (che detto per inciso non sbaglia un colpo, Janiva Magness, Joe Louis Walker, JJ Grey & Mofro, Tommy Castro sono le ultime uscite dell’etichetta di Chicago) è ancora migliore. Come dice il titolo “Un’iniezione di soul”, questa volta siamo nel paradiso della musica nera: soul, R&B, funky anni ’70, gospel sono ottimi e abbondanti. Co-prodotto dal vecchio amico di Portland, Marlon McClain, che era il leader di una band nera degli anni ’70, i Pleasure (ho visto poche mani alzate) e da Tony Braunagel, batterista e leader della Phantom Blues Band, uno che del genere se ne intende, l’album è un gioiellino di cui godere profusamente. La voce di Salgado ricorda moltissimo quella del grande Solomon Burke (magari senza i picchi verso il basso e l’alto, ma il corpo centrale è quello), è pure un ottimo armonicista, della scuola soul/R&B, alla Stevie Wonder prima maniera per intenderci, ma maneggia anche il Blues alla grande e in più scrive delle belle canzoni, quattro per l’occasione e sceglie tra il repertorio storico della black music per questo album con una felicità di risultati sorprendente!

C’è il R&B trascinante di What You Gonna Do?, dalla penna di Bobby Womack, gioioso e inondato di fiati e coretti celestiali, con una band che suona alla grandissima: oltre al citato Braunagel (che negli anni ’70 e ’80 andava dallo stesso parrucchiere di Bolton e di Salgado, cercate le foto) ci sono Mike Finnigan all’organo e Jim Pugh al piano, una coppia che ti stende, Johnny Lee Schell coadiuvato dallo stesso McClain alle chitarre in alcuni brani e Larry Fulcher al basso, più Joe Sublett e Darrell Leonard a pompare ai fiati e Lenny Castro aggiunto alle percussioni, i risultati sono da ascoltare per credere. Love Comfort Zone uno dei brani firmati da Salgado è miele per le orecchie dell’appassionato del genere, puro Solomon Burke, Gettin’ To Know You è un funky da favola dal vecchio repertorio di George Clinton con fiati all’unisono che spingono la sezione ritmica e la voce verso vette notevoli di goduria, come se gli anni ’70 non fossero mai finiti e Salgado comincia anche a scaldare l’armonica. A proposito di armonicisti, le note del libretto sono curate da Dick Shurman, che per i due o tre che non lo conoscono era il Magic Dick della J Geils Band, uno che conosce molto bene l’argomento come il suo ex datore di lavoro, quel Peter Wolf che ci ha deliziato un paio di anni con il magnifico Midnight Souvenirs e qui siamo su quelle coordinate sonore.

She Didn’t Cut Me Loose, altro brano originale, tra funky d’annata e lo Stevie Wonder anni ’70 è sempre notevole. Fantastico il R&B fiatistico di Nobody But You, scritto da Charles Hodges, collaboratore storico di Al Green, per O.V. Wright, un altro che del genere se ne intendeva: sua era la versione originale di That’s How Strong My Love Is che poi avrebbero ricantato mastro Otis e i Rolling Stones. E i risultati si sentono, Curtis ci mette del suo, come pure nella bellissima soul ballad Let Me Make Love To You dove dà fondo alle sue risorse vocali per una interpretazione da brividi, degna dei maestri citati finora. Il brano era degli O’Jays, puro Philly Sound carico di deep soul in una accoppiata formidabile. Per stenderti definitivamente Curtis Salgado si cimenta con una cover maiuscola (e fedele all’originale, lui che può) della trascinante Love Man del grande Otis Redding, Stax sound in excelsis con la band che riprende le sonorità di Booker T. & The Mg’s & Co con notevole fedeltà.

He Played His Harmonica, la terza canzone scritta da Salgado, con il clavinet di Kurt Clayton che si aggiunge alle procedure è ancora ottimo funky anni ’70, tra blue eyed soul di gran classe e sonorità alla Marvin Gaye. Baby Let Me Take You In My Arms è stato uno dei successi dei Detroit Emeralds, altro grande gruppo vocale R&B dei primi anni ’70, un mid-tempo mellifluo con i fiati in primo piano a stuzzicare le acrobazie vocali di Salgado. Franck Goldwasser si unisce alla chitarra per una ripresa magnifica del classico soul lento di Johnny Guitar Watson (faceva anche quelli!), una Strung Out da antologia della musica soul. E sul dilemma finale, A Woman or The Blues, che probabilmente non verrà mai risolto, si conclude in puro stile tra Blues Brothers, gospel e Solomon Burke d’annata, questo gagliardo Soul Shot che si merita fin d’ora un posto d’onore tra i migliori dischi del genere dell’anno.

Anche se comprate pochi dischi quest’anno non fatevi mancare questo, ne vale la pena! In teoria esce il 10 aprile negli States, ma in Italia circola già in anticipo.

Bruno Conti

P.s. Per la serie collegamenti d’idee, vi consiglio nuovamente il disco di un altro Curtis, Stigers che con Let’s Go Out Tonight ha fatto veramente un ottimo lavoro e, sempre la prossima settimana, esce anche un doppio CD dal vivo postumo di Solomon Burke intitolato The Last Great Concert per la Rockbeat Records. Problema di quest’ultimo, il prezzo e la reperibilità.

Vecchie Glorie 3. Huey Lewis And The News – Soulsville

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Huey Lewis And The News – Soulsville – Proper/Ird

Gli anni passano per tutti ma questo 3° capitolo dedicato alle “vecchie glorie” ci porta buone nuove, anzi ottime, questo nuovo capitolo della saga di Huey Lewis & The News Soulsville, è uno dei migliori della loro storia. Si tratta di un grande album in tutti i sensi: nella loro discografia, nelle uscite di quest’anno, negli omaggi dedicati alla soul music, dovunque lo mettiate fa il suo figurone. Come potete vedere dalla foto i nostri amici non sono più propriamente di primo pelo, a parte Huey Lewis (che potrebbe fare una gara di sopracciglie con Elio, non saprei chi vincerebbe) e il batterista Bill Gibson che hanno stipulato un piccolo patto con il Diavolo (piccolo perché invecchiano sì, ma con grazia) gli altri mostrano gli anni, qualcuno se ne è andato, alcuni per sempre, ma dopo nove anni di silenzio dal precedente Plan B (che francamente non era un granché) sono tornati con il loro nono album.

Registrato ai mitici Ardent Studios di Memphis con la supervisione di Jim Gaines che era uno degli ingegneri del suono originali degli Stax Sudios (e produttore in tempi recenti di Lance Lopez e Ana Popovic di cui vi ho parlato in questo Blog, ma anche in passato di Santana, Stevie Ray Vaughan, Blues Traveler, gli stessi Huey Lewis & The News e una miriade di altri, se volete controllare nel suo sito la lista è impressionante gcredits.html). Quattordici brani scelti con certosina pazienza tra l’immane catalogo della Stax, cercando per quanto possibile di non cimentarsi con i pezzi da novanta di quel repertorio o con i pezzi già rifatti mille volte. Il risultato, come già detto, è fantastico, nulla a che vedere con Four Chords £ Several Years Ago il disco del 1994 che partiva più o meno dalle stesse premesse ma che in fase di esecuzione, visto in prospettiva, è un pallido fratello di questo Soulsville.

Huey Lewis ha sempre avuto nel suo DNA l’amore per questo tipo di musica (e per il rock) dai tempi dei Clover,il suo primo gruppo, nato in California ad inizio anni ’70 e poi trasferitisi in Inghilterra nel periodo del pub-rock a metà anni ’70 e presi in prestito da Elvis Costello (che non aveva ancora gli Attractions) per registrare il suo primo album, My Aim Is True (gran disco, detto per inciso). Tornato negli States a fine decade, fondendo parte dei Clover con i Soundhole nascono Huey Lewis and The News. Per non farla molto lunga (ma ci sarebbero altre cose interessanti da dire) il gruppo diventa uno tra i più rappresentativi (loro malgrado) degli anni ’80, dischi come Sports (7 milioni di copie) e Fore (3 milioni) hanno venduto a vagonate e canzoni come Heart and soul, This Is It, I Want a New Drug, The Heart of Rock & Roll e, soprattutto, The Power of Love, sono rimasti (con i loro video in heavy rotation su MTV) nell’immaginario collettivo di quegli anni.

Ma questi signori facevano dell’ottima musica, al di là dei successi, intrisa di R&R, Blues, Soul e R&B. E non hanno perso il vizio. Prendete una manciata di classici, munitevi di un coro di voci femminili, imprescindibili se vuoi fare della musica soul (pensate alle Raelettes di Ray Charles o alle Sweet Inspirations di Aretha Franklin), aggiungi una serie di fiati, una sezione ritmica agile ma anche rocciosa, tastiere e chitarre a volontà, un cantante anche con il pallino dell’armonica, shakera il tutto e il risultato è questo Soulsville.

Oltre a tutto in questi anni in cui non hanno prodotto nuovi dischi hanno continuato a suonare dal vivo e la voce di Huey Lewis ha acquisito una patina di vita vissuta che aggiunge ulteriore fascino al suono del disco, ora più pimpante, ora più riflessiva ha una maturità e una consapevolezza nei propri mezzi che mi ha ricordato per certi versi quella di Peter Wolf che qualche mese ci ha regalato un fantastico disco intitolato Midnight Souvenirs pochi-ma-buoni-peter-wolf-midnight-souvenirs.html. Questo di Huey Lewis è molto più soul oriented ma le coordinate sonore sono quelle.

Qualche titolo? L’iniziale Don’t Fight It, in un florilegio di fiati, tastiere e voci femminili non ha nulla da invidiare all’originale di Wilson Pickett (beh forse la voce, “The Wicked Pickett” era un n.1). Got To Get You Off My Mind e poche tracce dopo, Cry To Me, peraltro bellissime entrambe, vengono però dal repertorio di Solomon Burke che come sappiamo non ha mai inciso per la Stax, quindi qui hanno barato, ma vuoi stare a spaccare il capello (tra l’altro i brani e i relativi coretti femminili ti comunicano una gioia e una solarità incredibili, ho fatto anche la rima). Free, bluesatissima e con una slide minacciosa, un basso poderoso e ancora fiati e coriste in overdrive è ancora magnifica.

E che dire di Respect Yourself (questa come Cry To Me è famosissima): la facevano gli Staples Singers e la parte che fu di Mavis Staples in questa versione la fa una certa Dorothy Morrison, vocalist fantastica che ai più non dirà molto ma è stata l’autrice di Oh Happy Day, un brano che ha venduto fantastiliardi di copie nella versione degli Edwin Hawkins Singers e che ogni Natale allieta le nostre festività, lei, per dirla con un eufemismo, ha una voce della Madonna (non la cantante).

Di Cry To Me vi ho già detto, una delle più belle canzoni soul di tutti i tempi e questa versione non le reca certo danni, anzi! Just One More Day forse non era una delle canzoni più conosciute di Otis Redding, ma sicuramente una delle più belle, la quintessenza del suono Stax e della musica Soul e questa versione di Huey Lewis le rende sicuramente il giusto omaggio (anche se Otis era Otis!).

Never Found A Girl era di Eddie Floyd, Little Sally Walker era di Rufus Thomas, sincopatissima ma non me la ricordavo proprio (anche se ho tutti e tre i cofanetti dei singoli della Stax), comunque c’è, volume 1, cd 4, brano 19, ho verificato. Just The One (I’ve Been Looking For) era di Johnnie Taylor ma sono tutte belle non c’è una scarsa, da scoprire assolutamente e poi, volendo, tornare a scoprire agli originali.

Questa è Soulsville un omaggio a quella etichetta magica, senti che roba!

Disco propedeutico quindi, ma bello di suo, e diciamolo!

Bruno Conti

Un Paio Di Informazioni Utili – Hendrix Tribute Concert Con Popa Chubby E Nuovo Album Postumo di Solomon Burke

Hendrix & Solomon Burke News

 

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Era un po’ di tempo che non mi dedicavo al Non Tutti Sanno Che… ma visto che oggi ho avuto un paio di informazioni interessanti da condividere, pubblico volentieri.

Partiamo con l’Hendrix Tribute Tour che dopo una prima apparizione estiva arriva anche a Milano (con un nuovo cast di musicisti) il 22 novembre 2010 al Teatro Ciak (prezzi 22.00 – 27.50). Si tratta di quello spettacolo itinerante che in giro per il mondo rende omaggio alla musica di Jimi Hendrix interpretata da musicisti di tutte le estrazioni musicali ma che hanno un unico Credo, amare l’opera del grandissimo Jimi. L’headliner della data italiana è il grande Popa Chubby (e non mi riferisco assolutamente alle dimensioni), uno dei migliori chitarristi in ambito rock-blues nel panorama mondiale. Per essere sincero gli ultimi album non mi hanno entusiamato (ma se siete anche lettori del Buscadero potete trovare molte mie recensioni del passato dedicate al musicista newyokese dove ne ho tessuto, giustamente, le lodi), chiusa parentesi anche figurativamente, occorre dire che però dal vivo rimane una vera forza della natura ed è anche titolare di uno spettacolare triplo CD Electric Chubbyland interamente dedicato alla rivisitazione del repertorio del mancino di Seattle, che sarebbe questo che vedete qua sotto (il CD).

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Se non lo conoscete ma siete appassionati della musica di Hendrix vi consiglio seriamente di farci un pensierino perchè ne vale le pena (esiste anche un DVD Popa Chubby Plays Jimi Hendrix At The File 7 sempre sullo stesso argomento).

Ma contrariamente a quanto evidentemente pensano gli organizzatori della serata non ci sarà solo Popa Chubby (ve lo dico perché avendo acquistato il biglietto riporta solo il nome di Popa Chubby) ma saranno presenti anche Tolo Marton, lo “storico” (senza offesa) chitarrista trevigiano, uno dei migliori interpreti della chitarra rock-blues in Italia, grande virtuoso dello strumento, non mancherà anche Vic Vergeat uno dei massimi cultori del power-trio internazionale già leader nei tempi che furono degli svizzeri Toad (ma lui è nato a Domodossola) e, last but not least, come dicono quelli che parlano bene l’inglese, Danny Bryant, chitarrista di provenienza britannica anche lui grande axemen forse il più orientato verso il Blues ma nei sette album che compongono la sua eccellente discografia (anche lui trattato da chi scrive sul Busca) capace di furori e tributi Hendrixiani. Che dire? Intervenite numerosi!

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Passando ad un altro argomento che riguarda una fresca dipartita, quella di Solomon Burke, volevo anticiparvi l’uscita per la Universal il 16 novembre del nuovo album Hold On Tight e riferirvi che non si tratta della solita operazione di sciacallaggio che spesso si scatena alla morte di un personaggio famoso. Il CD in questione doveva già uscire in questo periodo e il viaggio di Burke ad Amsterdam sarebbe servito proprio per il lancio di questo nuovo album registrato proprio in Olanda con i De Dijk, che sono un gruppo locale di qui il buon Solomon si era innamorato e aveva voluto registrare un album con loro. In pratica le canzoni dei De Dijk sono state tradotte dall’olandese in inglese e ri-registrate per l’occasione con la non trascurabile aggiunta della straordinaria voce di Solomon Burke, per l’occasione il grande soulman ha anche composto un nuovo brano Text Me che resterà il suo canto del cigno. Non manca un ospite di nome, un suo grande fan, che lo ha voluto spesso nella sua trasmissione Later with Jools Holland, il pianista britannico appare nel brano What A Woman. Siccome vedo delle faccine furbe ( e informate) vi segnalo che il disco in Olanda è già uscito il 1° ottobre, la data di cui sopra si riferisce al mercato italiano. E questo è  la canzone in questione watch?v=uVwKawBbcno, la voce è ancora incredibile rendendo più triste la sua recente dipartita quando era in piena attività. Eccolo sul palco (la qualità video non è fantastica, ma chissenefrega) con i De Dijk in una struggente Don’t Give Up On Me e in una trascinante Everybody Needs Somebody To Love. So Long Solomon!

E’ tutto anche per oggi.

Bruno Conti