Recuperi (E Sorprese) Di Fine Anno 1. Aiuto! Il Mio Lettore Va A Fuoco! The Sonics – This Is The Sonics

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The Sonics – This Is The Sonics – Revox CD

Quando è uscito questo disco l’ho preso più che altro per curiosità, senza immaginare che mi sarei ritrovato a fine anno ad inserirlo tra i miei dieci preferiti del 2015. I Sonics, storica garage band proveniente da Tacoma, stato di Washington, erano inattivi discograficamente addirittura dal 1967 (il peraltro rinnegato Introducing The Sonics, in quanto Sinderella del 1980 era composto da rifacimenti di alcune loro canzoni, ma nulla di nuovo), e gli anni diventano 49 se si conta dal loro secondo LP, Boom, che seguiva di un anno il bombastico esordio di Here Are The Sonics. I Sonics sono il prototipo della band di culto per antonomasia, di scarso (per non dire nullo) successo, ma di grande influenza per le generazioni di musicisti a venire: il loro suono, un rock’n’roll grezzo, potente ed aggressivo, viene considerato il progenitore del punk degli anni settanta e del grunge dei novanta, ed i due dischi del biennio 1965-1966 sono la punta di diamante del movimento garage sotterraneo, insieme agli album di band quali The Wailers, The Kingsmen e Paul Revere & The Raiders (questi ultimi però il successo lo conobbero eccome), anticipando di diversi anni l’effetto della storica compilation Nuggets (dalla quale erano peraltro assenti, ma furono inclusi con la loro Strychnine nella riedizione espansa in box del 1998).

I musicisti che hanno più o meno fatto riferimento negli anni al gruppo di Tacoma sono molteplici: i nomi più noti sono quelli dei Nirvana, White Stripes, Dream Syndicate, Flaming Lips e perfino Bruce Springsteen, che ha più volte proposto dal vivo la cover di Have Love, Will Travel di Richard Berry nell’arrangiamento proprio dei Sonics. This Is The Sonics non è però un disco di settantenni bolsi e patetici che si sono rimessi insieme per ricordare i vecchi tempi, ma una vera e propria bomba sonora che mi ha lasciato senza fiato, una scarica elettrica che attraversa le dodici canzoni del CD con la stessa forza di una scossa tellurica. I membri originali sono tre su cinque (Gerry Roslie, voce, piano e organo, Larry Parypa, chitarra solista e voce, Rob Lind, sassofono, armonica e voce), coadiuvati da Freddie Dennis (Kingsmen) al basso e voce e da Dusty Watson (Dick Dale Band) alla batteria, e con questo disco ci dimostrano che nonostante l’età sono in grado di dare dei punti (e tanti) anche a gente di due o tre generazioni successive.

Ma il disco, che si divide tra cover e brani originali, non è solo musica suonata a volume alto, ma anche con grande energia e feeling, un muro sonoro dominato dalla chitarra di Parypa che mena fendenti e riff a destra e a manca e dal sassofono impazzito di Lind, con una sezione ritmica che definire rocciosa è poco, un rock’n’roll quasi primordiale, con elementi blues ed errebi che colorano maggiormente il tutto. Fare una disamina dettagliata brano per brano in questo caso è quasi inutile, in quanto tutto il disco è una fucilata dal primo all’ultimo pezzo, a partire dall’uno-due iniziale da k.o., con la cover di I Don’t Need No Doctor (Ray Charles), un rock-blues tirato allo spasimo che ricorda il suono del disco dello scorso anno di Roger Daltrey con Wilko Johnson (ma con un sound ancora più “primitivo”), e la devastante Be A Woman, suonata a ritmo indiavolato e con il ritornello letteralmente sparato in faccia dell’ascoltatore.

La grezza Bad Betty precede uno degli highlights del CD, cioè una cover incredibilmente energica di You Can’t Judge A Book By The Cover di Willie Dixon (però portata al successo da Bo Diddley), con il sax in evidenza, ed una The Hard Way che spazza via in un sol colpo l’originale dei Kinks (non certo gli ultimi arrivati). Tra le mie preferite ci sono anche il rock’n’roll suonato ai duecento all’ora Sugaree, la furiosa Look At Little Sister (Hank Ballard, peraltro rifatta mirabilmente negli anni ottanta da Steve Ray Vaughan), la roca Livin’ In Chaos (mi brucia la laringe solo ad ascoltarla) e le conclusive Save The Planet e Spend The Night, che mettono definitivamente al tappeto chiunque sia ancora in piedi a questo punto.

E’ da molto tempo che un disco non mi dava questa adrenalina: per me album rock’n’roll dell’anno.

Marco Verdi

Puro Rock Americano Anni ’80! Michael Stanley Band – Live At The Ritz NYC 1983

michael stanley band - live at the ritz

Michael Stanley Band – Live At The Ritz NYC 1983 – 2 CD  Line Level/Classic Music Vault 

Rock americano anni ’80, croce e delizia degli appassionati: come direbbero negli States “big drums, big guitars, a lot of keyboards” e non sempre l’abbondanza è sinonimo di qualità! Siamo negli anni che preludono allo Springsteen di Born In The Usa, ma sono anche gli anni di John Mellencamp quando era ancora Cougar, del cosiddetto “Heartland rock”, quello anche di Tom Petty e Bob Seger, ma qui stiamo citando gli esempi più virtuosi, al filone si facevano risalire anche gli Iron City Houserockers di Joe Grushecky, ma pure gente come Eddie Money o i paladini di certo AOR, come Foreigner, REO Speedwagon, Journey e via discorrendo. In mezzo ai due guadi si trovava Michael Stanley con la sua band, d’ora in poi la MSB. Confesso che alcuni titoli in LP all’epoca li avevo, Heartland e North Coast non erano neppure male, ma certi inserti di tastiere e sax, pur con le produzioni di Eddie Kramer e Bob Clearmountain, sentiti oggi, come direbbe qualche comico di cabaret, “fanno accapponare i capelli”!

Anche se al sax nei dischi in studio c’era Clarence Clemons e il cuore della band di Cleveland, Ohio, batteva dal lato giusto della strada https://www.youtube.com/watch?v=G50CZ5lw2CQ . Nel 1983 pubblicano quello che sarà il loro ultimo disco per una major, You Can’t Fight Fashion, e il 4 ottobre sono al Ritz di New York, per registrare un broadcast radiofonico che sarà trasmesso da una emittente locale: particolarità quasi unica, come si desume anche dagli annunci captati nell’etere, è quella che il concerto si tiene alle dieci di mattina(?!). Della formazione originale oltre a Stanley è rimasto solo il batterista Tommy Dobeck, maestro delle lunghe rullate che imperavano all’epoca, ma anche valido trascinatore, mentre le doppie tastiere di Pelander e Raleigh non sempre si digeriscono con facilità e Danny Powers, il nuovo chitarrista, è un buon solista ma di quelli “esagerati”, diciamo più Eddie Money che Springsteen, Mellencamp o Seger, completa la line-up Ricky Bell, sassofonista funzionale ma nulla più in questa matinée a NY. Il concerto è anche piacevole (inedito fino ad oggi): si parte con Working Again, un bel pezzo rock che ha più di una parentela con il Billy Joel rocker dell’epoca, incrociato con Springsteen e Mellencamp, con la voce maschia di Stanley in bella evidenza; In The Heartland, anche se con chitarre fumiganti, è del buon blue-collar rock.

I’ll Never Need Anyone More è pari pari il John Cougar di Ain’t Even Done With The Night, mentre High Life, testo sui personaggi della vita notturna californiana, fa molto Pat Benatar di quegli anni o la primissima Melissa Etheridge, ancora da venire, con eccessi di sax e tastiere, ma c’era in giro molto di peggio (e ne sarebbe arrivato, tipo l’hair metal o la dance wave britannica). How Can You Call This Love è abbastanza “molliccia”, nonostante l’andatura rock, Hard Time, con un basso incalzante potrebbe essere una via di mezzo tra i Police e il rock fin qui descritto, e pure In Between The Lines, buona invece una ballatona come Spanish Nights e anche My Town, il loro ultimo singolo di classifica nel 1983, ha la giusta grinta. Fire In the Hole ha una intro alla Van Halen, ma il resto è meno tamarro (non troppo), Someone Like You, uno dei pezzi scritti e cantati dal tastierista Kevin Raleigh è molto AOR. Insomma ci siamo capiti, buon rock quello della MSB, ma niente per cui strapparsi i capelli. Il secondo CD bonus riporta invece un concerto realizzato per la BBC nel 1981, Bell al sax è molto più motivato  e il chitarrista era ancora Gary Markasky, il tutto è registrato a Cleveland, e anche se il repertorio in parte coincide, il suono e la resa casalinga mi sembrano decisamente più convincenti, basta sentire la sequenza In The Heartland e I’ll Never Need Anyone More (che qui sembra più Dancing In the Dark) https://www.youtube.com/watch?v=YLoNhMJFGvU  che raffigura molto meglio il gruppo che ricordavo ai tempi, chitarre ruggenti, voce pimpante e ritmi tirati, Working Again,è una schioppettata di energia, Somewhere In the Night, Don’t Stop The Music e He Can’t Love You, ribollono di sano rock, anche springsteeniano, Lover è una buona ballata notturna, per quanto un filo ruffiana https://www.youtube.com/watch?v=7m6wRBNLJnM . Insomma mi pare che il CD “giusto” sia questo, anche qui senza fare la lista di tutti i brani e senza gridare al miracolo, del buon rock anni ’80.

Bruno Conti     

Uno Dei Migliori Album Dal Vivo Del 2015! Blue Rodeo – Live At Massey Hall

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Blue Rodeo – Live At Massey Hall – Warner Music Canada 

I Blue Rodeo sono una delle migliori band canadesi all time https://www.youtube.com/watch?v=y3C1SWVquXA , non per nulla sono nella Hall Of Fame musicale del loro paese, insieme a gente come Leonard Cohen, Neil Young, Joni Mitchell, Oscar Peterson, Bruce Cockburn e pochi altri, hanno vinto 11 Juno Awards (l’equivalente canadese dei Grammy, ed è un record assoluto) grazie ai tredici album di studio e ai quattro Live pubblicati. Dopo oltre 30 anni di carriera la qualità dei loro dischi non sembra scemare e se forse non hanno più raggiunto i vertici stellari dei primi album, titoli come Diamond Mine, Lost Together e Five Days In July, dischi dove la grande tradizione della musica canadese, quella discendenza che da Neil Young e dalla Band arriva a miriadi di band venute dopo: uno stile terso ed avvolgente, malinconico e coinvolgente, con tratti del country-rock migliore, roots music ed Americana, armonie vocali degne dei migliori Beatles o della Band ricordata, una capacità strumentale che non sfocia mai nel virtuosismo fine a sé stesso, ma che soprattutto nei dischi dal vivo ha la capacità a tratti di mandarti vampate di piacere al cervello. E in questo Live At Massey Hall ci sono due o tre brani che fanno questo effetto.

Forse ho esagerato, ma gruppi come quello di Jim Cuddy e Greg Keelor sono merce rara, due autori e due voci che si intrecciano e si differenziano in modo perfetto: Cuddy è quello dalla voce più squillante e dal mood compositivo più brillante e vivace, Keelor, con la voce più bassa ed arrochita dal passare degli anni è più malinconico e meditativo, ma è proprio l’unione dei due stili, che sono anche interscambiabili, che spesso rende affascinanti le loro canzoni. Nel caso di questo Live, registrato alla mitica Massey Hall di Toronto nel corso del tour 2014 per promuovere l’album In Our Nature, tutti gli elementi citati sono presenti, con la band, ampliata a sette elementi, da quando Keelor per problemi all’udito non può più suonare l’elettrica nei concerti, ha aggiunto altri due chitarristi all’organico ed è diventata una vera macchina da guerra, con Cuddy e Colin Cripps che si dividono gli assolo, mentre Bob Egan, ex Wilco, a pedal steel, mandolino, banjo, dobro e chitarra provvede ad un eccellente lavoro di coloritura del suono, aiutato dalla tastiere scintillanti di Michael Boguski  e dalla solida sezione ritmica con il nuovo entrato Glenn Milchem alla batteria e il veterano Basil Donovan al basso, che ogni tanto si lancia in mirabili momenti solisti, come nella parte finale della conclusiva Lost Together.

Tutto il concerto è fantastico,  ben cinque brani dall’ultimo eccellente In Our Nature http://discoclub.myblog.it/2013/11/14/festeggiano-25-anni-e-spiccioli-di-carriera-con-un-grande-di/ , ma anche molti classici dal passato, a partire dall’iniziale Head Over Heels (era su Five Days In July), con l’armonica quasi dylaniana di Jim Cuddy e un train sonoro degno del miglior country-rock grazie alla pedal steel di Egan,, subito con le armonie vocali che ti avvolgono e ti cullano; Rose Coloured Glasses era sul primissimo Outskirts, più malinconica e riflessiva, cantata da Keelor, con un jingle-jangle quasi byrdsiano, seguita da Bad Timing (sempre su Five Days In July), una stupenda ballata romantica con uso di fisarmonica, mentre Disappear è uno dei quattro brani che superano gli otto minuti, un pezzo rock splendido, chitarristico, con tanto di finto finale da chansonnier francese con la voce che allontanandosi dal microfono “scompare”, prima di lasciare spazio ad una lunga coda strumentale, dove il piano di Boguski rievoca certi pezzi epici di Springsteen. New Morning Sun e Tara’s Blues, sono due bellissime ballate estratte dall’ultimo In Our Nature, come pure Tell Me Again un piacevole e scanzonato brano country e la deliziosa When The Truth Comes Out, dove Cuddy siede al piano.

Finita la sezione dedicata al presente della band è la volta di uno classici assoluti dei Blue Rodeo, quella Diamond Mine che dava il titolo al loro album più bello, una versione “epica”, di oltre nove minuti, continui intrecci di chitarre elettriche e tastiere di grande fascino, e un finale strumentale in crescendo, uno dei momenti dove quasi ti viene da alzare il pugnetto, anche se si trovi a migliaia di chilometri e a due anni di distanza da quando il tutto accadeva, grande musica, che prosegue con Girl Of Mine, sempre dallo stesso disco, illustra il lato più gentile e riflessivo, prima di After The Rain, che era su Casino, altra perla dal loro songbook, degna della Band, di nuovo con Cuddy al piano e quelle armonie vocali incredibili da gustare a fondo. La raccolta e melancolica Paradise, è il quinto e ultimo brano tratto da In Our Nature, cantato con passione da Keelor, mentre l’armonica di Cuddy e il piano di Boguski cesellano note. Gran finale con una magnifica Five Days In May che rivaleggia con le più belle canzoni di Neil Young, per la sua tersa e cristallina bellezza, di nuovo florilegi di piano (fantastici), organo e armonica, prima di una jam chitarristica da brividi a concludere il tutto. Ma il concerto non finisce qui: sale sul palco la Devin Cuddy Band (il gruppo del figlio di Jim) per una corale e meravigliosa Lost Together, un brano dall’impianto vocale sontuoso che conclude in gloria un Live che conferma la band canadese tra i segreti meglio custoditi del rock internazionale, al di fuori dei confini del natio Canada. Da non perdere!

Bruno Conti

Lo “Springsteen” Del Texas E’ Tornato! Pat Green – Home

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Pat Green – Home – Green Horse/Thirty Tigers CD

A ben sei anni dall’ultimo disco composto da brani originali, What I’m For (Song We Wish We’d Written II del 2012, seguito del primo volume in coppia con Cory Morrow, era composto esclusivamente da covers), torna con un album nuovo di zecca Pat Green, ovvero uno dei country acts più popolari della scorsa decade, autore di diversi CD di successo, tra i quali Wave On Wave e Cannonball sono senz’altro i più noti. Ora Pat torna con questo Home che, a dispetto del buon successo ottenuto da What I’m For, non esce per una major ma bensì per una etichetta indipendente (affiliata con la benemerita Thirty Tigers): sei anni d’altronde è un periodo molto lungo tra un disco e l’altro, e si sa che le major oggi non hanno pazienza, vogliono tutto e subito; Pat però ha avuto necessità di fermarsi, di riflettere, ha messo a punto un disco solo quando aveva le canzoni giuste, ed il risultato gli ha dato ragione, dato che Home è entrato di botto nella Top 5 Country di Billboard. Green, anche nei momenti di maggiore popolarità, non si è mai venduto, ma ha sempre mantenuto il suo suono degli esordi, un country decisamente imparentato col rock, molto chitarristico e con arrangiamenti ad ampio respiro, che, combinato con testi che narrano la vita quotidiana di persone normali, gli hanno fatto guadagnare il soprannome di “Bruce Springsteen del Texas”.  

Fortunatamente, anche il nuovo album non si discosta dallo standard medio-alto al quale il nostro ci ha abituati: prodotto da un trio formato da Jon Randall Stewart (fino al 2005 collega di Pat e poi dedicatosi soltanto a produzione e songwriting), Justin Pollard (il batterista del disco) e Gary Paczosa (Dolly Parton, Alison Krauss), Home presenta una bella serie di canzoni di sano e corroborante country-rock texano come Pat è solito regalarci, scritte in collaborazione con alcuni dei più bei nomi del settore e non (il nostro beniamino Chris Stapleton, presente anche come vocalist di supporto, Andrew Dorff, Walt Wilkins e Dierks Bentley), oltre ad ospitare ben quattro duetti con colleghi di gran nome, che scopriremo man mano. La title track apre il disco con il piede giusto, un rockin’ country dalla melodia coinvolgente e ritmo sostenuto, nella migliore tradizione (texana) del nostro, voce forte e piena, chitarre spiegate e grande feeling https://www.youtube.com/watch?v=bQiJ3WXtX1k ; Break It Back Down è più country, il violino si sente maggiormente, ma la sezione ritmica picchia lo stesso come un martello, anche se Pat canta in maniera più tranquilla https://www.youtube.com/watch?v=rQBO5WTZpl8 .Girls From Texas, che è anche il primo singolo, ospita la prima collaborazione di prestigio del CD: vediamo infatti a duettare con Pat il grande Lyle Lovett, in una ballata languida e rilassata, che potrebbe benissimo uscire da un disco del texano col ciuffo; le due voci si integrano alla perfezione, anche se è chiaro che quando Lyle si prende il microfono la temperatura sale.

Bet Yo Mama è dura, roccata, quasi sudista, con il blues nelle note ed una grinta non comune, mentre Right Now (il brano scritto con Stapleton) vede la partecipazione di Sheryl Crow, ultimamente reinventatasi come country girl: il pezzo, una ballata semiacustica dal notevole pathos, è decisamente ben eseguito, e Sheryl è più che credibile nelle vesti di partner vocale https://www.youtube.com/watch?v=aokv_q7zfXw .While I Was Away è un altro slow cantato con grande anima, che ha una delle migliori melodie del CD, mentre May The Good Times Never End ospita il grande Delbert McClinton alla voce (e armonica) e Lee Roy Parnell alla slide, ed il brano è esattamente come uno si potrebbe aspettare,  un soul-rock sudista tutto ritmo e divertimento, con le ugole dei due headliners che si integrano alla perfezione e Parnell che li accompagna da par suo https://www.youtube.com/watch?v=vIRfAxJ6Bvs . La bella Life Good As It Can Be è ariosa, limpida, tersa, e sembra quasi un brano di stampo californiano (il ritmo e l’intro di chitarra acustica ricordano vagamente Learning To Fly di Tom Petty) https://www.youtube.com/watch?v=9Ien9KnZ2jg , No One Here But Us è intima e meditata, anche se l’arrangiamento è comunque full band, mentre I’ll Take This House è roccata e solida, con un drumming potente ed un refrain da applausi: puro Texas rock’n’roll. L’album si chiude con la ballad elettrica I Go Back To You, ennesimo brano dallo script maturo e dal suono potente, la tenue e deliziosa Day One e l’irresistibile Good Night In New Orleans, cantata in collaborazione con il Lousiana Kid Marc Broussard, che inizia come un lento bayou-soul per poi tramutarsi in un coinvolgente cajun-rock dal ritmo forsennato https://www.youtube.com/watch?v=hdriYjjw_ow .

Non solo Pat Green non ha perso lo smalto, ma con Home ci regala uno dei suoi dischi più riusciti.

Marco Verdi

Per Ora, Il Migliore Album Di “Rock’N’Soul” Dell’Anno! – Nathaniel Rateliff & The Night Sweats

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Nathaniel Rateliff – Nathaniel Rateliff & Night Sweats – Stax / Universal

Avevo lasciato Nathaniel Rateliff che sussurrava le canzoni di Falling Faster Than You Can Run http://discoclub.myblog.it/2014/02/23/il-ritorno-del-giardiniere-nathaniel-rateliff-falling-faster-than-you-can-run/ , e ora lo ritrovo sul mio lettore con questo nuovo lavoro dove  ha cambiato completamente stile e suono, una manciata di canzoni intinte nel classico soul della “Stax” anni sessanta, che ci rimandano ai mitici Otis Redding e Sam & Dave, ma anche Sam Cooke, Wilson Pickett e compagnia cantante. Prodotto dal navigato ex (?)-cantautore  Richard Swift (Black Keys, Damien Jurado fra i tanti), Nathaniel Rateliff & The Night Sweats, oltre al barbuto e tatuato Rateliff alla voce, chitarre, basso e percussioni, si avvale di una “gang” di musicisti dalle facce poco raccomandabili, ma di indubbio valore, tra i quali lo stesso Richard Swift all’organo e piano, Patrick Meese alle chitarre, basso, batteria e percussioni, Mark Shusterman alle tastiere, Starett Rogers al basso, e una formidabile sezione fiati composta da Nick Krier, Adam Shaffner, Leah Concialdi, Andreas Wild al sassofono baritono e tenore, Rick Benjamin al trombone, e Derek Banach  e Wesley Watkins alla tromba, per undici tracce che ripercorrono in un certo senso la storia dei mitici Muscle Shoals Studios.

La partenza è fulminante fin dall’iniziale I Need Never Get Old con atmosfere che richiamano il “sound” Stax, a cui fanno seguito una Howling At Nothing con la voce baritonale di Nathaniel che viene supportata dai cori della sua band, Trying So Hard Not To Know dove viene evidenziato un grande lavoro di chitarre e percussioni, per poi passare all’honky-tonky di I’ve Been Falling, introdotto dal piano su un tessuto di fiati dall’arrangiamento corposo, e una S.O.B. (una delle più belle canzoni dell’anno), che inizia con dei semplici battimani e un coro che richiama i canti di lavoro dei neri nelle piantagioni di cotone e che poi si trasforma, nel ritornello, in una “vampata” di suoni irresistibili, dove è proprio impossibile non muovere il piedino. Dopo questa scossa adrenalinica si riparte con il moderno country di Wasting Time, mentre con Thank You si ritorna alla classica ballata soul alla Sam Cooke, passando pure per un R&B d’antan come Look It Here, a cui fanno seguito Shake, un bel blues d’atmosfera, una deliziosa ballata folk-soul I’d Be Waiting cantata in un tono confidenziale alla Gary U.S. Bonds (recuperate ad ogni costo, se già non l’avete, Dedication, l’album che contiene alcuni brani di e con Springsteen https://www.youtube.com/watch?v=nTKtcsUjVMc ), andando a chiudere forse con il brano più debole del disco, Mellow Out con un ritornello ossessivo ma comunque piacevole da ascoltare.

Nathaniel Rateliff & The Night Sweats è un sorprendente album di soul classico, forse nulla di nuovo ma fatto un gran bene, con belle canzoni che trovano le loro radici nel “gospel” e nella musica nera in generale, suonato in modo impeccabile da una potenziale grande band come i Night Sweats, dove spicca il talento e il timbro vocale di Nathaniel Rateliff, con tutto l’insieme di questi fattori che dà a questo lavoro concreto e robusto lo spirito che ha illuminato quei meravigliosi anni.

Per il sottoscritto, sicuramente uno dei dischi dell’anno, per tutti gli altri, fidatevi, grande musica.!

Tino Montanari

Il Disco Del Giorno (E Forse Del Mese)! Graham Parker & The Rumour – Mystery Glue

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Graham Parker & The Rumour – Mystery Glue – Cadet Concept/Universal

Oggi esce in Italia e in molti altri paesi (europei ed americani) Mystery Glue, il nuovo album di Graham Parker & The Rumour, il secondo dopo la reunion del musicista di Londra con la sua band storica, sancita nel novembre del 2012 dall’uscita dell’ottimo Three Chords Good http://discoclub.myblog.it/2012/12/03/di-nuovo-insieme-graham-parker-the-rumour-three-chords-good/ e dalla partecipazione alla colonna e al film di Judd Apatow This Is 40. Il disco ha avuto un buon successo di critica e di pubblico e quindi i 6 hanno deciso di dare un seguito a quell’esperienza. Parker, da anni residente a New York, in quella città ha scritto una serie di canzoni che poi, in compagnia della sua band, sono state registrate in soli sei giorni nei leggendari studi Rak a Londra, a conferma che l’ispirazione non ha mai abbandonato l’occhioluto e incazzoso musicista, forse solo leggemente ammorbidito dal passare dagli anni (anche per lui sono quasi 65), comunque sempre caustico ed ironico nei suoi testi, e con una voce che rimane praticamente identica a quella che nel 1976 aveva fatto esclamare, con felice espressione, al collega americano Springsteen: “E’ una di quelle voci “cuts through the bullshit” (difficile da tradurre, forse potremmo dire, che dà un taglio alle stronzate!) https://www.youtube.com/watch?v=01AeQYuXcIE . Per l’occasione la Universal, la major che cura la distribuzione del disco, ha riattivato una delle etichette storiche del suo catalogo, la Cadet, diciamo il ramo bianco della “nerissima” e prestigiosa Chess Records.

Forse avrete già letto recensioni anche contrastanti di questo album, e ogni parere è rispettabile, ma non mi sento di convidere chi lo ha considerato un disco “minore” di Parker, anzi per il sottoscritto è uno dei suoi migliori (esclusi i primi), è il nostro amico Graham, da solo e con i Rumour, ne ha fatti moltissimi che hanno sfiorato e anche raggiunto lo status del capolavoro, soprattutto nei primi 5 anni della sua carriera, album come Howlin’ Wind, Heat Treatment, Squeezing Out Parks rimangono delle pietre miliari nella loro fusione di R&R, soul, reggae, canzone d’autore e pop eccelso, cantate con una voce che univa la classe di Van Morrison, con la forza del primo Springsteen e dell’immancabile ed amato Dylan, e l’aggiunta di tocchi dei grandi cantanti soul del passato. Si tratta, come si diceva poc’anzi, di un disco più morbido del precedente, un disco soprattutto di ballate elettriche, arricchito da citazioni del miglior pop britannico ed americano, quello più raffinato e geniale, impreziosito dalla sempre impeccabile esecuzione dei Rumour, una delle migliori band che abbiano mai calcato i palcoscenici di tutto il mondo, Bob Andrews, Brinsley Schwarz, Martin Belmont, Andrew Bodnar e Stephen Goulding, non hanno perso una briciola della loro classe, come possiamo verificare ascoltando i dodici brani che compongono questo Mystery Glue. Titolo ispirato da un astrofisico svizzero degli anni ’30 del secolo scorso, tale Fritz Zwicky, che nel parlare della “materia oscura”, forse per errore e nelle parole di Parker, definì questa sostanza che teneva insieme l’universo una “colla misteriosa”. Forse la storia non è vera, ma sicuramente affascinante e al solito Parker coniuga la sua visione del rock all’interno di questa colla che tiene insieme tutta la sua musica.

I due brani iniziali, Transit Of Venus e Going There, sono classico Parker, con l’organo di Andrews e le chitarre acustiche ed elettriche, spalmate a strati sul tessuto melodico dei brani, che permettono alla voce di Graham di essere melliflua e partecipe, morbidamente malinconica come nelle migliori ballate della sua tradizione, ci sono anche richiami al pop classico di Kinks e Beatles, soprattutto nel secondo brano, deliziosamente retrò nella sua andatura lineare, nei piccoli tocchi di genio strumentali, negli immancabili coretti che non mancano mai nei suoi pezzi. Wall Of Grace è leggermente più mossa e qui, se proprio vogliamo fare una critica, i coretti sono un tantinello scontati, ma i Rumour suonano sempre divinamente e il tocco del wah-wah nella parte finale del disco dimostra una attenzione ai particolari sempre curatissima, mentre Swing State accelera ancora leggermente i tempi e si scorgono vibrazioni vicine al vecchio pub-rock delle origini, con tanto di citazione reggae nella parte centrale e accenni quasi rock and roll, con il magico organo di Andrews ancora in evidenza. Slow News Days ci riporta al Parker caustico degli anni ’70 (una caratteristica che non ha mai perso), quello che era un fustigatore dei costumi dell’epoca, una sorta di Dylan o Ray Davies a cavallo tra rock e canzone d’autore, anche in questo brano i piaceri sonori sono più sottili e meno immediati, ma non per questo meno godibili, un suo brano, sarà per la voce, sarà per l’atmosfera lo riconosci subito, non è come per l’80% della produzione attuale, anche quella buona,  che potrebbe appartenere a chiunque. Railroad Spikes, con il vorticoso pianino di Andrews, è la solita riuscita fusione tra R&R (quasi alla Elvis) e pop, quello che siamo soliti chiamare pub-rock, molto ritmato e cantato con più veemenza da Parker.

Flying Into London è un’altra bella ballata ricca di soul, con quel giusto tocco di malinconia e rimpianto, ma dall’ariosa melodia che si apre all’improvviso con tipico ed inconfondibile tocco parkeriano e la maestria dei Rumour che la rivestono del solito arrangiamento sontuoso. Pub Crawl è un piccolo divertissement sonoro che mette a confronto il suo passato e il suo presente, semplice ma sempre efficace, forse di nuovo leggermente scontata (nessuno ha mai detto che siamo di fronte ad un capolavoro assoluto) , anche se il tocco vaudeville di quello che sembra un kazoo è sempre geniale. I’ve Done Bad Things ha l’aria familiare di vecchie canzoni di Graham Parker, fin nella citazione di Wild Honey https://www.youtube.com/watch?v=hONx9bsVV74  e con le chitarre di nuove grintose e nervose, e anche Fast Crowd, con il suo ritmo incalzante e quel meticciato tra rock e soul, con influenze dylaniane nel cantato, è sempre classico Parker della più bell’acqua, meno prorompente che in passato ma sempre eseguito con gran classe. Non dispiace neppure Long Shot, il brano che cita nel testo il titolo dell’album, un’altra canzone che certifica la buona forma a livello compositivo del nostro, un altro classico esemplare di pura Parker song. In conclusione troviamo My Life In Movieland un brano che traccia, con la consueta ironia, la sua avventura nel mondo del cinema, una via di mezzo tra una canzone di Randy Newman e un vecchio blues, stesso sarcasmo e stessa forma sonora, voce, piano e di nuovo kazoo, per un brano che chiude su un tono minore un ennesimo bel disco di Graham Parker, il classico disco da ascoltare più volte per goderlo fino in fondo!

Bruno Conti

Cartoline Intime Da Un Grande Poeta! Leonard Cohen – Can’t Forget: A Souvenir Of The Grand Tour

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Leonard Cohen – Can’t Forget: A Souvenir Of The Grand Tour – Sony Music

Dopo Live In London (09), Songs From The Road (10), Live In Dublin (14), questo Can’t Forget: A Souvenir Of The Grand Tour è il quarto album Live negli ultimi anni che il grande cantante e poeta dà alle stampe, contenente materiale tratto dai suoi innumerevoli tour (in questo caso Old Ideas World Tour), e si devono ringraziare i membri della band e i tecnici che collaborano con Leonard Cohen da più tempo, se questa “compilation” di brani dal vivo (assemblata utilizzando incisioni rare e inedite prese dai vari “soundchecks”  e dagli show in due anni di esibizioni nelle varie località) oggi gira nel mio lettore https://www.youtube.com/watch?v=K4qDWchwHKk . Il lavoro è costituito da dieci brani, sei classici, però poco eseguiti negli altri live, due cover d’autore e due nuove canzoni,  con il consueto apporto della sua magnifica band composta da Neil Larsen alle tastiere, Mitch Watkins alle chitarre, Alex Bublitchi al violino, il virtuoso Javier Mas ( tutti gli strumenti a corda), chitarre, mandolino, banduria, laud e archilaud, Rafael Gayol alla batteria e percussioni, Roscoe Beck al basso, e come coriste la collaboratrice storica Sharon Robinson (è uscito da poco il suo nuovo lavoro solista Caffeine), e le sempre più brave Webb Sisters, che stanno  vieppiù diventando per Leonard importanti come le storiche Jennifer Warnes, Perla Batalla e, per chi scrive, la migliore Julie Christensen.

Le cartoline spedite da Cohen ci arrivano dalla First Bank Center di Denver con il crescendo (a tempo di marcia) di una sempre meravigliosa e decadente  Field Commander Cohen, passando poi per il Rosenborg Castle di Copenhagen con una raffinata I Can’t Forget  (da I’m Your Man), sul palco della mia amata Dublino per un’incantevole Light As The Breeze (da The Future), per poi arrivare alla prima cover La Manic di Georges Dor (personaggio di spicco del Quèbec) cantata in francese da Cohen davanti al pubblico entusiasta del Colisée Center di Quèbec City, prima di approdare al Warsteiner Hockey Park di Monchengladbach per una suadente, dolce e poco conosciuta Night Comes On (da Various Positions) con il violino di Bublitchi che scalda il cuore https://www.youtube.com/watch?v=n7QFsV65D-I . I “souvenirs” giungono anche dal King’s Garden di Odense con l’inedita Never Gave Nobody Trouble, arrangiata su un tessuto blues dove spicca la voce cavernosa di Leonard, seguita da una celestiale Joan Of Arc (dal celeberrimo Songs Of Love And Hate), dove viene evidenziata la bravura delle coriste https://www.youtube.com/watch?v=drqgPNNv3K8 , per poi volare alla Vector Arena della lontana Auckland (Nuova Zelanda), per il secondo inedito con il “groove” funky di Got A Little Secret e la cover di Choices (un brano portato al successo da George Jones), introdotto da un violino “celtico” e accompagnato dai cori su dolci armonie country, concludendo il viaggio nella mitica Opera House di Sydney declamando inizialmente una Stages, che poi nello svolgimento non è altro che la famosissima Tower Of Song, per l’occasione riproposta con un nuovo arrangiamento.

Per comprendere la statura di questo artista, basti ricordare che dal 2008 al 2013 si è esibito in tutto il mondo calcando i palchi di 31 paesi, con circa 500 spettacoli a cui hanno partecipato quattro milioni di fans, con “performance” della durata di più di tre ore (un ottantenne che rivaleggia con Springsteen, che di anni ne ha quindici in meno), un poeta canadese dalla classe infinita che, oltre alle sue splendide canzoni, con la sua voce che ,anche se consumata dal tempo, è ancora tagliente come una lama di coltello, riuscendo ancora una volta a fare breccia nel cuore di molti, regalandoci  sempre degli show commoventi. Io, come sapete, sono di parte, ma la musica di Can’t Forget: A Souvenir Of The Grand Tour, diventa poesia per il cuore. Giù il cappello per Leonard!

Tino Montanari

Non Sono Di “Miami”, Ma Sono Veramente Bravi ! Miami & The Groovers – The Ghost King

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Miami & The Groovers – The Ghost King –M&G distr. Ird Records

Nonostante lo si dia per morto e sepolto, il rock’n’roll dal taglio più “stradaiolo” continua ad avere i suoi seguaci anche dalle nostre parti. Lo dimostra una scena italiana che forse non sarà un vero e proprio movimento, eppure mai come in questa ultima decade ha dato segni di crescita a livello strettamente professionale, con suoni e dischi che riportano ai nomi dei Cheap Wine, i Lowlands del mio amico Ed Abbiati, i Mandolin’ Brothers, i Rusties e sicuramente anche i Miami & The Groovers guidati da Lorenzo Semprini, tutte band che provengono dall’albero “genealogico” dei Rockin’ Chairs di Graziano Romani (che per fortuna sono tornati, e sono in tour fino a Luglio).

A 10 anni dall’esordio discografico con Dirty Roads (05), seguito da altri buoni lavori come Merry Go Round (09), Good Things (12), e l’ottimo live No Way Back (13) (uscito in formato CD+DVD) http://discoclub.myblog.it/2013/11/23/sempre-piu-italiani-caso-dalla-east-coast-romagna-shore-ora-anche-dvd-piu-cd-dal-vivo-miami-the-groovers-way-back/ , i Miami tornano con questo nuovo lavoro The Ghost King sempre nella formazione tipo, composta dall’indiscusso leader, autore e cantante Lorenzo Semprini alle chitarre ritmiche, Marco Ferri alla batteria, Luca Angelici al basso, Beppe Ardito alle chitarre acustiche e elettriche, Alessio Raffaelli (anche nei Cheap Wine) alle tastiere e pianoforte, con l’apporto alle registrazioni di Federico Mecozzi al violino, Massimo Marches al mandolino, e ai cori Michele Tani e Marcello Dolci.

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Le canzoni del “Re Fantasma” partono con la potente scarica di energia di The King Is Dead, con un bel lavoro del violino di Mecozzi (il sesto uomo, che parte dalla panchina della formazione), seguita dalla pianistica e letterata On The Rox (ispirata alla biografia di John Belushi) e dalla saltellante Hey You, passando per la splendida ballata pianistica Back To The Wall, le gioiose atmosfere balcaniche di Hallelujah Man, e per la dolcissima danza di The Other Room. I “ghostbusters” di Lorenzo ripartono con la tirata Don’t (The Tuxic Waltz), il folk-rock notturno violinistico di We Can Rise, mentre nella rurale Waiting For My Train con il mandolino di Marches in spolvero, si viaggia dalle parti degli Old Crow Medicine Show, andando a chiudere con un’altra ballata di spessore come Spotlight, e infine la bonus-track Heaven Or Hell (uscita dalla penna di Beppe Ardito), un trascinante brano da “pub irlandese”, dove i Pogues incontrano Joe Strummer per una sana bevuta.

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Partiti come una “cover band” di Bruce Springsteen, i riminesi Miami & The Groovers al quinto giro di giostra sono diventati una realtà del rock&folk italiano (e internazionale), rockers di provincia per vocazione che vivono di prestazioni dal vivo (come testimoniano gli innumerevoli concerti fatti ogni anno), con canzoni che vanno a prendersi dalla strada alla maniera dei grandi Del Fuegos di Boston Mass, piene di musica e energia. Lorenzo Semprini e i suoi Miami & The Groovers, (come gli altri gruppi citati all’inizio), sono ragazzi nati per correre e cantare storie di vagabondi e sognatori in nome del rock, perché per fare della buona musica non è necessario nascere in America e suonare al Fillmore o al Beacon Theatre, lo si può fare benissimo dalle nostre parti (specialmente per le band in questione) nella nostra bella, ma musicalmente immatura Italia.

Tino Montanari

Fargo, Eccoli Ancora! Di Nuovo In Concerto E Special Edition Di A Small World In Black And White

fargo locandina concerto 31 marzo

Clienti abituali del Blog, “amici” e bravi musicisti, parlo sempre con piacere dei Fargo: in effetti dovrei dire Psychic Twins, perché, come vi avevo anticipato qualche mese fa, sono sempre loro, Massimo “Grey Wolf” Monti, autore dei testi ed eminenza grigia della band, e Fabrizio Fargo Friggione, che canta, suona la chitarra, cura la parte musicale delle canzoni e la produzione dei dischi, ora con una  nuova ragione sociale ma sempre con le vecchie passioni per la buona musica. Springsteen, Beatles, Petty, il rock americano e quello inglese, una buona melodia blue-eyed soul li trovate sempre nella loro musica e anche nelle nuove cinque canzoni che sono state aggiunte alla “Special Edition” di A Small World In Black And White.

Fargo A Small World Special Edition

Già, la nuova edizione, ma qual è quella giusta? Così a occhio direi quella a sinistra. Se volete verificare di persona (ed eventualmente acquistare il CD, se, come il sottoscritto, siete ancora amanti dei vecchi dischi fisici, per quanto digitali e non del download) martedì prossimo, 31 marzo, nella loro solita venue, la Salumeria della Musica, potrete vedere in azione la versione Mark II del gruppo, quella che si esibisce abitualmente dal vivo. Se volete ulteriori informazioni sul gruppo, con un gioco di link, andate a vedere l’ultimo Post sui Fargo, e poi, a ritroso, trovate anche tutti quelli precedenti, all’interno dell’articolo http://discoclub.myblog.it/2014/12/01/tempo-cambiamenti-i-psychic-twins-diventano-fargo-sempre-disco-vecchio-concerto-nuovo-alla-salumeria-della-musica-milano-il-2-dicembre/, con le recensioni dei due dischi.

Questo che vedete qui sopra è il video per Wonderland, una delle canzoni più belle del disco, comunque spendiamo anche qualche parola per le cinque canzoni aggiunte nella special edition (come mi ero permesso di suggerire) e che ai primi ascolti mi sembrano avere un mood più tranquillo e riflessivo, per quanto sempre ricche di belle melodie e spunti interessanti. Fabrizio ha una bella voce, profonda ed espressiva, come ho detto altre volte, e questo spirito riflessivo si affianca benissimo a quello del rocker più scatenato che si evidenzia nei concerti dal vivo, dove comunque non manca l’amore per la melodia, esemplificato dagli amati Beatles.

Good Man ha un afflato quasi springsteeniano, una bella ballata mid-tempo avvolgente, con chitarre acustiche, elettriche e tastiere che si intrecciano alla perfezione, una solista minimale che si insinua dolcemente tra le pieghe della canzone fino a caratterizzarne il suono. It Always Comes Down potremmo definirla una sorta di “the blues according to Fabrizio”, un country-blues con tanto di armonica suonata dal nostro amico Fab e un’aria pigra e rilassata che comunque ben si accorda allo spirito scanzonato della canzone, non sempre il blues è dedicato alla sofferenza, ma può avere anche risvolti positivi come quelli evidenziati in questo brano. Anche Time Has Changed è una ballata, chitarre acustiche accarezzate, una ritmica appena accennata, belle armonie vocali e un piano molto discreto, con quei piccoli tocchi di chitarra elettrica, che sono tipici degli arrangiamenti del gruppo, raffinati e mai banali. Walking On Thin Ice è sempre lenta, ma con un suono più elettrico, con le ambientazioni sonore che rimangono più sospese, per quanto sempre pronte alle consuete  aperture alla melodia e con le chitarre pungenti e ben presenti, mentre la conclusiva Sky To Shine è un acquerello acustico, una folk ballad con spirito da cantautore, che illustra il lato più intimista di Fabrizio Friggione, ben servito, come di consueto, dal testo saggio ma al tempo stesso sognante di Massimo, a conferma che i due “gemelli psichici”. anche se hanno cambiato nome, sono pur sempre sulla stessa lunghezza d’onda.

Bruno Conti

In Viaggio Verso Un Suono Americano ! Waterboys – Modern Blues

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Waterboys – Modern Blues – Harlequin And Clown/Kobalt Label Services

Nel bene e nel male la storia dei Waterboys (i più illustri eredi della tradizione britannica del folk-rock degli anni ’80) è legata a quella del loro leader Mike Scott. Scott, scozzese di Edimburgo, con i suoi “Ragazzi dell’Acqua” ha pubblicato dischi memorabili nel corso degli anni ’80, a partire dai due capolavori This Is The Sea (85) e soprattutto Fisherman’s Blues (88), il disco della definitiva consacrazione artistica, ristampato due anni fa in un magnifico box http://discoclub.myblog.it/2013/11/24/replay-ecco-la-ristampa-dellanno-the-waterboys-fishermans-box/  Dopo due dischi del genere era difficile fare meglio: i Waterboys ci hanno provato, mutando spesso formazione (mantenendo sempre come perno della formazione oltre al leader Mike Scott, il violinista Steve Wickham), consolidando così una discografia numerosa (con tanti alti e pochi bassi), ma mai sullo stello livello di quelle “pietre miliari”. Nel tempo i “ragazzi” di Mike Scott (autore anche di buoni lavori solisti come Bring Em All (95) e Still Burning (97) sono diventati una grande band di “culto”, rispettata e ammirata da tutti, ma allo stesso tempo così sottovalutata da doversi muovere per tutta la carriera all’ombra del successo pregresso. A quattro anni dall’ultimo lavoro in studio, il riuscito An Appointment With Mr. Yeats (11), (un elegante omaggio al suo idolo letterario William Butler Yeats) http://discoclub.myblog.it/2011/09/25/nuovamente-waterboys-an-appointment-with-mr-yeats/ , Scott prende la sua band, attraversa l’oceano e la porta a registrare in quel di Nashville questo nuovo Modern Blues, con una nuova line-up formata oltre che da Mike voce e chitarra, e dallo storico indiavolato violinista Wickham, Zach Ernst e Jay Barclay alle chitarre, Ralph Salmins alla batteria, Paul Brown alla tastiere, il leggendario bassista David Hood (padre del leader dei Drive By-Truckers Patterson Hood), sotto la produzione di Bob Clearmountain (Bruce Springsteen), per quello che è senza dubbio il lavoro più “americano” della formazione.

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La partenza con Destinies Entwined, per chi ama i primi Waterboys, è davvero spiazzante, un brano che fa sussultare con riff di chitarra grintosi https://www.youtube.com/watch?v=7_4EhpohXNQ , per poi ritornare subito ad una ballata folk suadente come November Tale https://www.youtube.com/watch?v=YN-EmQ4Aa6Y , al blues robusto di Still A Freak, e ad una ballata cadenzata e sognante come I Can See Elvis https://www.youtube.com/watch?v=pQsYUh_dctA , mentre The Girl Who Slept For Scotland è una modesta canzone d’amore. Si prosegue con Rosalind (You Married The Wrong Guy), un pomposo pezzo rock con un ritornello accattivante, a cui segue il singolo Beautiful Now, un brano scritto con il “nostro amico” James Maddock, un brano radiofonico https://www.youtube.com/watch?v=BKwAmnbS1WU  (ma già sentito), cambiando pagina con i fiati celtic soul di una intrigante Nearest Thing To Hip https://www.youtube.com/watch?v=MDqVBKp5BfQ , andando a chiudere con il capolavoro dell’album, una torrenziale Long Strange Golden Road, che inizia con la voce di Jack Kerouac che legge Sulla Strada, e poi diventa una cavalcata musicale lunga dieci minuti, una sfida a tutti i grandi cantautori, dove si fondono insieme Dylan, Springsteen, Cohen e Van Morrison, da ascoltare a ripetizione https://www.youtube.com/watch?v=7KDFVRVHTLU . Epica!

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Anche in questo Modern Blues qualcosa dei Waterboys di un tempo si trova sempre (per esempio nelle ballate, dimostrando di essere capaci ancora di scrivere grandi canzoni), ma si tratta di carezze che riempono le orecchie solo di nostalgia, lasciando il dubbio proprio ai più nostalgici che nella produzione recente e anche in questo lavoro (riconoscendo però che è prodotto e suonato benissimo), questa grande band si stia forse avviando verso un dignitoso declino.

Tino Montanari