Un Degnissimo Tributo Alla Motor City. Alice Cooper – Detroit Stories

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Alice Cooper – Detroit Stories – EarMusic/Edel CD

Detroit Rock City, cantavano i Kiss nel 1976. Ed è vero: dopo essere stata negli anni sessanta la patria del soul/R&B grazie alla leggendaria Motown, a poco a poco la città più importante del Michigan è diventata il centro della scena rock, con derivazioni hard e quasi punk (termine che peraltro ancora non esisteva). Inizialmente il suono era più rock’n’roll, con gruppi come Mitch Rider & The Detroit Wheels (il loro singolo con Devil With The Blue Dress On sul lato A e Good Golly Miss Molly sul lato B fa la parte del leone nel Detroit Medley di Springsteen) e Question Mark & The Mysterians, ma poi l’approccio è diventato via via più pesante per mano di nomi del calibro di Iggy Pop & The Stooges, MC5, Grand Funk Railroad e Ted Nugent, anche se la quota rock’n’roll era mantenuta da Bob Seger e dalla popolarissima Suzi Quatro. Nativo di Detroit era anche Alice Cooper, che dopo gli incerti esordi sotto la guida di Frank Zappa in breve tempo diventò uno degli acts più famosi in America ed inventore indiscusso del cosiddetto “shock-rock”, grazie anche al fiuto del geniale produttore Bob Ezrin (Lou Reed, Kiss, Pink Floyd e solo recentemente Deep Purple).

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Alice è sempre stato molto legato alla sua città d’origine, ma un vero e proprio omaggio in musica non glielo aveva mai riservato almeno fino a Breadcrumbs, un EP pubblicato solo in vinile nel 2019 in cui riprendeva alcuni pezzi famosi e non di alcuni dei gruppi citati poc’anzi aggiungendo un paio di canzoni sue. Sfruttando l’ottimo momento di forma che negli ultimi anni ha prodotto il buon Paranormal ed i due riusciti album degli Hollywood Vampires, Cooper ha deciso di allargare il discorso iniziato con Breadcrumbs pubblicando Detroit Stories, CD nuovo di zecca che riprende quattro dei sei brani finiti sull’EP del 2019 (ma in versioni incise ex novo) aggiungendo altri undici pezzi, con il risultato finale di avere un disco davvero riuscito e godibile che si muove molto bene tra rock’n’roll, hard rock, blues e perfino funky e pop, ed in definitiva uno dei migliori lavori del nostro nelle ultime decadi. Prodotto ancora da Ezrin, Detroit Stories non è un vero e proprio concept album (alcuni testi non riguardano neppure la Motor City), ma è suonato in gran parte da musicisti locali, un vero e proprio parterre de roi che comprende l’ex chitarrista degli MC5 Wayne Kramer, il bassista Paul Randolph, il chitarrista Steve Hunter dei Detroit di Mitch Rider (e già in passato collaboratore di Alice nonché guitar man di Lou Reed nel mitico Rock’n’Roll Animal), il batterista Johnny Bedanjek degli stessi Detroit, l’ex leader dei Grand Funk Railroad Mark Farner nonché i tre membri superstiti della Alice Cooper Band originale Neil Smith, Michael Bruce e Dennis Dunaway.

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Per la verità il brano iniziale, una cover del classico dei Velvet Underground Rock & Roll (ma ispirata dalla versione dei Detroit, e Steve Hunter appare anche qui), vede alla solista il nostro amico Joe Bonamassa: bella rilettura, decisamente potente e rocciosa, con JoBo che porta in dote un sapore blues con un assolo dei suoi ed Alice che canta bene ed in maniera scorrevole https://www.youtube.com/watch?v=wmkf57yffT0 . Go Man Go è una sventagliata elettrica in pieno volto, un brano duro e massiccio nella tipica tradizione del nostro, con la frase del titolo ripetuta ossessivamente da un coro, un refrain diretto ed un breve ma ficcante guitar solo di Farner; per contro, Our Love Will Change The World (cover di un pezzo del 2005 degli Outrageous Cherry, altro gruppo di Detroit) è il classico brano che non ti aspetti, una pop song gioiosa, solare e beatlesiana che contrasta però con le liriche amare e pessimistiche (riscritte in parte da Alice stesso) https://www.youtube.com/watch?v=C7uakxd4X80 . Una sorpresa inattesa e piacevole. Social Debris propone una reunion “allargata” della Alice Cooper Band, ed è un rock’n’roll sotto steroidi del tipo che il nostro ha cantato mille volte in carriera (ma l’energia e la grinta sono immutate) https://www.youtube.com/watch?v=8U0QhxO2kjQ , $ 1000 High Heel Shoes è invece un funk-rock con tanto di fiati e coro femminile decisamente insolito per Mr. Furnier ma assolutamente accattivante, ritmato e coinvolgente. Hail Mary è puro rock’n’roll, neanche tanto hard, che fa battere il piedino e mostra ancora l’ottimo stato di forma del leader. Detroit City 2021 è il rifacimento da parte di Alice di un suo pezzo del 2003 (invero piuttosto nella media), mentre Drunk And In Love è un godibile bluesaccio elettrico, con il ritorno di Bonamassa che si cala perfettamente in un ambiente sonoro a lui consono e Cooper che aggiunge anche una buona performance all’armonica.

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Con Independence Dave, scritta insieme a Kramer, Alice ci dà dentro con un’altra travolgente rock’n’roll song, I Hate You vede esclusivamente i membri del vecchio gruppo del nostro partecipare anche a livello vocale in una sorta di divertissement tra rap e hard rock, mentre Wonderful World ha un ritmo cadenzato e sinuoso che rimanda al periodo in cui il titolare del disco era il re incontrastato dell’horror-rock. Sister Anne è una eccellente cover degli MC5, ennesima sferzata di energia rock’n’roll di un CD in grado di dare dei punti a tante band giovanili, con Kramer che piazza un assolo mica da ridere https://www.youtube.com/watch?v=r2qkY8f1EpI , Hanging On By A Thread è puro Alice Cooper, una solida rock song dal passo lento ed un testo che invita a non mollare mai neanche nei momenti più bui, la breve Shut Up And Rock (con Larry Mullen Jr. degli U2 alla batteria) è una fucilata di due minuti che, come dicono gli americani, “deliver the goods”. Il disco si chiude con una sanguigna rilettura di East Side Story, antico pezzo dei Last Heard, gruppo sixties in cui militava un giovane Bob Seger. Ad un anno di distanza dal primo lockdown la situazione non è purtroppo cambiata di molto, e può capitare che ogni tanto possiate sentire il bisogno di una scarica di elettricità: in tal caso, Detroit Stories potrà benissimo fare al caso vostro.

Marco Verdi

Ecco Un Disco Che Para Normale Ma Bada Ben Bada Ben Bada Ben…E’ Normale! Alice Cooper – Paranormal

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Alice Cooper – Paranormal – Ear Music/Edel 2CD

(NDM: la settimana scorsa ho introdotto il nuovo singolo di Mick Jagger con una frase rubata a Renzo Arbore, mentre questa volta non ho resistito e, giocando con il titolo del disco, ho utilizzato il tormentone di Ezio Greggio nei panni di Mr. Taroccò, nella gloriosa trasmissione anni ottanta Drive In).

Oggi mi occupo di un artista che farei ricadere nella categoria “piaceri proibiti”, grazie alla consueta magnanimità di Bruno: c’è da dire che solitamente tendo a non approfittare del suo buon cuore, trattando solamente di dischi che, pur se da una diversa angolazione, si possono in ogni caso far ricadere all’interno dell’immenso calderone della buona musica, anche se poi i gusti sono sempre gusti. La carriera di Vincent Damon Furnier, meglio conosciuto come Alice Cooper, ha attraversato diverse fasi: a parte gli esordi sotto l’ala protettiva di Frank Zappa (uno che il talento lo sapeva riconoscere), la sua golden age furono certamente i primi anni settanta, con dischi come Love It To Death, School’s Out, Billion Dollar Babies fino al capolavoro Welcome To My Nightmare, album grazie ai quali inventò praticamente un genere, lo shock-rock, legato più ai testi ed alle esibizioni dal vivo teatrali e grandguignolesche, appunto scioccanti per l’epoca (ma con una gran dose di ironia, cosa che ovviamente non fu capita dalla maggior parte dei “benpensanti”), che alla musica registrata in studio, che era sì rock duro, ma neanche più di tanto (per fare un esempio, sia Deep Purple che Black Sabbath all’epoca erano molto più “pesanti”).

Nella seconda parte della decade, complici anche i problemi personali legati all’alcolismo, la musica di Cooper scivolò verso un rock più prevedibile anche se non disprezzabile, con via via sempre più elementi pop e perfino new wave, ma con sempre minori vendite. Il successo ritornò dal 1986 in poi, allorquando Alice si reinventò come uno dei portavoce dell’allora imperante “hair metal”, con dischi come Constrictor e soprattutto Thrash (trainato dal famoso singolo Poison): praticamente un altro cantante. Dagli anni novanta ad oggi Cooper ha gestito la sua immagine sfornando album sempre di buon successo, ma quasi sempre all’insegna di un heavy rock piuttosto prevedibile, anche se le zampate non sono mancate, soprattutto quando il nostro si è ispirato alle sonorità anni settanta (come in The Last Temptation del 1994 e soprattutto in Welcome 2 My Nightmare del 2011, chiaro seguito del famoso album del 1975, e fino ad oggi il suo ultimo lavoro, a parte il divertissement degli Hollywood Vampires insieme a Joe Perry e Johnny Depp). Oggi Alice torna con questo Paranormal, e se ho deciso di parlarne sul blog è perché si tratta di un disco ben fatto, di rock’n’roll un po’ meno hard del solito (ma comunque molto potente), un album che, pur non essendo un capolavoro, si lascia ascoltare secondo me con piacere, grazie anche alla sua durata breve (solo 34 minuti, ma come vedremo c’è un’appendice).

La produzione è nelle mani esperte di Bob Ezrin, che è anche l’uomo dietro tutti i migliori dischi di Cooper, Welcome To My Nightmare compreso, e vede la partecipazione di ospiti importanti quali Larry Mullen, il batterista degli U2 (in quasi tutti i brani), il bassista dei Deep Purple, Roger Glover, il leader degli ZZ Top, Billy Gibbons, oltre al chitarrista Steve Hunter (già con Alice, e con Lou Reed, negli anni settanta, è uno dei due di Rock’n’Roll Animal) e la originale Alice Cooper Band al completo in alcuni brani (meno Glen Buxton che non è più tra noi). E poi c’è Vincent/Alice, che canta in maniera normale e senza calcare troppo sull’aggressività e, piaccia o no, è sempre un personaggio di grande carisma. Il disco si apre con la title track, una rock ballad vigorosa dal ritmo in crescendo e suono molto “classic rock”, perfetta per i concerti, con Cooper che canta con voce regolare un motivo che “acchiappa” all’istante, e con una bella accelerazione sul finale. La breve Dead Flies è potente e sostenuta, anche se è priva di una vera e propria melodia: Alice se la cava comunque con mestiere, ma non è tra le mie preferite (ma i fan più metallari la apprezzeranno); Fireball invece unisce forza, ritmo e songwriting, un rock’n’roll tutto adrenalina e chitarre, non male, mentre Paranoiac Personality, che è il primo singolo, ha un inizio che rimanda ai seventies, ritmo cadenzato ad Alice che canta con il suo tipico stile, ed il pezzo risulta godibile grazie anche al ritornello.

La chitarra inconfondibile di Gibbons introduce Fallen In Love, un rock-blues roccioso e decisamente elettrico (le chitarre sono tre), un brano che non è distante dagli ZZ Top più duri, Dynamite Road ha quasi un mood punk-rock, con il nostro che gigioneggia da par suo, mostrando di avere ancora energia da vendere nonostante l’età non più verde, Private Public Breakdown ha un bel riff ed un motivo tra i più immediati, niente di trascendentale ma anche questo è rock’n’roll. La ficcante Holy Water ha addirittura una sezione fiati ed è tra le meno dure, mentre Rats è un altro rock’n’roll con un’alta dose di steroidi e sezione ritmica formato macigno; la conclusiva The Sound Of A è una suggestiva ballata tipica di Cooper, con un’atmosfera cupa e viziosa ma intrigante. Questo per quanto riguarda il Paranormal vero e proprio, ma c’è anche un secondo CD (non è un’edizione deluxe, pare che non esista proprio in versione singola) con altri due brani in cui il nostro è con la sua band originale, e sono tra i migliori: Genuine American Girl è un rockabilly neanche tanto hard, decisamente trascinante ed orecchiabile (forse la mia preferita), You And All Of Your Friends è più classica, ma ha un buon tiro ed un bell’assolo di slide di Steve Hunter. Ci sono anche sei brani registrati dal vivo a Columbus, Ohio nel 2016, No More Mr. Nice Guy, Under My Wheels, Billion Dollar Babies, Feed My Frankenstein, Only Women Bleed, School’s Out, sei classici del passato nei quali Alice spinge decisamente di più sul pedale dell’heavy rock, così da accontentare anche i fans più giovani che magari resteranno dubbiosi davanti al sound “classico” di Paranormal, disco che invece per il sottoscritto è tra i più positivi di Alice Cooper, almeno negli ultimi trent’anni.

Marco Verdi

Per Ricordare Uno dei Grandissimi :Un Fine Settimana Con Lou Reed The RCA & Arista Album Collection, Parte II

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Lou Reed – The RCA & Arista Album Collection – Sony Box Set 17CD

Parte 2

Berlin (1973): quando tutti si aspettano un bis di Transformer, Lou arriva con Berlin, un concept duro, drammatico e difficile, con testi che parlano di violenza, droga e morte, un disco all’epoca ferocemente criticato. Prodotto da Bob Ezrin, e con sessionmen come Jack Bruce, Stevie Winwood e la fantastica coppia di chitarristi Steve Hunter e Dick Wagner, Berlin è stato col tempo rivalutato, ed oggi è considerato uno dei capolavori reediani, a partire dalla gelida title track (molto diversa da quella su Lou Reed), passando per la potente Lady Day, alla struggente Men Of Good Fortune, alle due diverse Caroline Says (la seconda è una meraviglia), fino ai due capolavori assoluti: How Do You Think It Feels, rock ballad sontuosa con splendido assolo di Wagner, e l’angosciosa ma emozionante The Kids. Grande disco, anche se ostico.

Rock’n’Roll Animal (1974): se non ci fosse stato il Live At Fillmore East degli Allman Brothers Band, questo sarebbe il mio disco dal vivo preferito degli anni settanta, e quindi probabilmente di sempre. Registrato a New York, Rock’n’Roll Animal vede un Lou Reed in forma assolutamente strepitosa, accompagnato da una band da sogno (ancora Hunter e Wagner alle chitarre, Prakash John al basso, Pentti Glan alla batteria e Ray Colcord al piano), per un’esplosione elettrica che raramente è stata immortalata altre volte su disco. Solo cinque canzoni (di cui quattro dei Velvet), ma nella loro versione definitiva: la Sweet Jane più bella di sempre (imperdibile il boato del pubblico quando riconosce il famoso riff alla fine della lunga intro strumentale), una Heroin mai così agghiacciante, una devastante White Light/White Heat in versione boogie, una Lady Day che cancella persino quella di Berlin, ed il finale ad altissimo tasso elettrico con Rock’n’Roll. Qui cinque stelle sono pure poche.

Sally Can’t Dance (1974): uno dei dischi più immediati del nostro (è stato anche l’unico ad entrare nella Top Ten), che si apre e chiude con due straordinarie ballate, Ride Sally Ride e Billy, e presenta brani come l’ottimo rock’n’roll Animal Language, la raffinata e suadente Baby Face, la controversa, ma musicalmente ineccepibile, Kill Your Sons e la potente title track, con grande uso di fiati, quasi un brano southern. Un lavoro più che buono, anche se inevitabilmente inferiore sia a Transformer che a Berlin.

Metal Machine Music (1975): il più sonoro vaffanculo di un artista verso la sua casa discografica (che si limitava a chiedere un disco come da contratto), ma anche un atto poco rispettoso verso i fans, Metal Machine Music è un esperimento di noise music lungo più di un’ora (in origine era un doppio LP), ottenuto mediante il feedback della chitarra ed altre diavolerie tecnologiche. Un disco inascoltabile, si fa fatica ad arrivare a due minuti, figuriamoci i 64 totali, anche se c’è da dire che Lou pagherà in prima persona questa specie di scherzo. Non date retta ai critici snob che negli ultimi anni hanno tentato di rivalutarlo: Metal Machine Music era e rimane una solenne e rumorosa ciofeca.

Coney Island Baby (1976): dopo il disastro del disco precedente, la RCA ordina a Lou di tornare in studio e registrare un disco rock, e lui, unico caso in carriera, obbedisce (forse aveva capito che non poteva tirare oltremodo la corda): il risultato è Coney Island Baby, uno dei suoi migliori album in assoluto. Un disco solido, asciutto (anche nelle ballate), diretto e vigoroso, che ci fa ritrovare un Lou Reed tirato a lucido, con canzoni come la splendida Crazy Feeling, orecchiabile come poche altre volte, la soave Charley’s Girl, quasi un rifacimento di Walk On The Wild Side, la fluida She’s My Best Friend, dallo strepitoso finale chitarristico, e due classici assoluti come Kicks, con il suo progressivo crescendo, e la stupenda title track, una sontuosa ballata, tra le più belle mai messe su disco da Lou. Nella mia top three di dischi reediani (in studio) dopo Transformer e New York.

Rock And Roll Heart (1976): un album poco considerato (anche a posteriori), in quanto ha la sfortuna di essere “schiacciato” in mezzo a due pezzi da novanta come Coney Island Baby ed il successivo Street Hassle, e che fallirà addirittura l’ingresso nella Top 50 (Lou sta in parte ancora pagando l’affronto di Metal Machine Music). Il disco in certi momenti è persino leggero e fruibile (alla maniera del nostro, ovviamente), con brani corti e diretti come l’allegra I Believe In Love, o il rock’n’roll di Banging On My Drum, pura adrenalina, o ancora You Wear It So Well e Ladies Pay, due ottime ballate pianistiche, dai toni epici la prima (e con Garland Jeffries ai controcanti), più distesa e rilassata la seconda. Per non dire della deliziosa title track, in cui Lou canta in maniera rigorosa; il resto è piuttosto nella norma, facendo di Rock And Roll Heart un disco di facile ascolto ma alla lunga privo di brani che facciano la differenza.

Street Hassle (1978): altro grande disco, duro (nei testi), poetico, crudo, urbano, che concede poco all’ascoltatore occasionale. La parte del leone la fa sicuramente la lunga title track, una mini-suite in tre movimenti, una delle migliori prove di songwriting del nostro, pur se di difficile assimilazione (e con un cameo vocale non accreditato di Bruce Springsteen, che stava registrando Darkness On The Edge Of Town nello studio accanto). Altri highlights dell’album, che è stato registrato parzialmente dal vivo in Germania (pur con solo brani nuovi), sono la scintillante Gimme Some Good Times, che riprende volutamente il riff di Sweet Jane, il boogie sbilenco I Wanna Be Black, la folgorante (e quasi disturbante) Shooting Star. E gli perdoniamo l’insulsa Wait.

Live: Take No Prisoners (1978): l’unico doppio CD del box, questo live composto da dieci pezzi registrati al mitico Bottom Line di New York è spesso stato criticato per le lunghe parti parlate anche in mezzo alle canzoni, da parte di un Lou Reed insolitamente loquace ed estroverso, ma da qui a definirlo cabarettistico (ho sentito anche questa) ce ne vuole. Certo, non sarà Rock’n’Roll Animal, ma quando il gruppo suona il suo dovere lo fa alla grande, con eccellenti versioni di Sweet Jane, Satellite Of Love, Pale Blue Eyes (peccato il synth), una I’m Waiting For The Man riarrangiata blues, Coney Island Baby, ed anche una buona Street Hassle ed una I Wanna Be Black nettamente meglio dell’originale, con un grande Marty Vogel al sax. Dall’altro lato, a corroborare le critiche, una Walk On The Wild Side tirata per le lunghe e che non arriva mai al dunque.

Fine parte 2

Marco Verdi