Il Titolo Del Disco Dice Tutto! Keb’ Mo’ – Bluesamericana

keb' mo' bluesamericana

Keb’ Mo’ – BLUESAMERICANA – Kind Of Blue Music

Se dovessi indicare un erede di Taj Mahal, anche se il buon Taj è tuttora vivo e vegeto, diciamo un epigono, un “seguace”, forse ancora meglio, vi farei sicuramente il nome di Keb’ Mo’. Entrambi eclettici polistrumentisti, Taj se la cava discretamente a chitarra, armonica, banjo, piano e ukulele, Kevin Moore, più virtuoso del “maestro”, suona chitarra, acustica, elettrica e slide, banjo, tastiere, basso, armonica, bravissimo pure alla resonator (e in questo album li suona tutti), come tecnica musicale è sicuramente superiore a Mahal, che però dalla sua ha una voce straordinaria, in grado di districarsi in tutti i generi, dal blues al soul e R&B, la musica reggae e caraibica in generale, naturalmente world music e tutti i sottogeneri, blues-rock, jazz blues, blues del delta, country music. Anche Keb’ Mo’ spazia attraverso vari stili, non per nulla, per ribadire questa caratteristica, ha voluto chiamare questo disco BluesAmericana, per ribattere a chi definisce la sua musica semplicemente Blues, mentre nei suoi dischi, fin dagli esordi ufficiali, con il disco omonimo del ‘94 (anche per lui, come per altri, forse il migliore, ma la qualità nel corso degli anni è rimasta sempre elevata, con qualche calo di tensione http://discoclub.myblog.it/2011/09/10/non-ci-ha-riflettuto-abbastanza-keb-mo-the-reflection/), ci sono sempre stati anche gli elementi della cosiddetta “Americana”: country, folk, rock, roots music, musica nera in generale e pure questo CD, al di là del titolo, si allinea su questi stilemi https://www.youtube.com/watch?v=jCXEv_1LavU .

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La voce di Keb’ Mo’ è pure notevole, calda e suadente, meno “vissuta” forse di quella di Taj Mahal, più pulita, ma non priva di forza e grinta, come testimoniano anche i recenti tributi a Jackson Browne e Gregg Allman.Tra i tanti con cui ha collaborato in questo album troviamo Colin Linden, che per non entrare in rotta di collisione con il virtuosismo di Moore, si cimenta qui al mandolino in The Worst Is Yet To Come, il brano che apre questo CD e che ben evidenzia la musica che poi troveremo a dipanarsi nei successivi pezzi: c’è il blues, il rock, un tocco di gospel, che non avevamo citato (nei cori), e il risultato, per certi versi, può ricordare alcunii episodi della Band, con banjo e mandolino che si inseguono armoniosamente in questo divertente inventario di piccole disgrazie che si succedono senza soluzione di continuità, “il peggio deve ancora arrivare”, recita il titolo https://www.youtube.com/watch?v=1hul1kuWDKE . Keb’ Mo’ parte sempre da una base acustica, che doveva essere nelle intenzioni, il fil rouge del disco, ma poi, grazie all’intervento di molti ospiti e all’ottimo lavoro del co-produttore Casey Warner, che suona anche la batteria in alcune canzoni, ottiene un suono più ricco e complesso. Ad esempio in Somebody Hurt You, che è un blues intriso di spiritual, con un bel call and response con i quattro vocalists che curano le armonie vocali nel brano, impreziosito dalle chitarre elettriche del titolare, un organo suonato da Michael Hicks e una tenue speziatura di fiati.

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Come è successo a molti artisti prima di lui, tutti direi, la vita scorre e quindi Keb’ Mo’ non è più di primo pelo, va per i 63 anni, con una lunga gavetta alle spalle, ha acquisito una esperienza che gli permette di districarsi nei vari umori che compongono questo BluesAmericana, ad esempio Do It Right, dove banjo e armonica colorano le tessiture armoniche del brano che viene attraversato da una delicata slide acustica che caratterizza questo brano. I’m Gonna Be Your Man è un blues più canonico, anche se citazioni di celebri frasi di altre canzoni e quell’aria tra soul e gospel sono sempre presenti, come l’immancabile slide acustica e la resonator, mentre una sezione ritmica, precisa e presente comunque in quasi tutti i brani, lascia spazio nel finale anche ai fiati. Move è il brano più elettrico della raccolta, Tom Hambridge siede dietro i tamburi, Paul Franklin aggiunge la sua pedal steel al corpo musicale della canzone e il risultato potrebbe ricordare le cose migliori di Robert Cray https://www.youtube.com/watch?v=ejm-js8JW9c .

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La pedal steel rimane anche per la successiva For Better Or Worse, una di quelle ballate struggenti, sulle pene d’amore in questo caso, che di tanto in tanto il nostro amico ci regala, cantata con grande partecipazione e suonata in modo compiuto, con slide e steel che si integrano perfettamente, avete presente il Ry Cooder più ispirato?   That’s Alright è una cover di un brano di Jimmy Rogers, il bluesman, Moore suona tutti https://www.youtube.com/watch?v=vtTxLIrumSYgli strumenti, lasciando solo la batteria a Steve Jordan, in un blues elettrico, di quelli duri e puri, molto bello, tipo il ricordato Taj Mahal dei primi dischi https://www.youtube.com/watch?v=sh16F0PguE0 . The Old Me Better, firmata con John Lewis Parker, è un perfetto esempio di Crescent City sound, con tanto di marching band aggiunta, i California Feet Warmers, che aggiungono autenticità al brano, difficile tenere fermi i piedi. Altro brano che giustifica l’Americana nel titolo è More For Your Money, scritta con Gary Nicholson, spesso pard di Delbert McClinton, una sorta di moderno ragtime elettroacustico sulla falsariga di certe cose di David Bromberg, come pure So Long Goodbye altra ballatona amorosa, dolce il giusto, senza essere troppo zuccherosa. Un buon album, tra i migliori della sua discografia.

Bruno Conti    

70 Anni E Non Sentirli: Un Grande! Garland Jeffreys – Truth Serum

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Garland Jeffreys – Truth Serum – Luna Park Records

Questa estate, all’incirca alla metà di luglio, ho avuto il grande piacere di assistere ad un concerto di Garland Jeffreys, in quel di Pavia, nella piazza principale della città (lo so, non ve ne ho parlato, ma lo faccio ora, incidentalmente, in coincidenza con l’uscita del nuovo album, Truth Serum). Un ottimo concerto: Garland si era esibito anche pochi giorni prima al Buscadero Day, ma nella data di Pavia il tempo a suo disposizione era decisamente superiore e quindi anche la possibilità di sviscerare il suo “magico” repertorio. Garland Jeffreys, come dico nel titolo, ha da poco superato i 70 anni, ma non lo sa, non se ne rende conto, non lo hanno avvisato, un insieme di tutti questi fattori e quindi un suo concerto è un piccolo evento: non ha perso l’abitudine di saltare giù dal palco (diciamo scendere), aggirarsi tra il pubblico con fare birichino, incitarli a cantare, creare alcune gags, anche involontarie.

In quella serata, ad un certo punto, si vede del movimento sul palco, e una signora comincia ad inveire (gentilmente) verso i musicisti della band di Jeffreys, in italiano naturalmente, e questi, non capendo cosa dice questa signora, e pensando ad una pazza, sembrano anche spaventati (in effetti, probabilmente, era un abitante della piazza che si lamentava per il volume della musica, ma erano passate da poco le dieci di sera!), Garland, memore dei suoi trascorsi italiani a Firenze, ai tempi dell’Università, prende in mano la situazione e accompagna, con tatto ma con fermezza, la distinta signora giù del palco, rivolgendosi poi al pubblico e dicendo che in tanti anni di carriera non gli era mai successo nulla del genere e che l’invaditrice ( termine non comune, ma al femminile fa così, non comune anche l’accaduto, peraltro) avrebbe potuto essere sua madre, forse dimenticando, e molti del pubblico non lo sapevano, che anche lui la sua bella settantina di anni ormai l’aveva raggiunta e quindi la “tipa” avrebbe dovuto averne più di 90, di anni, e francamente non mi sembrava. Poi ha ripreso il suo spettacolo, sciorinando con gran classe Wild In The Streets, Matador, R.o.c.k., Mistery Kids, Spanish Town, pezzi del penultimo album King Of In Between, bellissimo (vecchie-glorie-7-garland-jeffreys-the-king-on-in-between.html), cover di Dylan e del suo grande amico Lou Reed e tanti altri brani stupendi.

Nel corso del concerto annuncia ed esegue anche qualche anteprima del nuovo album Truth Serum, in uscita per l’autunno. Ottobre è arrivato e anche l’album, prodotto da Larry Campbell, con lo stesso Campbell e Duke Levine alle chitarre, Steve Jordan alla batteria, Brian Mitchell alle tastiere e Zev Katz al basso. E sapete una cosa, è un gran bel disco, ancora una volta Garland Jeffreys si conferma uno dei migliori autori e cantanti, quindi cantautore, della scena musicale americana, dai tempi dell’esordio nel lontano 1973 con un album omonimo, fiancheggiato dall’ottimo singolo Wild In The Streets e poi nelle decadi successive, la sua discografia, uscita con parsimonia, soprattutto negli ultimi anni passati a crescere la figlia Savannah, raramente ha avuto scadimenti di qualità, anche se le prove migliori, insieme all’eponimo album citato, potrebbero essere Ghost Writer, Escape Artist e l’eccellente live Rock’n’Roll Adult, ma come si fa a dimenticare American Boy & Girl e Guts For Love, quindi tutti in pratica, comunque al link della recensione di The King Of In Between trovate altre informazioni. Bruce Springsteen e David Letterman lo vogliono sui loro palcoscenici e lui non si fa certo pregare, ha detto che ha intenzione di calcare le scene almeno fino ad 80 anni e quindi gli servono nuove canzoni e quelle di Truth Serum sono ottime. Prima di parlarne, per inciso, vi ricordo anche che, a Garland Jeffreys insieme a Robyn Hitchock e al cantante cinese Cui Jian è stato assegnato il Premio Tenco 2013: secondo voi l’ineffabile “Vince Breadcrump” detto anche il Mollicone nazionale di chi avrà parlato nella sua rubrica sul TG1? Si, è proprio quello che state pensando, la Cina è vicina.

Ma veniamo alle canzoni del nuovo album del cantautore di Brooklyn: si apre con la bluesata, à la Jeffreys, title-track Truth Serum, con la slide di Levine a duettare con la solista di Campbell e Brian Mitchell all’armonica, grande partenza. Any Rain è un medium tempo rocker, nella migliore tradizione del suo repertorio, scritta per l’album precedente e conclusa nelle sessions del nuovo disco, grande lavoro ancora di Brian Mitchell, questa volta all’organo, ottimo come sempre Steve Jordan alla batteria e i due solisti pennellano con le loro chitarre, tutta la band nell’insieme è perfetta e la voce di Garland è pimpante come sempre. It’s What I Am è una bellissima ballatona acustica che ricorda il Van Morrison più ispirato o anche il Dylan di Blonde on Blonde, tra folk e soul, una vera delizia aggiunta il lavoro del pianoforte. Dragons To Slay è un “reggae-one” di quelli esagerati, chi legge queste pagine sa che non amo il genere, ma come mi pare di avere detto altre volte faccio una eccezione per Jeffreys, la Armatrading e Joe Jackson, ma non si sappia in giro (Bob Marley aveva detto ai tempi che Garland Jeffreys era il miglior cantante americano di reggae)! Is This The Real World, se non sapessimo chi l’ha scritta, potrebbe essere una canzone, e pure di quelle belle, del songbook del nostro amico Bruce, e non aggiungo altro, anzi…ma no, va bene così! Se fosse un vecchio LP, fine della prima facciata.

La seconda parte inizia con Ship Of Fools, un bel brano di impianto elettroacustico, chitarre elettriche ed acustiche si intrecciano con una fisarmonica suonata da Mitchell, il jolly dei strumentisti presenti nel CD, altra canzone che delizia i nostri padiglioni auricolari. Collide The Generations, scritto con la 17enne figlia Savannah in mente, destinata anche lei ad una carriera artistica, è il pezzo più rock di questa raccolta, con una chitarra tra lo psichedelico e l’hendrixiano nell’abbrivio del brano ed uno svolgimento nello stile del suo amico Lou Reed, gran ritmo e grinta come ai vecchi tempi. Far far away è uno di quei tipici brani in crescendo del repertorio di Jeffreys, parte lenta, con gli strumenti che entrano uno ad uno e poi diventa inarrestabile nelle ondate di melodia che si riversano sull’attonito e felice ascoltatore, ma allora si ancora buona musica in questo mondo? Ebbene sì! Colorblind Love è un funky blues dai ritmi spezzati e in levare, con il drumming agile ed inventivo di Jordan che fa da sfondo alle evoluzioni dei grandi musicisti che suonano in questo disco, con Garland Jeffreys che si lancia brevemente anche nel suo celebre falsetto. E per il finale, un po’ in tono minore, ma è l’unica, di questo Truth Serum, devo dire, ci si sposta ancora su tempi vagamente reggae, ma il ritmo lo detta il banjo(?!?) dell’ospite James Maddock, e Revolution Of The Mind, nonostante il titolo, non resterà negli annali delle migliori canzoni di Garland Jeffreys. Molte altre presenti nel disco però si’, e quindi a buon intenditore poche parole, anzi una: acquistare! Così, brutalmente.

Bruno Conti

Piccoli (Ri)Passi Della Storia Del Rock! Garland Jeffreys In Concerto A Pavia 17 Luglio 2013

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Ultima data del tour italiano di Garland Jeffreys, questa sera, 17 luglio 2013, in Piazza Vittoria a Pavia, concerto gratuito che chiude il breve tour italiano, 4 date, di questo autentico newyorkese, nato a Brooklyn il 3 luglio del 1943, quindi ha appena compiuto 70 anni. Grande amico di Lou Reed, conosciuto all’università di Syracuse nel 1964 e da allora i due sono rimasti grandi amici. In attesa della pubblicazione del nuovo album, finanziato dai fans, che stando al sito di Jeffreys  http://garlandjeffreys.com/ è in dirittura di arrivo, vi ripropongo quanto avevo scritto sul Blog in occasione dell’uscita dell’album The King Of In Between. Nel frattempo, come ha scritto anche sul suo sito “Viva Italia”. Il nostro amico, tra l’altro ha studiato proprio anche nel nostro paese all’Università di Firenze, sempre nei lontani anni ’60, e parla un discreto italiano!

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Garland Jeffreys – The King Of In Between – Luna Park Records

Ma vi sembrava possibile che fosse “scomparso” uno come Garland Jeffreys, anni 67 (le biografie danno come anno di nascita o il 1943 o il 1944, forse perché è nato il 1° gennaio del ’44?), luogo Brooklyn, New York, compagno di scuola (all’università) di Lou Reed, amico personale di Springsteen, nei suoi dischi hanno suonato, tra gli altri: Stan Getz, Dr. John, Sonny Rollins, James Taylor, David Bromberg, Linton Kwesi Johnson, Sly & Robbie, Phoebe Snow e ora, nuovamente, anche il buon Lou! Dicevo, vi sembra possibile che fosse scomparso? E infatti eccolo qua con un nuovo disco dopo quattordici anni di silenzio interrotti solo dalla raccolta I’m Alive pubblicata dalla Universal e qualche best e twofer rilasciato dalla australiana Raven.

E torna in pompa magna con un signor disco (a parte la eventuale reperibilità), uno dei suoi migliori in assoluto, nettamente superiore a quel Wildlife Dictionary del 1997 dove provava a cimentarsi anche con electrodance e trip hop, non con grandi risultati. E questo nonostante Jeffreys sia sempre stato un maestro delle fusioni di più musiche, nei suoi dischi più riusciti (e anche negli altri) hanno sempre convissuto rock, folk, soul e reggae (confesso di non essere un amante del reggae, per usare un eufemismo, ma Garland Jeffreys, con Joan Armatrading e Joe Jackson, è uno dei pochi da cui lo “reggo”). Don’t Call Me Buckwheat del 1991 era il disco dove meglio era riuscito a fondere “modernismo” e rock tradizionale, forse per merito di alcune ottime canzoni e dei testi a sfondo “razziale”, ma i suoi migliori, per il sottoscritto, rimangono quelli del periodo “rock”, l’ottimo Ghost Writer del 1977 e l’uno-due irresistibile di Escape Artist (dove apparivano anche Roy Bittan e Danny Federici) e il grandissimo disco dal vivo Rock’n’Roll Adult con Brinsley Schwarz dei Rumour alla chitarra.

Questo nuovo The King Of In Between (si sarebbe potuto chiamare Streets of New York se non l’avesse già fatto Willie Nile) lo riporta ai fasti del passato: prodotto da Larry Campbell, che ultimamente non sbaglia un colpo, da Tara Nevins agli Hot Tuna, passando per Levon Helm, con Roy Cicala che si occupa della parte tecnica (era l’ingegnere del suono ai Record Plant Studios ai tempi di Lennon e Springsteen), una manciata di ottime canzoni e lo spirito di un ragazzino (dimostra almeno dieci anni meno di quelli che ha), e una figlia di 14 anni (l’età non casualmente coincide con il suo ritiro dalle scene), Savannah, che vuole fare la musicista di professione e duetta proprio ai cori con Lou Reed in The Contortionist.

Coney Island Winter è una partenza fulminante, come ai tempi d’oro, un brano rock in crescendo, con basso funky, la batteria di Steve Jordan, le chitarre di Campbell e Duke Levine, e un tiro musicale che oltre che nel titolo ricorda anche nel suono il miglior Lou Reed e, perché no, anche il miglior Garland Jeffreys, uno dei migliori cantori della città di New York con lo scomparso Willy Deville. I’m Alive era uno dei due brani inediti nella raccolta del 2007, raffinatissimo negli arrangiamenti, tirato nei ritmi rock and soul e con un ritornello facilmente memorabilizzabile, praticamente una canzone perfetta. Streetwise è un funky-rock contaminato da una sezione archi da disco anni ’70 ma non può non piacere nella sua immediatezza e freschezza. La già citata The Contorsionist ha i ritmi cadenzati dei migliori pezzi di Garland con il vocione di Lou Reed che si presta per i coretti simil doo-wop del delizioso ritornello e la chitarra di Larry Campbell che ricama note. All around the world è il primo dei brani in stile reggae ma rivisto nell’ottica newyorkese di Jeffreys, con fiati e cori femminili a impreziosire la struttura sonora.

C’è spazio anche per il Blues con una fantastica ‘til John Lee Hooker Calls Me con la slide di Campbell, una fisarmonica insinuante e un ritmo boogie inesorabile. E di nuovo in Love Is A Not Cliché, quasi atmosferico alla Tom Waits se non fosse per le evidenti differenze tra il vocione di Waits e la voce più malleabile ed acuta di Jeffreys. Rock and Roll Music tiene fede al suo titolo, un brano che oscilla tra rockabilly e blues con grande energia. The Beautiful Truth è un altro brano anomalo, atmosferico, con un sound di chitarra che ricorda le “minisinfonie Stax” di Isaac Hayes mescolate a ritmi reggae e con il falsetto del nostro amico che galleggia sui ritmi spezzati. Roller Coaster Town è proprio reggae, con un filo di ska nei fiati sincopati però con New York sullo sfondo e Junior Marvin dei Wailers a unire passato e presente. In God’s Waiting Room è il pezzo acustico che non ti aspetteresti, solo la voce e una chitarra acustica slide, bellissimo peraltro con la voce che si arrampica improvvisamente verso dei falsetti incredibili.

La “traccia nascosta” sinceramente se la poteva risparmiare, si chiama Rock On, ma di rock non c’è nulla, su un tappeto di batterie elettroniche e synth a go-go cita a casaccio pezzi di vecchi brani e non mi entusiasma per nulla.

Per il resto nulla da eccepire, un signor album. Ora non vi resta altro da fare che trovarlo.

Bruno Conti

La Classe Non E’ Acqua! Boz Scaggs – Memphis

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Boz Scaggs – Memphis – 429 Records/Universal  05-03-2013

Questo signore non è un “pistola” qualunque (inteso come termine colloquiale milanese e non alla Los Lobos o Willy DeVille, per quanto qualche aggancio c’è, ma ci arriviamo fra un attimo)! Sulla scena da quasi 50 anni, il suo primo album, omonimo, uscito solo in Svezia è del 1965, la sua carriera ha attraversato vari fasi: rientrato negli States, nell’area di San Francisco, è stato il primo cantante della Steve Miller (Blues) Band, apparendo nei primi due album del ’68, poi ha firmato un contratto con la Atlantic, che ha pubblicato il suo primo album solista, prodotto dal giovanissimo Jann Wenner (il fondatore ed editore di Rolling Stone, la rivista), dove suonava uno stuolo incredibile di musicisti, tutti quelli dei Muscle Shoals Studios, luogo dove fu inciso il disco, Eddie Hinton, David Hood, Barry Beckett, Jimmy Johnson, Roger Hawkins e uno strepitoso Duane Allman, che tra l’altre, appare in una fantastica Loan Me A Dime, brano in cui, secondo me, rilascia quello che è il più prodigioso assolo di studio della sua breve carriera (e per questo gliene sarò sempre grato). Il disco, bellissimo, e tuttora nella lista dei 500 più belli di tutti i tempi, sempre secondo Rolling Stone (sia pure al 496° posto) è stato remixato nel 1977 da Tom Perry per mettere più in evidenza la chitarra di Allman, ma non a scapito di Boz Scaggs, che fa un figurone nel suo periodo blues. Nel 1971 firma per la Columbia, dove inaugura il suo periodo morbido ma ritmato, in una parola (facciamo tre) “blue-eyed soul”: con Moments, Boz Scaggs & Band, entrambi prodotti da Glyn Johns, In My Time, il ritorno a Muscle Shoals, prodotto da Roy Halee (quello di Simon & Garfunkel).

Insomma la Columbia ci credeva. E nel 1974 cominciamo ad arrivare i frutti: Slow Dancer, prodotto e con molti brani firmati da Johnny Bristol, ex grande soulman alla Motown, entra nei Top 100 delle classifiche USA e, fin dal titolo, rappresenta alla perfezione lo stile di Scaggs, un soul raffinato e leggermente danzereccio, ma di gran classe, che farà poi la fortuna due anni dopo, nel 1976, di Silk Degrees, funky vellutato rivestito di rock o viceversa, che venderà più di 5 milioni di copie, anche grazie a Lido Shuffle e soprattutto Lowdown, percorso da un riff di basso memorabile di David Hungate. Nel disco, tra i futuri Toto, oltre ad Hungate, suonano anche il tastierista David Paich e Jeff Porcaro, alla batteria, oltre a Les Dudek, Fred Tackett, Tom Scott, Chuck Findlay e altri veterani della scena californiana metà anni ’70, che poi sarebbe degenerata negli anni a venire, in un suono bieco e commerciale. Questo disco è commerciale, ma c’è ancora gran classe, che poi andrà scemando lentamente, insieme al successo, nei successivi Down Two Then Left e Middle Man, che nonostante la presenza di Santana, Lukather e molti altri musicisti, nelle note se ne contano una trentina, sommerge la voce sempre valida di Scaggs sotto una miriade di tastiere (soprattutto Synth), voci e fiati, con risultati inversamente proporzionali al numero dei presenti. Poi, dopo un best, la Columbia lo mette in naftalina fino al 1988, quando riappare con Other Roads, un disco con un sound orribile, tipico anni ’80, con drum machines e tastiere elettroniche a profusione, sempre nonostante i musicisti usati, ma era il periodo. Nel 1994 firma per la Virgin e riappare con Some Change, un bel disco, dove la sua bellissima voce e una manciata di buone canzoni, scritte per la maggior parte dallo stesso Boz, una a testa anche con Marcus Miller e Robben Ford, lo riportano a quel soul bianco di cui è sempre stato un maestro.

Nel 1996 fa un mezzo unplugged per il mercato giapponese, Fade Into Light, dove re-interpreta i suoi classici in versioni che pemettono di gustare vieppiù la sua voce e con Come On Home sempre su Virgin del 1997, a fianco del R&B e del Rock, reintroduce anche il blues primo amore. Dig è un altro buon disco del 2001, sempre in quel filone, mentre in But Beatiful del 2003, poi doppiato con Speak Low del 2008, si dà al jazz raffinato e agli standards, ben suonati e ben cantati, ma secondo chi scrive, un po’ pallosi, senza quella scintilla, quel quid che ogni tanto lo ha distinto negli anni. E che si trova invece, nell’ottimo doppio dal vivo, Greatest Hits Live, pubblicato nel 2004 per la Mailboat di Jimmy Buffett, dove con la classe innata che lo contraddistingue, tra blues, rock e classici, ci ricorda perché è considerato uno dei “tesori nascosti” della musica americana. Mi sono dilungato un attimo, ma ne valeva la pena: veniamo ora a questo Memphis, già dal titolo una promessa di prelibatezze. Registrato ai Royal Studios, Memphis, Tennessee, quelli di Al Green e Willie Mitchell, prodotto da uno Steve Jordan (John Mayer Trio, Ex-Pensive Winos di Keith Richards, Robert Cray, Buddy Guy, Clapton, quelli che meritano) in stato di grazia, sia dietro alla consolle che alla batteria, con Ray Parker Jr., Willie Weeks, Lester Snell, il sommo Spooner Oldham alle tastiere, una batteria di voci femminili di cui non so i nomi, perché non ho ancora in mano il disco e l’accoppiata formidabile Keb’ Mo’  alla slide e Charlie Musselwhite all’armonica in un blues “fumante” come ai vecchi tempi, Dry Spell, dove anche il lavoro di Jordan ai tamburi è da applausi.

In tutto il disco Boz Scaggs canta con una voce che è un terzo John Hiatt, un terzo Willy DeVille e un terzo lui reincarnato in qualche grande soulman del passato (per capire con chi abbiamo a che fare se non lo avete mai sentito). Gone Baby Gone è melliflua, raffinata e melismatica come John Hiatt che canta Al Green con il divino organo di Oldham a ricreare il sound dorato della Hi Records e tutti i musicisti misurati ed evidenziati dalla produzione di Jordan. Per evitare gli equivoci So Good To Be Here è proprio quella di Al Green, con l’arrangiamento di archi e fiati di Snell ad aggiungere quel tocco di classe in più ad un brano che è l’epitome del soul perfetto, con la chitarrina di Parker maliziosa. Willy DeVille, stranamente poco conosciuto ed amato in America, dopo quello di Peter Wolf, riceve ora l’omaggio di Scaggs in una rivisitazione deliziosa di Mixed Up, Shook Up Girl, che cita, nell’arrangiamento ondeggiante e complesso a livello ritmico anche quei Drifters che erano uno dei punti di riferimento del grande Willy, i coretti sullo sfondo sono da sballo e lui, Boz, canta alla grande. In Rainy Night In Georgia sfodera un vocione alla Tony Joe White che è perfetto per la canzone, qui in una versione raccolta e felpata, quasi acustica. Love On A Two Way Street è una ballata soul scritta da Sylvia Robinson quella che ha scritto Pillow Talk per Al Green, ma anche Rapper’s Delight, il brano fu un successo per i Moments nel 1970 ed è una piccola meraviglia, con quelle voci femminili che si intrecciano sotto la voce magica di Scaggs e il piano di Spooner Oldham.

Pearl Of The Quarter sarà mica degli Steely Dan? Certo che sì, nel festival della raffinatezza poteva mancare uno dei migliori rappresentanti? E poi Scaggs, con Michael McDonald canta anche nei Dukes Of September, il gruppo in cui, pure con Donald Fagen, gira il mondo per spargere il verbo del soul e della buona musica in generale, inutile dire, versione sontuosa nel magnifico lavoro ritmico di Jordan. Altro omaggio ai Mink De Ville, in questo caso, con una canzone Cadillac Walk, che risveglia i vecchi ricordi di uno che è stato anche il cantante della Steve Miller band e di rock e blues se ne intende, altro arrangiamento sospeso tra grinta e sofisticatezza, con la chitarra dello stesso Scaggs e le percussioni di Jordan in vena di magie.

Che vengono reiterate in una versione super di Corrina, Corrina, folk blues acustico di matrice sopraffina, con un assolo di chitarra acustica che non so di chi sia, ma dalla classe potrebbe essere sempre Keb’ Mo’ e nel soul d’annata di Can I Change My Mind, un grande successo di Tyrone Davis che gli amanti del genere forse ricordano, ma che per tutti gli altri sarà una piacevole sorpresa, con quell’intermezzo parlato della voce femminile che è da antologia del genere, l’organo ssscivola che è un piacere. Oltre alla Dry Spell ricordata all’inizio c’è poi un altro blues da manuale come You Got Me Cryin’ e per concludere una ballata pianistica Sunny Gone, scritta dallo stesso Boz Scaggs e che porta a compimento l’album con un’aura di malinconica bellezza. Come si diceva nel titolo “la classe non è acqua”. Gran bel disco!

Bruno Conti

Vecchie Glorie 7. Garland Jeffreys – The King Of In Between

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Garland Jeffreys – The King Of In Between – Luna Park Records

Ma vi sembrava possibile che fosse “scomparso” uno come Garland Jeffreys, anni 67 (le biografie danno come anno di nascita o il 1943 o il 1944, forse perché è nato il 1° gennaio del ’44?), luogo Brooklyn, New York, compagno di scuola di Lou Reed, amico personale di Springsteen, nei suoi dischi hanno suonato, tra gli altri, Stan Getz, Dr. John, Sonny Rollins, James Taylor, David Bromberg, Linton Kwesi Johnson, Sly & Robbie, Phoebe Snow e ora, nuovamente, anche il buon Lou)! Dicevo, vi sembra possibile che fosse scomparso? E infatti eccolo qua con un nuovo disco dopo quattordici anni di silenzio interrotti solo dalla raccolta I’m Alive pubblicata dalla Universal e qualche best e twofer rilasciato dalla australiana Raven.

E torna in pompa magna con un signor disco (a parte la eventuale reperibilità), uno dei suoi migliori in assoluto, nettamente superiore a quel Wildlife Dictionary del 1997 dove provava a cimentarsi anche con electrodance e trip hop, non con grandi risultati. E questo nonostante Jeffreys sia sempre stato un maestro delle fusioni di più musiche, nei suoi dischi più riusciti (e anche negli altri) hanno sempre convissuto rock, folk, soul e reggae (confesso di non essere un amante del reggae, per usare un eufemismo, ma Garland Jeffreys, con Joan Armatrading e Joe Jackson, è uno dei pochi da cui lo “reggo”). Don’t Call Me Buckwheat del 1991 era il disco dove meglio era riuscito a fondere “modernismo” e rock tradizionale, forse per merito di alcune ottime canzoni e dei testi a sfondo “razziale”, ma i suoi migliori, per il sottoscritto, rimangono quelli del periodo “rock”, l’ottimo Ghost Writer del 1977 e l’uno-due irresistibile di Escape Artist (dove apparivano anche Roy Bittan e Danny Federici) e il grandissimo disco dal vivo Rock’n’Roll Adult con Brinsley Schwarz dei Rumour alla chitarra.

Questo nuovo The King Of In Between (si sarebbe potuto chiamare Streets of New York se non l’avesse già fatto Willie Nile) lo riporta ai fasti del passato: prodotto da Larry Campbell, che ultimamente non sbaglia un colpo, da Tara Nevins agli Hot Tuna, passando per Levon Helm, con Roy Cicala che si occupa della parte tecnica (era l’ingegnere del suono ai Record Plant Studios ai tempi di Lennon e Springsteen), una manciata di ottime canzoni e lo spirito di un ragazzino (dimostra almeno dieci anni meno di quelli che ha), e una figlia di 14 anni (l’età non casualmente coincide con il suo ritiro dalle scene), Savannah, che vuole fare la musicista di professione e duetta proprio ai cori con Lou Reed in The Contortionist.

Coney Island Winter è una partenza fulminante, come ai tempi d’oro, un brano rock in crescendo, con basso funky, la batteria di Steve Jordan, le chitarre di Campbell e Duke Levine, e un tiro musicale che oltre che nel titolo ricorda anche nel suono il miglior Lou Reed e, perché no, anche il miglior Garland Jeffreys, uno dei migliori cantori della città di New York con lo scomparso Willy Deville. I’m Alive era uno dei due brani inediti nella raccolta del 2007, raffinatissimo negli arrangiamenti, tirato nei ritmi rock and soul e con un ritornello facilmente memorabilizzabile, praticamente una canzone perfetta. Streetwise è un funky-rock contaminato da una sezione archi da disco anni ’70 ma non può non piacere nella sua immediatezza e freschezza. La già citata The Contorsionist ha i ritmi cadenzati dei migliori pezzi di Garland con il vocione di Lou Reed che si presta per i coretti simil doo-wop del delizioso ritornello e la chitarra di Larry Campbell che ricama note. All around the world è il primo dei brani in stile reggae ma rivisto nell’ottica newyorkese di Jeffreys, con fiati e cori femminili a impreziosire la struttura sonora.

C’è spazio anche per il Blues con una fantastica ‘til John Lee Hooker Calls Me con la slide di Campbell, una fisarmonica insinuante e un ritmo boogie inesorabile. E di nuovo in Love Is A Not Cliché, quasi atmosferico alla Tom Waits se non fosse per le evidenti differenze tra il vocione di Waits e la voce più malleabile ed acuta di Jeffreys. Rock and Roll Music tiene fede al suo titolo, un brano che oscilla tra rockabilly e blues con grande energia. The Beautiful Truth è un altro brano anomalo, atmosferico, con un sound di chitarra che ricorda le “minisinfonie Stax” di Isaac Hayes mescolate a ritmi reggae e con il falsetto del nostro amico che galleggia sui ritmi spezzati. Roller Coaster Town è proprio reggae, con un filo di ska nei fiati sincopati però con New York sullo sfondo e Junior Marvin dei Wailers a unire passato e presente. In God’s Waiting Room è il pezzo acustico che non ti aspetteresti, solo la voce e una chitarra acustica slide, bellissimo peraltro con la voce che si arrampica improvvisamente verso dei falsetti incredibili.

La “traccia nascosta” sinceramente se la poteva risparmiare, si chiama Rock On, ma di rock non c’è nulla, su un tappeto di batterie elettroniche e synth a go-go cita a casaccio pezzi di vecchi brani e non mi entusiasma per nulla.

Per il resto nulla da eccepire, un signor album. Ora non vi resta altro da fare che trovarlo.

Bruno Conti