Un Ringo In Versione “Mini”, Ma Con Più Sostanza Del Solito! Ringo Starr – Zoom In

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Ringo Starr – Zoom In – Universal CD EP

Inutile ribadire che la carriera solista di Ringo Starr ha rispettato in pieno le aspettative che i fans dei Beatles avevano dopo lo scioglimento del loro gruppo preferito: una lunga serie di album di piacevole ascolto, alcuni più riusciti di altri, ma con pochi titoli veramente imprescindibili (a mio parere si contano sulle dita di una mano: il countreggiante Beaucoup Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973, il suo seguito Goodnight Vienna, il comeback album del 1992 Time Takes Time e, forse, Vertical Man del 1998). In particolare, gli otto lavori pubblicati dal cantante-batterista di Liverpool tra il 2003 ed il 2019 sono tutti all’insegna di un pop-rock di facile assimilazione ma con poche vere zampate che li distinguano l’uno dall’altro, diciamo un livello medio di tre stellette https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/sappiamo-cosa-aspettarci-e-sempre-lui-lex-beatle-ringo-starr-whats-my-name/ . Lo scorso anno Ringo si è trovato come tutti a fare i conti con la pandemia, e durante il lockdown ha messo insieme una manciata di canzoni nuove e le ha registrate come d’abitudine “with a little help from his friends”.

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Il risultato è Zoom In, il primo EP della carriera del nostro, cinque canzoni per la durata complessiva di 19 minuti che mostrano un Ringo ispirato ed in ottima forma: forse il fatto di concentrarsi su soli cinque pezzi ha reso il progetto più solido e compatto e senza i soliti riempitivi presenti nei vari album dell’ex Beatle, ma è un fatto che Zoom In, pur non essendo un capolavoro, è la cosa migliore messa su disco dal barbuto drummer dai tempi di Ringo Rama (2003). Cinque brani che toccano vari generi, tutti affrontati da Ringo con la consueta verve e l’innata simpatia che lo contraddistingue da sempre, e prodotti da lui stesso insieme a Bruce Sugar. L’iniziale Here’s To The Nights (rilasciata sul finire del 2020) è il brano portante dell’EP, una bellissima ed emozionante ballata tra le migliori di Ringo negli ultimi trent’anni https://www.youtube.com/watch?v=S6oqrbFzLaU , nonostante una melodia ed un arrangiamento un po’ ruffiani tipici dell’autrice del pezzo (cioè la nota hit-maker Diane Warren): Ringo è accompagnato da Steve Lukather dei Toto alla chitarra, Nathan East al basso e Benmont Tench al pianoforte, ma il meglio lo troviamo nel coro “alla We Are The World” con la partecipazione tra gli altri di Paul McCartney, Joe Walsh, Lenny Kravitz, Sheryl Crow, Yola, Chris Stapleton, Ben Harper e Dave Grohl.

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Ascoltate questa canzone almeno un paio di volte e farete fatica a togliervela dalle orecchie. Zoom In Zoom Out mostra il lato rock di Ringo, un brano cadenzato che vede ancora Tench al piano ed addirittura l’ex Doors Robby Krieger alla solista: la base è leggermente blues, ma poi Mr. Starkey intona una delle sue tipiche melodie saltellanti ben supportato dalle backing vocalist femminili, ed il risultato è una canzone solida e piacevole al tempo stesso https://www.youtube.com/watch?v=w3XaEPUmsFA . La pimpante Teach Me To Tango fonde mirabilmente una struttura da pop song con ritmi quasi latini, anche se una chitarrina insinuante mantiene alta anche la quota rock (ed il pezzo è, manco a dirlo, gradevolissimo) https://www.youtube.com/watch?v=zWrc9qRxx4Y , mentre Waiting For The Tide To Turn è un’inattesa incursione di Ringo nel reggae, un genere da lui molto amato (almeno così dice), ma che finora non aveva mai sfiorato: eppure il brano è riuscito, solare ed il nostro riesce a risultare credibile anche senza dreadlocks  . Chiude l’EP Not Enough Love In The World, scritta da Lukather insieme all’altro Toto Joseph Williams su misura per Ringo, in quanto si tratta di una deliziosa pop song dal ritmo guizzante ed un sapore decisamente beatlesiano https://www.youtube.com/watch?v=RJINbNKsAtc . Zoom In ci mostra quindi un Ringo Starr come di consueto fresco e piacevole ma, a differenza del solito, senza cali di qualità.

Marco Verdi

Sappiamo Cosa Aspettarci. E’ Sempre Lui, L’Ex Beatle! Ringo Starr – What’s My Name

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Ringo Starr – What’s My Name – Universal Music

Album n° 20 (esclusi quelli usciti come All-Starr Band) per Ringo Starr, intitolato What’s My Name, è il “solito” disco per quello che sarà comunque sempre per tutti il batterista dei Beatles. Un disco pop piacevole e disimpegnato come è sempre stato per gli album di Ringo: i tempi degli esordi solisti quando aveva provato la strada degli standard classici e del country sono un lontano ricordo, mentre rimane a grandi linee quell’approccio più rock chitarristico degli ultimi anni, mutuato dalle sue collaborazioni con i musicisti della All-Starr Band, con il cognato Joe Walsh e Dave Stewart, che si alternano alla solista nei primi due brani e Steve Lukhater che è il chitarrista in quasi tutte le altre canzoni.. Tra gli altri membri della sua band per i concerti dal vivo ci sono anche Richard Page, Edgar Winter e Warren Ham, oltre a Edgar Winter, Benmont Bench e Jim Cox che si alternano come tastieristi: e naturalmente Paul McCartney, che suona il basso e si occupa delle armonie vocali nella cover del brano postumo di John Lennon, per completare la “reunion” il produttore del brano originale di John Jack Douglas ha inserito nella canzone anche una piccola citazione di Here Comes The Sun di George Harrison.

Una canzone romantica che Lennon aveva dedicato a Yoko Ono e che risulta il brano più romantico, malinconico e “beatlesiano” delle 10 tracce incluse nel CD, anche grazie alla presenza degli archi e della fisarmonica di Allison Lovejoy, oltre a Joe Walsh che utilizza un timbro molto simile a quello di George alla chitarra. Per il resto delle canzoni, Starr ha optato (a dispetto dei suoi quasi 80 anni) per un sound più rock e mosso, come nella traccia iniziale Gotta Get Up To Get Down, uno dei classici titoli nonsense alla Ringo, come A Hard Day’s Night e Tomorrow Never Knows, scritta insieme a Walsh, che improvvisa anche una sorta di rap rock nel brano, oltre a curare gli assoli di chitarra, waw-wah incluso e anche le tastiere di Edgar Winter hanno qualche rimando al suono di Billy Preston e Nathan East al basso fa la parte del McCartney; le parti di batteria sono tutte di Ringo, che è co-autore di tutti i brani e pure co-produttore. Anche It’s Not Love That You Want il brano scritto con Dave Stewart ha quell’aura tipica dei brani di Starr, pop-rock mosso e brioso. Magic è il brano scritto con Lukather una delle canzoni più rock, molto “riffata”, anche se il solito cantato laconico del nostro amico per emergere ha bisogno del consueto “aiuto dei suoi amici” alle armonie vocali, con un ottimo assolo di Steve.

Money (That’s What I Want)  è la cover del vecchio brano Motown che chiudeva With The Beatles, e nonostante l’impegno delle Waters alle armonie vocali, l’uso della voce trattata di Starr, che vorrebbe essere “moderna”, è invece piuttosto deleteria, mentre anche Better Days, scritta con Sam Hollander, è senza infamia e senza lode, buona la parte strumentale ma le melodie… L’allegra e spensierata Life Is Good è più adatta alle corde di Starr, con un ennesimo buon assolo di Lukather e anche Thank God For Music ancora scritta con Hollander, è una specie di ottimistica disamina della vita del nostro amico, con una bella melodia e ancora con un buon Lukather e sempre gradevole è Send Love Spread Peace, il classico brano con “messaggio” .universale (come da foto di copertina), con ottimo lavoro di Benmont Tench alle tastiere. Chiude la title track, il brano scritto con Colin Hay è uno di quelli più grintosi, con Warren Ham all’armonica e un fantastico Lukather alla slide, come detto, sappiamo cosa aspettarci, il solito Ringo!

Bruno Conti

Un Tributo Blues “Duretto” Ma Per Nulla Disprezzabile. Bob Daisley & Friends – Moore Blues For Gary

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Bob Daisley & Friends – Moore Blues For Gary – earMusic/Edel       

Ormai sono trascorsi più di 7 anni dalla scomparsa di Gary Moore,  e ora ci pensa il vecchio amico e compagno di avventure musicali, a lungo bassista nei suoi dischi, Bob Daisley, a rendergli omaggio con un tributo. Proprio il musicista di origini australiane era stato, diciamo, l’istigatore della svolta blues di Moore, quello che gli ha suggerito che avrebbe dovuto fare un album dedicato a questo genere, Still Got The Blues, che è stato il primo di una lunga serie, e come spesso accade, anche il migliore (insieme a Blues For  Greeny ,il disco dedicato a Peter Green, a proposito di tributi poi Gary Moore ne aveva inciso anche uno dedicato a Jimi Hendrix). Diciamo che gli “amici” di Moore sono stati spesso legati all’hard rock e all’heavy metal, quindi questo Moore Blues For Gary predilige sonorità molto vigorose, il blues è tinto profondamente dal rock: d’altronde Daisley ha suonato a lungo con i Whitesnake, ma anche nella band di Ozzy Osbourne, non tralasciando una lunga militanza, circa una ventina di anni, con Gary Moore.

Con queste premesse era quasi inevitabile che l’album avrebbe avuto un suono piuttosto “duretto”, ma alla fine il risultato non è disprezzabile, anche se spesso le canzoni sono eseguite quasi in carta carbone rispetto a quelle di Moore. Non ci sono nomi notissimi nell’album, soprattutto sul versante blues, però il CD si lascia ascoltare: la partenza è più che buona, con la sinuosa That’s Why I Play The Blues, un brano ispirato dallo stile del suo vecchio mentore Peter Green, uno slow dall’atmosfera raffinata, con un buon lavoro del batterista Rob Grosser, altro veterano australiano, di  Jon C. Butler (ex Diesel Park West) bravo vocalist, e di Tim Gaze, altro eccellente chitarrista, che con l’organista Clayton Doley completa la pattuglia down under, che lavora di fino in questo brano. The Blues Just Got Sadder, un ricordo del vecchio amico da parte da Daisley, vede ancora un buon lavoro di Gaze alla slide, con l’aggiunta della fluida solista di Steve Lukather e della voce di Joe Lynn Turner dei Rainbow, mentre Empty Rooms, tratta da Victims Of The Future del 1983, anche se è meno blues e più AOR, non è male, canta Neil Carter degli UFO, Illya Szwec, di cui ignoravo l’esistenza, australiano anche lui, se la cava alla chitarra, e Daisley suona anche l’armonica in questo brano.

Still Got The Blues For You, è uno dei cavalli di battaglia di Moore, una classica ballata che suona quasi uguale all’originale, con John Sykes (Thin Lizzy, Whitesnake) alle prese con il classico refrain del brano alla solista e Daniel Bowes dei Thunder al canto, meno tamarro di quanto mi aspettavo, anzi;Texas Strut, dallo stesso album, era un omaggio di Gary alla musica di Stevie Ray Vaughan, un gagliardo boogie preso a tutta velocità, cantato da Brush Shiels, il vocalist degli Skid Row, la prima band di Moore, alla chitarra ancora l’ottimo Gaze. Nothing’s The Same è uno strano brano intimo, con chitarra acustica, cello e contrabbasso, cantato ottimamente da Glenn Hughes. The Loner è uno strumentale con Doug Aldrich alla solista, mentre per Torn Inside arriva Stan Webb dei Chicken Shack, una delle vecchie glorie del British Blues e Don’t Believe A Word, uno dei brani più belli di Phil Lynott dei Thin Lizzy,  viene rallentata e stranamente, a mio parere. è forse uno dei brani meno riusciti, anche se la voce e la chitarra di Damon Johnson filano che è un piacere, e buona anche Story of The Blues con Gaze alla solista e la voce potente di Jon C. Butler di nuovo in evidenza. In This One’s For You, un rock-blues decisamente hendrixiano scritto da Daisley, i due figli di Gary Jack e Gus se la cavano egregiamente a chitarra e voce, Power Of The Blues è forse un filo “esagerata”, ma Turner e Jeff Watson dei Night Ranger non enfatizzano troppo il lato metal, prima di lasciare spazio alla solista lirica di Steve Morse e alla voce di Ricky Warwick, attuale cantante dei Thin Lizzy, che rendono onore a Parisienne Walkways con una prestazione egregia.

Pensavo peggio, molto simili agli originali ma, ripeto, un CD non disprezzabile nell’insieme, per chi il blues(rock) lo ama “mooolto” energico.

Bruno Conti

Anche Loro Sulle Strade Della California Rock. Supersonic Blues Machine – Californisoul

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Supersonic Blues Machine – Californisoul – Mascot/Provogue  

Capitolo secondo per il power rock trio formato da Lance Lopez, chitarra e voce, Fabrizio Grossi, basso e produttore del disco, nonché Kenny Aronoff alla batteria: se uniamo il titolo del disco, California e soul, e quello della band, che contiene comunque la parola blues al suo interno, e se aggiungiamo ancora rock, abbiamo una idea generale di cosa aspettarci. Come è politica abituale della Provogue nell’album ci sono vari ospiti, quattro in comune con il disco precedente del gruppo e uno “nuovo”: vi dico subito che non si raggiungono i livelli del recente album di duetti di Walter Trout (peraltro presente in un brano), che era veramente un disco notevole http://discoclub.myblog.it/2017/08/29/tutti-insieme-appassionatamente-difficile-fare-meglio-walter-trout-and-friends-were-all-in-this-together/ , ma il trio, californiano di adozione, con un texano, un italiano e un newyorkese in formazione, sa comunque regalarci del sano rock-blues, ogni tanto di grana grossa, anche pestato, sia pure con Aronoff  che lo fa con cognizione di causa grazie ai suoi trascorsi con Mellencamp e Fogerty, “moderno” e commerciale a tratti, per la presenza di Grossi che frequenta anche altri generi, con la guida della band affidata a Lopez, che è chitarrista di stampo Hendrix-vaughaniano, se mi passate il termine, e buon cantante, con una voce che, come ricordavo nella recensione del disco precedente West Of Flushing South Of Frisco,  ricorda molto quella di Popa Chubby http://discoclub.myblog.it/2016/02/26/rock-blues-buoni-risultati-esce-febbraio-supersonic-blues-machine-west-of-flushing-south-of-frisco/ .

Californisoul si apre con I Am Done Missing You, che ondeggia tra un classico blues-rock di stampo seventies, anche con uso di armonica, con elementi funky, reggae e coretti che cercano di strizzare l’occhio alle radio, mai senza sbracare troppo, insomma un tocco di modernità senza comunque adagiarsi a fondo nel conformismo della musica attuale, tutta uguale, e con Lopez che comincia subito a scaldare il suo wah-wah. Il primo ospite a presentarsi è Robben Ford, con il suo tocco raffinato e di gran classe, in un brano, Somebody’s Fool, che richiama certe cose vagamente alla Cream, con Grossi, che è l’autore di tutti i brani, che inserisce sempre qualche elemento più leggero e commerciale, ma le chitarre viaggiano alla grande, Lopez alla slide e Ford molto bluesy e tirato per i suoi standard abituali; L.O.V.E. ha ancora questa aura da Californisoul, con R&B e Rock che vanno a braccetto con il blues, di nuovo armonica e chitarre a guidare le danze, ma anche il groove non manca, e gli altri musicisti aggiunti, Alessandro Alessandroni Jr. alle tastiere (proprio lui, figlio d’arte del famoso “fischiatore dei Western di Morricone), Serge Simic, armonie vocali in Love” e “Hard Times”, come pure Andrea e Francis Benitez Grossi, danno quel tocco più radiofonico https://www.youtube.com/watch?v=wKnjRBk2Xjc . Broken Hart con Billy Gibbons alla seconda chitarra, potete immaginare come è, due texani nello stesso brano ed è subito southern rock a tutta forza, non si fanno prigionieri; Bad Boys, ancora con Lance Lopez a pigiare sul suo pedale wah-wah, attinge sia dall’Hendrix più nero come dalle band di funky-rock anni ’70, come conferma la successiva Elevate, questa volta con Eric Gales, altro hendrixiano doc, a duettare con Lopez in uno sciabordio frenetico di chitarre a manetta e cambi di tempo repentini (non so cosa ho detto, ma suona bene).

The One tenta anche la carta del latin-rock alla Santana, con discreti risultati, grazie anche ai soliti inserti soul, mentre Hard Times, con l’ex Toto Steve Lukather alla seconda solista aggiunta, nei suoi quasi otto minuti prova con successo la strada di un rock melodico, complesso, anche raffinato, costruito su un bel crescendo di questa rock ballad che gira attorno al grande lavoro dei vari musicisti coinvolti, e che finale! Cry è un bel lento che ruota attorno ad un piano elettrico e con il gruppo che costruisce lentamente l’atmosfera di questa sorta di preghiera laica; Stranger, di nuovo a tutto wah-wah, non allenta la tensione del rock tirato che domina questo Californisoul, che poi, grazie alla presenza di Walter Trout alla seconda chitarra, aumenta la quota blues (rock) in lento molto “atmosferico” e con le soliste che lavorano veramente di fino. Thank You, con una sezione fiati che sbuca dal nulla e i ritmi decisamente reggae di This is Love, mi sembrano canzoni meno centrate, al di là del solito buon lavoro della solista di Lopez, ma secondo il mio gusto personale abbassano il livello medio di un album complessivamente buono e destinato soprattutto a chi ama il rock energico e chitarristico.

Bruno Conti

Il “Solito” Ringo, Piacevole E Disimpegnato. Ringo Starr – Give More Love

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Ringo Starr – Give More Love – Universal CD

Personalmente non sono mai stato d’accordo con le critiche più frequenti mosse negli anni verso Ringo Starr, e cioè che fosse un batterista piuttosto scarso e che dovesse la sua fama semplicemente all’allontanamento di Pete Best dal posto dietro ai tamburi dei Beatles. Certo, quello può essere stato un colpo di fortuna, ma il piccolo e nasuto Richard Starkey i galloni se li è guadagnati sul campo, migliorandosi negli anni e mettendo a punto uno stile riconoscibilissimo, pulito ed essenziale: non credo infatti che la miriade di musicisti che, dal 1970 in poi, hanno richiesto i servigi di Ringo sui propri album fossero tutti degli autolesionisti che volevano un batterista poco capace solo perché “faceva figo” avere il nome di un Beatle sul disco. Diverso è il discorso quando si parla di Ringo come musicista in proprio, dato che nella sua ormai ampia discografia (19 album di studio compreso l’ultimo) e volendo stare larghi, di dischi indispensabili ne citerei tre: l’ottimo esercizio di puro country Beaucoups Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973 ed il riuscito comeback album del 1992 Time Takes Time. Nel corso degli ultimi vent’anni Ringo ha continuato ad incidere con regolarità (e ad esibirsi con la sua All-Starr Band, ma questa è un’altra storia), sfornando una serie di album tanto piacevoli quanto tutto sommato superflui, con alcuni meglio di altri (Vertical Man, Ringo Rama, Liverpool 8) ed altri apprezzabili ma decisamente meno riusciti, tra i quali metterei senz’altro i tre usciti nella presente decade, Y Not http://discoclub.myblog.it/2009/12/30/ringo-starr-y-not/ , Ringo 2012 e Postcard From Paradise.

Give More Love, uscito il 15 Settembre scorso, è un buon disco, con alcune canzoni ottime ed altre più nella norma, un lavoro che non si aggiunge certo ai tre “imperdibili” citati all’inizio ma si colloca altrettanto certamente tra i più positivi delle ultime due decadi. Inizialmente Give More Love doveva essere un album country da realizzare in collaborazione con l’ex Eurythmics Dave Stewart, ma poi Ringo ha scritto canzoni con uno spirito diverso, più rock, e le ha incise e prodotte in proprio nel suo studio casalingo. E l’esito finale è molto piacevole, forse più del solito: Ringo non sarà mai un fuoriclasse, ma in tutti questi anni ha imparato anche a scrivere canzoni migliori, e se messo nelle giuste condizioni, cioè con in brani adatti a lui e con l’aiuto di qualche amico, è ancora in grado di divertire. Dicevo degli amici, ed in questo disco c’è una lista di nomi impressionanti, che solo ad elencarli tutti ci vuole un post a parte (anche se ognuno di loro, devo dirlo, si mette al servizio del nostro senza rubargli mai la scena): Steve Lukather, Peter Frampton, Joe Walsh, Greg Leisz, Dave Stewart, Gary Nicholson, Benmont Tench, Edgar Winter, Don Was, Greg e Matt Bissonette, Timothy B. Schmit, Nathan East e, l’ho lasciato volutamente per ultimo, l’ex compare Paul McCartney al basso in due pezzi. Un gradevole disco di pop-rock quindi, senza troppe problematiche, di classe e suonato benissimo. Si inizia con la potente We’re On The Road Again, un rock’n’roll trascinante con Lukather alla solista e McCartney al basso che “pompano” che è un piacere e Ringo che canta in maniera sicura (e Paul alla fine piazza un paio di controcanti riconoscibilissimi): ottimo avvio. Laughable, cadenzata ed insinuante, è piacevole ed immediata, grazie ad un bel refrain, e mostra che il nostro ha scelto una produzione più rock che pop, con grande spazio per le chitarre (qui l’axeman è Frampton).

Show Me The Way è uno slow piuttosto asciutto nell’arrangiamento (organo, chitarra e sezione ritmica), ma io Ringo lo preferisco nei brani più mossi, come Speed Of Sound, altro rock’n’roll deciso, ben eseguito e sufficientemente coinvolgente, con Frampton che per l’occasione rispolvera il suo talkbox. Molto carina Standing Still, un rock-country-blues con un bravissimo Leisz al dobro e Ringo che intona una melodia che piace all’istante; King Of The Kingdom (scritta con Van Dyke Parks) ha un tempo reggae, un motivo orecchiabile e solare ed un bell’intervento di Winter al sax, mentre Electricity, nonostante la presenza di Walsh e Tench ed un testo autobiografico, non è una gran canzone. Molto meglio So Wrong For So Long, una languida country ballad con la splendida steel di Leisz, unico residuo del progetto iniziale con Stewart (che infatti è co-autore), un peccato comunque che non si sia andati fino in fondo. La parte “nuova” del CD (dopo vedremo perché nuova) si chiude con la swingata Shake It Up, un boogie dal gran ritmo, una delle più immediate del lavoro, e con la squisita title track, la più pop del disco, ma con il sapore nostalgico dei brani dell’amico George Harrison. A questo punto il dischetto presenta quattro bonus tracks, quattro brani che Ringo ha preso dal suo passato reincidendoli ex novo (e va detto, senza mai superare gli originali), a partire da una versione molto particolare di Back Off Boogaloo, che parte dal demo originale del 1971 al quale sono stati aggiunti gli strumenti odierni, e c’è anche Jeff Lynne alla chitarra (e per una volta non alla produzione). Poi abbiamo la beatlesiana Don’t Pass Me By, suonata insieme alla band indie americana Vandaveer (ed accenno finale ad Octopus’s Garden), una tonica You Can’t Fight Lightning con il gruppo anglo-svedese Alberta Cross e, sempre con i Vandaveer, la sempre bellissima Photograph.

Un disco, ripeto, molto piacevole e senza troppe elucubrazioni mentali, forse non imperdibile, ma comunque se lo comprate non sono soldi buttati.

Marco Verdi

Novità Di Gennaio Parte III. Arbouretum, Aaron Neville, Alasdair Roberts, Bad Religion, Carrie Rodriguez, I Am Kloot, Steve Lukather, Chris Darrow, Black Sorrows, Arhoolie 50th Anniversary, Eccetera

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Terza settimana di uscite discografiche per il mese di gennaio, questi sono i titoli in uscita ufficiale (più o meno) il 22 gennaio. Magari alla fine vi aggiungo un paio di anticipazioni importanti di quelle del 29, mentre i titoli che non vedete, li trovate abitualmente con recensione ad hoc, oppure mi sono dimenticato. Le date sono quelle ufficiali, ma, ogni tanto, escono leggermente prima o dopo. Partiamo (casualmente) con tre autori che iniziano con A.

Gli Arbouretum, disco dopo disco, si sono creati un seguito a livello di culto, e ora con questo Coming Out Of The Fog, che esce per la Thrill Jockey, sembrano pronti al salto di qualità. Sono stati presentati come un incrocio tra Richard Thompson e Neil Young con i Crazy Horse, con qualche tocco di psichedelia come sovrappiù, e forse è eccessivo, quello che è indubbio è che sono bravi e questo album è uno dei mìgliori dell’inizio 2013.

L’omone nero dalla voce vellutata, ossia Aaron Neville, dopo avere girovagato per molte etichette, alla fine approda anche lui alla Blue Note, che da quando ha come presidente Don Was si è lanciata nel recupero dei grandi non solo del jazz, e quindi dopo Van Morrison ecco Neville. Ma non solo, il disco, My True Story, oltre che dallo stesso Was, è prodotto da Keith Richards, che naturalmente suona anche la chitarra, insieme a Benmont Tench alle tastiere, Greg Leisz, pure lui alle chitarre, Tony Scherr al basso (Bill Frisell, Norah Jones) e George Receli (Bob Dylan), alla batteria. Il repertorio è quello classico, che Aaron Neville rivisita con la sua voce unica: Be My Baby delle Ronettes, Gypsy Woman di Curtis Mayfield con gli Impressions, ma anche materiale antecedente dell’epoca doo-wop e R&B, un trittico dei Drifters, Money Honey, Under The Boardwalk, This Magic Moment, Tears On My Pillow di Little Anthony & The Imperials, Work With Me Annie di Hank Ballard e altre delizie d’epoca. 

Alasdair Roberts potrebbe essere un nome che ai più non dice nulla, ma è anche lui uno dei nomi più importanti del folk inglese, e scorrendo le note di molti dischi del genere è facile incontrarlo. Prima con gli Appendix Out e poi come solista ha già pubblicato una decina di album (anche collaborazioni con Will Oldham e Jason Molina dei Songs:Ohia e Magnolia Electric Co.). Ma essendo scozzese anche con Karine Polwart, Jackie Oates, John McCusker, Dougie MacLean. Questo nuovo album che esce per la Drag City, A Wonder Working Stone è attribuito a Alasdair Roberts & Friends, anche se non ci sono nomi famosi è il “gruppo” che si chiama così: il musicista più famoso è il chitarrista Ben Reynolds dei Trembling Bells, che svolge il compito che fu di Richard Thompson nei Fairport Convention. Anzi, già che ci siete, se già non li conoscete, appuntatevi anche i Trembling Bells, se vi piacciono Fairport, Pentangle e Incredible String Band. Due segnalazioni al prezzo di una (cioè zero!).  Non ci sono video nuovi per cui ho messo quello che vedete sopra (o meglio ce ne erano due parlati, umorismo scozzese, se volete watch?v=v53IbsFRM6M

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Due gruppi e una solista sopraffina (almeno per me)

I Bad Religion hanno superato i 30 anni di carriera e nelle varie fasi hanno registrato una ventina di album. Questo True North esce come di consueto per la Epitaph (visto che l’hanno fondata loro) e non si discosta dal consueto punk/hardcore melodico, con qualche deriva vagamente hard/metal. Se vi piace il genere non vi deluderanno e se no amici come prima.

Nuovo disco anche per gli I Am Kloot, il terzetto inglese di Manchester pubblica il nuovo album, il sesto di studio più una BBC Session, si chiama Let It All In, viene pubblicato dalla Sheperd Moon e le critiche preventive della stampa inglese sono piuttosto buone, con qualche voce fuori dal coro soprattutto da parte di alcuni quotidiani (Guardian, Indipendent e Financial Times). Sentiremo. Genere? Boh: Alternative, Indie? Il disco è prodotto da due degli Elbow, Guy Garvey e Craig Potter.

Ho sempre avuto una speciale predilezione per Carrie Rodriguez sin dai tempi dei suoi dischi in coppia con Chip Taylor e poi mi sono piaciuti anche quelli come solista (2833294701c51bca19320a9fa8169be6.html, nonostante la scritta criptica al link trovate la recensione dell’ultimo disco di covers), di questo nuovo Give Me All You Got si dice un gran bene, pare che sia il suo migliore in assoluto, anche se al sottoscritto anche She Ain’t Me, quello prodotto da Malcolm Burn, piaceva parecchio. La cantante e volinista è proprio brava, ha una bella voce, scrive ottime canzoni (alcune anche con Chip Taylor, che appare nell’album come cantante), l’etichetta è la Ninth Street Opus, il produttore è Lee Townsend (Bill Frisell, Loudon Wainwright III, Kelly Joe Phelps), tra i musicisti Don Heffington alla batteria è il più noto. Tutti particolari non inutili, perché i dettagli danno un’idea dell’insieme. kLtAzzlwiuw Recentemente (a fine 2011) la Rodriguez aveva pubblicato anche un album in coppia con Ben Kyle We Still Love Our Country, molto bello.

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Una “strana” trilogia di uscite.

Ogni tanto Steve Lukather pubblica un album da solista (questo è il settimo), Transition che esce come al solito per la Mascot/Provogue fa parte di quelli da “cantautore” rock e non da virtuoso della chitarra, anche se ovviamente nel disco comunque si schitarra. Mah, non so, lascio a voi il giudizio, dovevo fare la recensione in anteprima ma poi ho optato per Robben Ford e forse è stato meglio.

Viene ripubblicato dalla Drag City il terzo album da solista di Chris Darrow (pensate che il leggendario ex leader dei Kaleidoscope non ha neppure una pagina come solista su Wikipedia, mentre spesso ce l’hanno anche “cani e porci”, inteso proprio in senso letterale, gli animali hanno le loro belle paginette), il disco si chiama Artist Proof ed uscì in origine nel 1978. Anche se non è il suo migliore in assoluto per gli amanti di country-rock, folk-rock e psychedelia gentile qualche spunto di interesse potrebbe esserci.

Sempre per amanti della buona musica, in questo caso australiana, esce il nuovo disco dei Black Sorrows, la grande band di Joe Camilleri che fonde con stile e classe Van Morrison, Graham Parker e Willy Deville (e non sto scherzando). Il nuovo disco, il primo dopo alcuni anni di pausa, si chiama Crooked Little Thoughts ed è addirittura un triplo, e questa è la buona notizia. Sono tutte nuove canzoni, 24 in tutto, raccolte in un Deluxe Edition con tanto di libro per la Head Records, però costa sui 65 dollari australiani e questa è la brutta notizia. Comunque abbiamo provato a richiederlo in Australia e qualcuno sul Blog (non appena arriva) provvederà a recensirlo (penso chi scrive, ma non è detto). Se volete approfondire nel Blog trovate questo: joe+camilleri

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Altra uscita interessante (e costosa) è questo box quadruplo che celebra i 50 anni di attività della Arhoolie Records, si chiama They All Played For Us e gioca sul doppio significato del titolo: “hanno suonato tutti per noi” in questo caso significa che in una serie di concerti tenutisi a Berkeley in California il 4-5-6 febbraio del 2011, tutti costoro hanno suonato per celebrare questa grande etichetta. Chi c’era?  Ry Cooder, Taj Mahal, Santiago Jimenez Jr., Laurie Lewis, Peter Rowan, Treme Brass Band, Maria Muldaur, Campbell Brothers, Savoy-Doucet Cajun Band, Country Joe McDonald, Barbara Dane and Bob Mielke’s Jazz Allstars e molti altri, tutto rigorosamente dal vivo e quindi inedito.

E con questo concludiamo il “giro” per questa settimana. La settimana prossima “ufficialmente” ma per i misteri della discografia potrebbero circolare prima e quindi ve li anticipo, solo come copertine, poi ne parliamo la prossima volta.

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That’s All.

Bruno Conti

P.s

Esce anche questo domani!

Massimo Bubola – In Alto I Cuori – Eccher Music/Self

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“Dischi Virtuali”! Tommy Bolin & Friends – Great Gypsy Soul

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Tommy Bolin And Friends – Great Gypsy Soul – Samson Records

La moda del duetto virtuale o del “disco virtuale” si può far risalire alla famosa Unforgettable del 1991, il brano in cui la voce di Nat King Cole fu inserita in modo elettronico su una base con voce già registrata dalla figlia Natalie. Poi nel 1995 fu perfezionata per il brano dei Beatles Free As A Bird dove un demo voce e piano di John Lennon venne completato dai “Threetles” per il primo volume della serie Anthology e nel corso degli anni è diventata una sorta di abitudine, da Celine Dion con Sinatra fino ad arrivare a Kenny G che duetta con Armstrong in What A Wonderful World (ho ancora i brividi, ma non di piacere!). In questa ultima decade la pratica è andata scemando ma non dimentichiamo che questo sistema di registrazione è quasi una prassi tra musicisti viventi: lo scambio di nastri e registrazioni nell’era del digitale, quando persone che spesso vivono in diverse città, stati o anche continenti, e per vari motivi non si possono incontrare, è uno dei metodi quasi più comuni utilizzati per gli album di duetti o i Tributi.

In questo caso, essendo Tommy Bolin scomparso nel lontano 1976, è ovvio che questo poteva essere l’unico sistema di registrazione. A dare una patina di autorevolezza al progetto ha provveduto la presenza di Warren Haynes che insieme a Greg Hampton ha curato la produzione di questo Great Gypsy Soul per la Samson Records e ha anche scritto le note del libretto. In effetti anche se si dice che sono brani “incompiuti” sembra perlopiù trattarsi di outtakes, versioni diverse di pezzi già apparsi originariamente in Teaser (tutti meno uno), che la stessa etichetta aveva pubblicato lo scorso anno in edizione Deluxe e, volendo, di Bolin, nel corso degli anni, sono uscite varie raccolte di inediti e rarità a partire dal cofanetto doppio The Ultimate negli anni ’90 poi ampliato a triplo nel 2008 con l’aggiunta della parola Redux e, sempre lo stesso anno, i due volumi di outtakes Whips And Roses. Come saprete la carriera del musicista americano non è stata particolarmente lunga né gloriosa, quando è morto aveva 25 anni, e aveva suonato con gli Zephyr, poi nella James Gang al posto di Joe Walsh e al momento della morte suonava con i Deep Purple e in contemporanea a Come Taste The Band era uscito Teaser. Ma la sua fama, soprattutto tra gli appassionati di chitarra, è legata alla partecipazione a Spectrum di Billy Cobham, dove i furiosi duetti con la batteria del titolare del disco (e con il synth di Jan Hammer) avevano contribuito alla riuscita di quel disco, che ancora oggi è uno dei migliori esempi del cosiddetto jazz-rock.

Anche Teaser era una sorta di Spectrum più blando, con l’aggiunta della voce, tra funky, hard rock, blues, jazz con la partecipazione di musicisti come Jan Hammer, David Foster, Jeff Porcaro, David Sanborn, Narada Michael Walden, Glenn Hughes e molti altri. Questo Great Gypsy Soul, brano dopo brano, alla voce e alla chitarra di Bolin, aggiunge una lista di “ospiti” impressionante: da Peter Frampton nel funky-rock dell’iniziale The Grind cantata dallo stesso Tommy, che detto per inciso non aveva un gran voce ma compensava in abbondanza con la perizia alla chitarra. In Teaser lo sentiamo duettare con l’ottimo Warren Haynes e in Dreamer, uno dei brani più belli del disco, una ballata dove la voce è quella di Myles Kennedy degli Alter Bridge, l’altra chitarra è di Nels Cline dei Wilco, uno “strano” terzetto ma funziona. Per Savannah Woman, tra jazz e latino, vagamente Santaneggiante, il duetto virtuale è con John Scofield mentre per Smooth Fandango uno dei brani migliori che ricorda i ritmi frenetici di Spectrum si aggiunge l’ottimo Derek Trucks. Nella reggata e francamente irritante People People ci sono Gordie Johnson con i canadesi Big Sugar, meglio il rock di Wild Dog anche se c’è l’Aerosmith “sbagliato” Brad Whitford.

Homeward Strut è un funkaccio strumentale molto anni ‘70 con Steve Lukather e le chitarre viaggiano. Sugar Shack con Glenn Hughes e la slide di Sonny Landreth non so da dove arriva (non era su Teaser) ma è un solido blues-rock, Crazed Fandango è l’occasione per pirotecnici scambi strumentali con Steve Morse e il sax di Sanborn. La conclusione è affidata alla lunga e scintillante Lotus con Glenn Hughes che si porta l’amico Joe Bonamassa per duettare con Nels Cline. Ovviamente si tratta di un disco per fans e completisti di Bolin e/o della chitarra nelle sue varie forme, non male e credibile nel risultato finale. Solo per il mercato americano, in esclusiva su Amazon.com ne è uscita una versione doppia Deluxe con quattro lunghe jam dove i vari partecipanti si “accoppiano” strumentalmente tra loro!

Bruno Conti