Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte II

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Seconda parte.

Gli Anni Della Consacrazione 1971-1973

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Proprio il 28 e 29 maggio del 1971 vengono tenuti al Fillmore East di New York, quattro concerti leggendari  (due al pomeriggio e due alla sera, allora usava così), più o meno con delle scalette simili, come testimoniato dal cofanetto quadruplo in CD Performance Rockin’ The Fillmore, The Complete Recordings, uscito nel 2017, ma che all’epoca, nel classico formato del doppio album, fu pubblicato a novembre, e che arrivò al 21° posto delle classifiche di Billboard, vendendo più di mezzo milione di copie.

Si tratta di uno dei doppi Live forse meno conosciuti e celebrati di altri anche inferiori come qualità e contenuti, ma gli Humble Pie, ancora con Frampton in formazione, sono agli apici della loro potenza sonora, con un set incendiario che oltre alle riletture già citate di I’m Ready, Stone Cold Fever e Rollin’ Stone, comprende anche svariate altre cover: la breve Four Day Creep di Ida Cox,  che apre le procedure, con ugole spiegate e le chitarre a fronteggiarsi a tempo di boogie, con Ridley e Shirley che rispondono colpo sul colpo alla coppia Marriott/Frampton, dopo I’m Ready e Stone Cold Fever che rivaleggiavano come potenza di fuoco con i migliori Led Zeppelin, arriva una chilometrica, più di 23 minuti, versione di I Walk On Gilded Splinters di Dr. John, che dalle volute voodoo dell’originale si trasforma appunto in una devastante performance rock-blues, che tra lunghe pause, ripartenze improvvise, assoli di armonica e di chitarre strapazzate senza pietà, celebra il rito del rock-blues più focoso ed impulsivo che si poteva vedere all’epoca sui palcoscenici americani.

Dopo i 16 minuti di Rollin’ Stone, più soul che blues, arriva anche HallelujahI Love Her So, il brano classico di Ray Charles che la band piega con impeto ai propri voleri, pur mantenendo lo spirito dell’originale, per poi chiudere con un altro brano dal repertorio del “Genius”, una incandescente I Don’t Need No Doctor, piena della furia rock’n’rollistica di Steve Marriott, allora 24enne e non ancora provato dagli stravizi con alcol e droghe che da lì a poco gli faranno perdere il filo della storia.

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Ma nel 1972 tutto funziona ancora alla grande: Dave “Clem” Clempson, arrivato in precedenza dai Colosseum per sostituire Frampton nel tour europeo (approdato anche a luglio del 1971 al Vigorelli di Milano, pochi giorni dopo la mattanza dei Led Zeppelin, come spalla dei Grand Funk Railroad), si limita ad essere la seconda chitarra, mentre quasi tutte le composizioni di Smokin’ (****) sono di Steve Marriott, ed il disco, registrato a febbraio, esce a marzo ‘72, entrando per la prima volta al n° 6 negli States e al 20° posto in Inghilterra.

Diventando il loro disco di maggior successo ed enfatizzando quel tipo di sound su cui i Black Crowes hanno costruito, meritatamente, metà della loro carriera (l’altra metà con i Led Zeppelin, e qualche tocco di Faces): il disco è prodotto dallo stesso Steve che però comincia ad avere problemi di salute al termine delle registrazioni, dove spiccano il rock’n’soul con wah-wah di Hot’n’Nasty , il blues carico e selvaggio di The Fixer, la splendida ballata tra soul e gospel You’re So Good For Me con Doris Troy e Madeline Bell alle armonie vocali, con finale estatico https://www.youtube.com/watch?v=0L_AcS6zBSs .

C’mon Everybody di Eddie Cochran viene rallentata ad arte, ma è sempre di una potenza inaudita con Marriott che canta come un uomo posseduto dal R&R, Old Time Feelin’ è un blues acustico cantato da Ridley, con Alexis Korner al mandolino, mentre nella cover di Road Runner/Road Runner’s ‘G’ Jam, c’è Stills ospite alla chitarra, e non possiamo dimenticare 30 Days In The Hole, uno dei loro brani più famosi, a  tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=sdXjm8pZMws , di cui ricordo una versione gagliarda dei Gov’t Mule, per non parlare di un lungo slow blues formidabile come I Wonder, con assolo di wah-wah da sballo https://www.youtube.com/watch?v=KE1y1AUoQrs .

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Eat It (***1/2), un altro doppio album, esce nella primavera del 1973, registrato nello studio casalingo di Marriott, è ancora un successo nelle charts americane, dove arriva fino al 13° posto, un disco che impiega in pianta stabile le Blackberries,  un trio composto da Venetta Fields, Clydie King e Sherlie Matthews, e che accentua l’anima R&B e soul della band, senza tralasciare il rock: il disco alternava una facciata di pezzi di Marriott, una di cover, di nuovo pezzi originali e poi cover, tra i pezzi di Steve molto buone l’iniziale Get Down To It, la dichiarazione di intenti Good Booze & Bad Women, la melliflua Is It For Love, l’ondeggiante Drugstore Cowboy, la vibrante Black Coffee di Ike & Tina Turner https://www.youtube.com/watch?v=oqWNGNRX_4s , e le sofferte I Believe To My Soul di Ray Charles e That’s How Strong My Love is, famosa nella versione di Otis Redding, ma l’hanno incisa anche gli Stones, che Marriott omaggia poi con una Honky Tonky Women scintillante, tratta dalla quarta facciata del disco, registrata dal vivo a Glasgow, concerto che si conclude con una versione monstre di oltre 13 minuti di Road Runner dove le chitarre di Clempson e Marriott ruggiscono con forza.

L’inizio della fine 1974-1975

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Nel  febbraio del 1974 esce Thunderbox (***), ancora un buon album che ha un discreto successo negli USA, ma in Inghilterra non viene neppure pubblicato: sette cover e cinque originali, ancora con la presenza delle Blackberries (dove è rimasta solo la Fields) e Mel Collins ospite al sax, la title track potrebbe passare con il suo riff e per il cantato di Marriott, per un brano degli AC/DC se decidessero di darsi al R&B, buone le cover di I Can’t Stand The Rain di Ann Peebles e della delicata Anna Go To Him di Arthur Alexander, che avevano fatto anche i Beatles, la voce di Steve è sempre eccellente ma il suono non è più quello potente dei dischi precedenti, fin troppo annerito e funky, comunque Ninety-Nine Pounds, Every Single Day e la cover bluesy con uso slide e armonica di No Money Down di Chuck Berry non dispiacciono.

Con la stonesiana Oh La-De-Da che ha lampi del vecchio splendore. In quel periodo Steve Marriott si candida ad entrare appunto negli Stones in sostituzione di Mick Taylor, ma ovviamente, per i problemi di compatibilità con un altro cantante non male, tale Mick Jagger, non se ne fa nulla. Anche il disco solista di Marriott registrato nei ritagli di tempo, tra un disco degli Humble Pie e l’altro, viene “confiscato” dalla A&M e i nastri appaiono ai giorni nostri nell’orrido album della Cleopatra intitolato Joint Effort, di cui leggete in altra parte del blog https://discoclub.myblog.it/2019/03/11/dischi-cosi-brutti-negli-anni-70-non-li-avrebbero-mai-pubblicati-ma-oggi-purtroppo-si-humble-pie-joint-effort/ . Nel frattempo Steve, che comincia a da avere grossi problemi con alcol e droga, di ritorno da un ennesimo tour negli Stati Uniti, scopre che non ci sono più soldi sul conto in banca, e quindi su sollecitazione del manager Dee Anthony decide di registrare un altro disco per la A&M, con la produzione e soprattutto il mixaggio del rientrante Andrew Loog Oldham.

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Il risultato finale del disco pubblicato non piace a nessuno all’interno della band e in effetti Street Rats (*1/2) che esce nel febbraio del 1975 è piuttosto bruttarello: forse, e dico forse, si salvano le tre cover “soulizzate” di brani dei Beatles, We Can Work It Out, Rain e Drive My Car, anche se quest’ultima drammatizzata e cantata da Ridley è alquanto penosa, Greg canta anche con risultati disastrosi Rock And Roll Music di Chuck Berry e altri tre brani. Dopo il tour di addio la band si scioglie, anche se si parla brevemente di proseguire con Bobby Tench, il vecchio cantante del Jeff Beck Group Mark II, ma non se ne fa nulla.

La Reunion Di Inizio Anni ’80.

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Però alla fine del 1979, proprio con Tench come secondo vocalist e chitarrista, e il nuovo bassista Anthony “Sooty” Jones, decidono di provarci ancora e registrano non uno ma ben due album, che in America escono per la Atco, mentre in Inghilterra, per la serie le sfighe non finiscono mai, vengono pubblicati dalla Jet Records di proprietà del primo manager degli Small Faces,  quel Don Arden (babbo di Sharon, la moglie di Ozzy Osbourne): On To Victory (**) esce nel 1980 e non è neppure orribile come Street Rats,  ma solo un filo migliore; la voce di Marriott è ancora il suo principale atout,però il sound per lunghi tratti è confuso e pasticciato, salverei forse Baby Don’t You Do It, un vecchio brano Motown, che faceva anche la Band e la struggente cover di My Lover’s Prayer dell’amato Otis Redding, ma gli anni ’80 sono iniziati e dal sound si sente, anche se il disco almeno vende.

Go For The Throat (**) , il loro decimo e ultimo album, che viene pubblicato a giugno 1981, non è molto meglio: c’è giusto un po’ di energia superiore nell’iniziale All Shook Up, dove quantomeno le chitarre si fanno sentire, e si salva anche la ripresa della vecchia Tin Soldier degli Small Faces che entra in classifica, e negli altri brani, anche se non c’è di nulla di memorabile almeno sembra che ci sia una maggiore convinzione e grinta, con le chitarre che a tratti ringhiano come ai vecchi tempi. Ma durante la tournée promozionale Marriott si ammala, scopre di avere l’ulcera e quindi le date rinviate, vengono poi cancellate e la casa discografica li scarica.

Una fine ingloriosa. Dopo alcuni anni difficili in cui si ritira nel circuito dei clubs e dei pubs, Marriott agli inizi degli anni ’90 contatta Frampton per scrivere alcune canzoni nuove ed un tentativo di reunion degli Humble Pie, ma il 20 aprile del 1991, Steve Marriott muore orribilmente nell’incendio che distrugge il suo cottage, causato forse da una sigaretta dimenticata accesa prima di andare a dormire. Stendiamo un velo pietoso sul tentativo di reunion del 2002 con l’album Back On Track, dove Ridley e Shirley, ancora una volta con Bobby Tench, tentano di far rivivere il vecchio marchio.

Meglio andarsi a cercare alcuni degli album dal vivo postumi pubblicati nel corso degli anni: Natural Born Boogie del 2000 con le vecchie BBC Sessions, il Live At The Whisky A Go-Go ’69 con un concerto strepitoso, solo 5 brani ma epici, uscito su CD nel 2000 per la Sanctuary, magari anche In Concert con il King Biscuit Flower registrato al Winterland di San Francisco nel 1973. E per i completisti più scatenati i due box della serie Official Bootleg, il primo da 3 CD e il secondo da 5 CD, la qualità sonora non è sempre eccellente, ma ci sono alcune performances memorabili.

That’s All.

Bruno Conti

Humble Pie: La Quintessenza Del Rock Agli Inizi E Poi Un Lungo Lento Declino. Parte I

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Quando nel gennaio del 1969 Steve Marriott, avendo appena terminato la sua avventura con gli Small Faces, decide di dare l’avvio ad una nuova band, ovvero gli Humble Pie, il musicista londinese ha da poco compiuto 22 anni, ma è tutti gli effetti un veterano sia del pop che del nascente rock britannico. Con gli Small Faces ha avuto un successo clamoroso, sia a livello di singoli che di album, ma in quattro anni di carriera intensa, a causa di uno sciagurato contratto firmato ad inizio carriera con Don Arden, e nonostante fosse anche un icona dello stile Mod e, si mi passate il bisticcio, della moda di Carnaby Street, Marriott si rende conto che il suo conto in banca non è particolarmente florido. E nonostante il passaggio con la Immediate di Andrew Loog Oldham le cose non erano migliorate di molto, quindi dopo l’uscita dello storico album Ogdens’ Nut Gone Flake, che rimane al primo posto della classifica inglese per sei settimane nell’estate del 1968 https://discoclub.myblog.it/2018/12/31/correva-lanno-1968-6-la-ristampa-speriamo-definitiva-di-un-piccolo-capolavoro-small-faces-ogdens-nut-gone-flake-50th-anniversary/ , e riceve anche giustamente critiche entusiaste per il suo stile psichedelico a cavallo tra rock e pop, il nostro amico decide che è tempo di voltare pagina, insoddisfatto della sua immagine troppo legata al pop imperante (per quanto di sopraffina fattura, aggiungo io, ma questa è un’altra storia), proprio durante il concerto di Fine Anno abbandona il palco per iniziare una nuova avventura.

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Gli Immediate Years.
Solo che commette un errore madornale: rimane con l’etichetta di Loog Oldham, ex manager degli Stones, e firma quindi un nuovo contratto con la Immediate Records, che però all’insaputa di Steve versa in cattive acque, visto che già in precedenza non aveva pagato molte delle royalties dovute agli Small Faces per le loro vendite, ma evidentemente questo lo si saprà solo sul finire del 1970, quando l’etichetta andrà in bancarotta. All’inizio dell’anno 1969 nasce però questa sorta di supergruppo (uno dei primi) formato oltre che da Marriott, da Peter Frampton, che non ha ancora compiuto 19 anni, ma è reduce dal successo di una band come gli Herd, con tre Top 20 nelle classifiche, benché molto legata, almeno nella visione di Peter, al pop adolescenziale (per quanto non fossero poi così male, ma anche i Beatles e gli Stones agli inizi non erano completamente soddisfatti della loro immagine).

Insieme a loro il bassista Greg Ridley, che arriva dagli Spooky Tooth, e il giovanissimo batterista Jerry Shirley, che di anni non ne aveva ancora compiuti 17. I quattro entrano negli Olympic Studios di Londra sotto la guida del produttore Andy Johns, fratello del leggendario Glyn, e a sua volta uno dei talenti emergenti in quel campo: per l’occasione iniziano a registrare vario materiale che poi verrà pubblicato nei due album e nel singolo di esordio Natural Born Bugie, che però arriva nei negozi solo ad agosto, preceduto dalle uscite di altre band affiliate a quel nuovo heavy-blues-rock che sta prendendo piede in Inghilterra (ma anche e soprattutto negli Stati Uniti), come quello di Free e Led Zeppelin, questi ultimi guidati dalla voce di Robert Plant, da sempre grande fan di Steve Marriott, fin dai tempi degli Small Faces, di cui gli Zeppelin avevano “utilizzato” il brano You Need Loving (a sua volta una “riscrittura” di un pezzo di Willie Dixon per Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=tp0jZ4BGuDw ) in cui Plant, che lo ammise all’epoca, utilizzava un fraseggio vocale molto simile a quello di Marriott, che però non se la prese più di tanto.

Il singolo arrivò al 4° posto delle classifiche inglesi, ma il successo americano, come era stato per gli Small Faces, rimase una chimera. Comunque il singolo era già un ottimo esempio del rock sanguigno a doppia chitarra solista della band, cantato a turno dai due chitarristi e dal bassista, anche se firmato dal solo Marriott, ha qualche parentela sia con Get Back dei Beatles, per l’uso del piano elettrico, che con il nascente rock-blues, grazie alla voce negroide e potente di Steve. Il primo album As Safe As Yesterday Is (****) esce sempre ad agosto, ma arriva solo al 32° posto delle classifiche UK e ha zero successo negli States: dove però in una ottima recensione su Rolling Stone del 1970, firmata dal futuro punk negli Angry Samoans Mike Saunders, viene usato per una delle prime volte il termine heavy metal. Anche se l’album non è tra i più “duri” degli Humble Pie, che però in molti brani iniziano a “riffare” a destra e a manca, con grande forza e classe, mentre in altri indulgono in un folk-rock pastorale, post mod sound modificato e spunti dei sempre amati da Marriott, blues e soul: il disco, a mio modesto parere, è uno dei loro migliori in assoluto, la title track è un pezzo epico, di grande intensità, e anche Bang ha una forza devastante con le chitarre che mulinano, mentre Ridley pompa il basso alla grande e Shirley picchia come un disperato sui tamburi.

I’ll Go Alone ha un riff devastante simile a quello di Communication Breakdown degli Zeppelin, chi ci sarà arrivato prima https://www.youtube.com/watch?v=9_fBvAbf5d8 ? Mentre Alabama ’69 ha una prima parte folk-blues in linea con il titolo, poi con sitar e flauto aggiunti siamo in pieno trip tra orientale e pastorale; e all’inizio del disco c’è una cover fantastica di Desperation degli Steppenwolf (non a caso i primissimi a usare il termine heavy metal in Born To Be Wild https://www.youtube.com/watch?v=egMWlD3fLJ8 ) , cantata a piena ugola da Marriott, senza dimenticare lo psych-rock di Stick Shift con Marriott alla slide, la trascinante Butter Milk Boy, sempre con le twin guitars assatanate, insomma si fatica a trovare un brano debole, con Peter Frampton che anche a livello vocale risponde colpo su colpo. A differenza del precedente disco, Town And Country (***1/2), esce a sorpresa a  novembre sempre del ’69, sulle more dei grossi problemi della casa discografica, che lo pubblica sperando di bloccare la procedura di bancarotta.

Ma il disco, senza promozione, praticamente sparisce subito dai negozi: peccato perché l’album, concepito nel cottage di Arkesden, una dimora del 16° secolo, l’unica proprietà rimasta a Steve Marriott (credo la stessa dove troverà poi la morte nell’incendio appunto della sua casa nell’aprile del 1991), era diverso dal precedente, a tratti più morbido, ma non privo delle sferzate hard-rock tipiche della band, per parte della critica fu addirittura superiore al primo, che comunque il sottoscritto preferisce. Tra i brani da ricordare la raffinata ballata acustica Take Me Back di Peter Frampton, la bluesata The Sad Bag Of Shaky Jake, un brano di Marriott che i Black Crowes avranno sicuramente apprezzato, il blue eyed soul di Cold Lady, il rock-blues della gagliarda Down Home Again, l’intimista Every Mothers’ Son ancora di Steve, la potente cover di Heartbeat di Buddy Holly, la quasi psichedelica Silver Tongue e la quasi west-coastiana Home And Away https://www.youtube.com/watch?v=LG8VhDzP_LE .

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Gli Anni ” Americani”,  prima parte

Nel 1970 arriva un nuovo manager Dee Anthony, e una nuova etichetta americana, la A&M: il primo disco l’omonimo Humble Pie (***1/2), sempre prodotto da Glyn Johns e sempre registrato agli Olympic Studios di Londra, contiene anche una deliziosa ballata country-folk come la satirica e autoironica Theme from Skint (See You Later Liquidato)r di Steve Marriott, ovvero “Tema di Sono Al Verde (Ci Vediamo più Tardi Liquidatore! https://www.youtube.com/watch?v=cNK2Wc284E0 ), ed è un disco interlocutorio, ma comunque di buona fattura, che contiene un brano notevole come la loro cover di I’m Ready, dell’accoppiata degli amati Dixon/Waters, che sarà un cavallo di battaglia dei loro infuocati concerti negli USA.

Ottime anche l’iniziale Live With Me, una lunga rock ballad dalle atmosfere sospese, la delicata Only A Roach, una ode alla cannabis a tempo di country, con BJ Cole alla pedal steel, la dura e tirata One Eyed Trouser Snake Rumba, tipica del loro sound, mentre il lato più gentile e sognante è rappresentato dalla eterea Earth and Water Song, scritta da Peter Frampton, che lavora anche di fino alla sua elettrica, mentre il boogie-blues potente di  Red Light Mama, Red Hot!, ancora di Marriott, illustra il lato più sanguigno della band e l’ottima Sucking on the Sweet Vine di Greg Ridley, che la canta, sembra quasi un brano dei Genesis o dei King Crimson.

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L’anno successivo, a marzo del 1971, sempre registrato a Londra con Glyn Johns, esce Rock On (****), il primo disco a fare capolino nelle classifiche americane, solo al 118° posto, ma è un inizio, poi alimentato da una serie di concerti fantastici sul suolo americano che ne alimentano la leggenda di rockers intemerati: il disco contiene Shine On di Frampton, che poi farà parte del suo repertorio futuro (anche in Frampton Comes Alive), con tre formidabili vocalist aggiunte come P P Arnold, Doris Troy, Claudia Lennear, ma soprattutto i futuri cavalli di battaglia dal vivo, la devastante Stone Cold Fever, con un riff memorabile, e la epica Rollin’ Stone di Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=ys-AXAry3Yk , con l’aggiunta delle robuste Sour Grain e Strange Days, della delicata A Song For Jenny, dedicata alla prima moglie di Marriott (inseguita a lungo), del funky-rock di The Light, ancora di Frampton, che sembra quasi un brano dei Little Feat, completano un album tra i loro migliori in assoluto.

Fine della prima parte, segue…

Bruno Conti

Dischi Così Brutti Negli Anni ’70 Non Li Avrebbero Mai Pubblicati, Ma Oggi Purtroppo Si. Humble Pie – Joint Effort

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Humble Pie – Joint Effort – Deadline Music/Cleopatra Records

Un nuovo album degli Humble Pie! Beh adesso non esageriamo: anche perché gli album “nuovi” che sono usciti postumi con il nome della band in copertina, dopo la tragica morte di Steve Marriott avvenuta  nell’aprile del 1991, diciamo che non sono stati propriamente memorabili,  penso a Back On Track, in teoria il loro 13° album di studio. Meglio le varie pubblicazioni di materiale d’archivio dal vivo, anche se non sempre di qualità sonora impeccabile, e soprattutto alcune ristampe, tra cui lo splendido box quadruplo con i concerti da cui fu estratto lo strepitoso Performance: Rockin’ The Fillmore, con le esibizioni complete del 1971. Ora arriva questo Joint Effort, pubblicato dalla Cleopatra (uhm!), che riporta nel retro della copertina “Recorded 1974-1975 At Clear Sound Studios”, quindi materiale d’epoca.

Però, tanto per partire subito bene, nella foto di copertina del CD c’è una immagine della band, dove il primo in basso a sinistra è Peter Frampton, che però non faceva più parte del gruppo del 1971, sostituito da Dave “Clem” Clempson,  che comunque, ammesso che ci sia, si sente pochissimo, rimangono Steve Marriott, chitarra e voce, Greg Ridley al basso (scomparso nel 2003), e Jerry Shirley che è stato scelto dall’autore delle note per integrarle con i suoi ricordi di quegli anni. E Shirley ricorda appunto che in quel periodo Marriott non era più molto coinvolto nel progetto Humble Pie, il suo principale desiderio all’epoca, all’insaputa degli altri, era quello di entrare negli Stones in sostituzione di Mick Taylor (vicenda che poi è andata come sappiamo) e quindi partecipava svogliatamente alle registrazioni di nuovo materiale che avrebbe dovuto andare su un disco poi uscito nel 1975 con il titolo di Street Rats, l’ultimo pubblicato dalla A&M che aveva richiamato il loro vecchio manager Andrew Loog Oldham per sovraintendere alle registrazioni che si tennero agli Olympic Studio di Londra e non nei Clear Sound Studios che erano di proprietà di Marriott.

Nel frattempo Steve aveva raggiunto un accordo con Oldham per registrare più o meno in contemporanea, appunto nei propri studios, un disco solista in compagnia di Greg Ridley, progetto che poi non si concretizzò mai, e alcune, se non tutte,  di quelle registrazioni sono quelle pubblicate oggi come Joint Effort,  appunto lo “sforzo comune” dei due. Dieci brani in totale, uno ripetuto in due diverse versioni, un paio di canzoni uscite anche su Street Rats, sia pure in versione diversa. Complessivamente un album molto raffazzonato, per usare un eufemismo: Think è proprio il brano di James Brown, presente anche con una versione n°2 in coda al CD, un pezzo super funky dove appaiono anche dei fiati non accreditati, la chitarra non parte mai e c’è un lungo assolo di sax, forse Mel Collins, mentre nella seconda parte appare un’armonica. This Old World è uno dei due brani firmati con Ridley, una discreta ballata di stampo soul melodico, con il suono che va e viene, Midnight Of My Life, meglio, rimane sempre in questo ambito gospel-soul, con coretti a oltranza, piano e zero chitarre.

Let Me Be Your Lovemaket, una cover del pezzo di Betty Wright, è cantata da qualcun altro, non so da chi (o meglio, dovrebbe essere Ridley, ma non è accreditato nelle note), ed è un altro modesto funky-rock. Interessante la versione “funkyzzata” di Rain dei Beatles, abbastanza simile però a quella già uscita su Street Rats, sempre con una seconda voce a duettare con Steve e un passabile lavoro della slide, quasi sommersa comunque dalla presenza invadente delle coriste. Snakes And Ladders è uno dei pezzi più rock, ma la qualità sonora non è memorabile e c’è sempre questa “misteriosa” seconda voce ossessiva che sommerge quella di Marriott e pure nella breve Good Thing non mi pare ci siamo proprio https://www.youtube.com/watch?v=rCuFmin7aIU . A Minute Of Your Time scritta e cantata da Ridley non risolleva più di tanto le sorti del disco, in Charlene, altro bozzetto funky, almeno si apprezza la voce unica di Marriott, ma è un po’ poco. Mi sembra la Cleopatra abbia colpito ancora una volta, quindi un CD solo per fans incalliti degli Humble Pie, probabilmente neppure per loro. Sono stato troppo cattivo forse? Ma gli Humble Pie erano un’altra cosa,

Bruno Conti

Correva L’Anno 1968 6. La Ristampa (Speriamo) Definitiva Di Un Piccolo Capolavoro. Small Faces – Ogdens’ Nut Gone Flake 50th Anniversary

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Small Faces – Ogdens’ Nut Gone Flake 50th Anniversary – Sanctuary/Bmg 3CD/DVD – 3LP Box Set

Gli Small Faces sono sempre stati considerati un gruppo “di nicchia” o per intenditori, e quando si citano i gruppi inglesi fondamentali degli anni sessanta raramente viene fatto il loro nome, ma nella loro breve vita (quattro album) hanno prodotto sicuramente parecchia grande musica, sia per quanto riguarda gli esordi beat-pop-errebi bianco con la Decca, sia con i due album per la Immediate, più vicini al rock con derive psichedeliche in voga nella seconda metà della decade. E poi, solo per il fatto che dalle loro ceneri siano nate altre due grandi band (il leader Steve Marriott formerà infatti gli Humble Pie insieme al futuro million seller Peter Frampton, mentre gli altri tre, Ronnie Lane, Ian McLagan e Kenney Jones, si uniranno con Rod Stewart e Ronnie Wood, perderanno lo “Small” nel moniker e daranno vita ad una delle band rock più influenti dei seventies, chiedere per informazioni ai Black Crowes), è giusto trattarli con il dovuto rispetto. Il quartetto ha avuto in anni recenti una sorta di ritorno di attenzione da parte del mondo discografico, con ben due box (The Decca Years, riferito al primo periodo, ed il bellissimo Here Come The Nice, che prendeva in esame il triennio con la Immediate), ed oggi mi trovo ad esaminare un altro cofanetto dedicato al gruppo, cioè l’edizione super deluxe di Ogdens’ Nut Gone Flake, il loro ultimo album (a parte la doppia reunion senza Lane degli anni settanta), ed anche il più bello e famoso, merito anche della iconica copertina che parodiava una nota marca di tabacco.

Questo album, va detto, è uno dei dischi più ristampati degli ultimi anni, e se già possedete la riedizione del 2012 potete anche soprassedere, dato che il nuovo box non offre nulla di nuovo dal punto di vista della parte audio (anche le bonus tracks sono le stesse), mentre aggiunge un interessantissimo DVD (assente però nella versione in vinile). Se però, come il sottoscritto, possedete solo l’album originale ed attendevate la ristampa “definitiva” (che è quindi puntualmente arrivata), direi che l’acquisto di questo manufatto è quasi d’obbligo, considerata la splendida confezione a libro (nel quale sono riportate esaurienti note sui brani, la storia del disco e diverse foto rare) e la spettacolare rimasterizzazione approntata ex novo (ormai è tardi, ma le prime copie del cofanetto erano autografate dal batterista Kenney Jones, unico membro ancora in vita del gruppo pur non essendo più in attività da tempo). Copertina dell’album a parte, Ogdens’ Nut Gone Flake era e rimane un grande album, un fulgido esempio di rock dei tardi anni sessanta, con copiose iniezioni di psichedelia: una musica molto diversa da quella dei primi anni del quartetto, ma non certo meno incisiva, e che risulta bella e stimolante ancora oggi, a partire dallo strumentale che dà il titolo al disco, una canzone tra rock e psichedelia decisamente potente e creativa, quasi una sorta di jam in studio.

Il suono potente continua anche con la maestosa Afterglow, un grande pezzo rock dove tutto gira al massimo, dalla voce tonante di Marriott, all’impasto di chitarre ed organo, fino alla sezione ritmica formato macigno (Jones era un batterista formidabile), un brano degno degli Who. La scorrevole Long Ago’s And Worlds Apart, con organo a tappeto e voce sospesa, è scritta e cantata da McLagan, la saltellante Rene è una deliziosa pop song con una melodia corale quasi da musical, ed è contraddistinta da un limpido pianoforte e da una coda strumentale decisamente psichedelica, mentre Song Of A Baker, spettacolare rock song elettrica e vigorosa, è la prima di due canzoni con Lane alla voce solista, ed è caratterizzata da una grande chitarra (e la rimasterizzazione ha fatto miracoli). Lazy Sunday era il singolo portante dell’album, ed è un orecchiabile pezzo dal sapore pop, un’altra delizia, suonata sempre alla grande, Happiness Stan (che dava il via originariamente al lato B dell’LP, una sorta di concept che raccontava la storia un po’ magica del personaggio il cui nome dava il titolo al brano) è un’accattivante canzone che parte come un pezzo folk, poi si elettrifica e, dopo un intermezzo narrato, confluisce nella potente e grintosa Rollin’ Over. The Hungry Intruder è sognante e melodica, e sta giusto a metà tra folk e psichedelia, mentre The Journey (il secondo brano cantato da Lane) è un’altra complessa rock song, piena di idee.

L’album termina con la suggestiva Mad John, una rock ballad elettroacustica dall’ottimo pathos, e con la corale ed immediata HappyDaysToyTown, ancora puro pop smaccatamente “british”. Il box ci presenta sui primi due CD le versioni rispettivamente mono e stereo del disco originale (preferisco la seconda, ma io non faccio testo in quanto non sono mai stato un estimatore delle sonorità mono), mentre il terzo dischetto offre diciotto bonus tracks, nessuna delle quali inedita (e penso che qualcosina in più si poteva fare, non è stato inserito neppure il 45 giri dell’epoca che comprendeva The Universal e Donkey Rides, A Penny A Glass). A parte alcuni mix alternativi (molti dei quali per il mercato americano), single versions e backing tracks strumentali (interessante quella di Happiness Stan), le cose maggiormente degne di nota sono takes alternate della title track (due diverse), Rene, Mad John, una prima versione di Rollin’ Over intitolata Bun In The Oven, lo strumentale The Fly (che in realtà è la base di The Hungry Intruder), l’ottima cover di Every Little Bit Hurts di Brenda Holloway, usata all’epoca come B-side, e la backing track di (If You Think You’re) Groovy, che i nostri incisero con la cantante P.P. Arnold alla voce. Il DVD come dicevo è interessante in quanto propone uno show televisivo della BBC (Colour Me Pop) in cui Marriott e compagni proposero per l’unica volta i brani di Ogdens’ Nut Gone Flake dal vivo (solo sette pezzi, più il video promozionale di Lazy Sunday), dato che da lì a pochissimo le loro strade si sarebbero separate.

Gli Small Faces erano una grande band, ed Ogdens’ Nut Gone Flake il loro momento più alto: ristampa quindi indispensabile (oppure inutile, se possedete già quella del 2012).

Marco Verdi

Ne Escono Più Oggi Che Quando Era Ancora Vivo Steve Marriott! Humble Pie – 30 Days In The Hole Live…E Altro

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Humble Pie – 30 Days In The Hole Live – ZYX Music

Alcuni punti certi: Steve Marriott è stato uno dei più grandi cantanti (e chitarristi) del pop e rock britannico degli anni ’60 e ’70, prima negli Small Faces dal 1965 al 1969, poi con gli Humple Pie in due fasi, 1969/1975 e 1980/81. Fin qui ci siamo e la sua statura musicale non si discute: alti e bassi, certo, ma anche molti dischi strepitosi. Però Marriott è morto nell’aprile del 1991. E da allora, se mi passate il termine, è partito il “casino”: molti ristampe ufficiali, penso al cofanetto quadruplo espanso dello splendido live Performance: Rockin’ The Fillmore, e per gli amanti del vinile il box The A&M Vinyl Boxset 1970-1975, con tutti gli album incisi in quegli anni, da unire ai due dischi incisi per la Immediate nel 1969. Ma sono stati anche pubblicati, da tutte le etichette del mondo, decine di album postumi, in decine di versioni diverse, molti delle formazioni con Marriott, ma anche alcuni dove il povero Steve non c’entra per nulla.

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L’ultima della serie, sempre targata 2018, è proprio una versione doppia del disco del 2002 Back On Track, a cui è stato aggiunto un live a Cleveland del 1990, entrambi senza Marriott, con Jerry Shirley alla batteria, Greg Ridley al basso e Bobby Tench, il vecchio cantante del Jeff Beck Group in sostituzione di Steve. Comunque ce ne sono anche molti con la formazione originale dell’epoca: questo 30 Days In The Hole Live per esempio parrebbe una pubblicazione ufficiale della tedesca ZYX Music (infatti le note e le info ci sono tutte e sono precise, all’interno del CD però), che comprende nove pezzi dal vivo estratti da 3 concerti diversi, Live At The Academy Of Music, NY 1971, Live At Winterland 1973 e Live At Reseda Country Club Los Angeles 1981, più un pezzo in studio, tratto da On The Victory, il disco in studio del 1980. Qualità differente del sonoro, ma mediamente una ottima occasione per ascoltare versioni spesso entusiasmanti di The Fixer, Tulsa Time, Honky Tonk Women degli Stones, una Rollin’ Stone di 18 minuti, 30 Days In The Hole, I Don’t Need No Doctor, Four Days Creep, e altre non da meno. E infatti il disco sarebbe da 3 stellette e mezzo come giudizio critico: ma, ohibò, di si meriterebbe anche una stelletta solitaria, che non è quella del famoso salame, ma il verdetto inappellabile per tutti quelli che hanno speculato in questi anni sull’eredità musicale di Mr. Marriott e soci.

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Per completare questa recensione di pubblica utilità e globale, ricordo che in questo periodo è uscito anche il volume 2 della serie  Official Bootleg Box Set, cinque dischetti, di cui il primo e l’ultimo sono i concerti completi del 1971 e 1981 compresi in parte anche in 30 Days In The Hole, oltre a Boston 1972, Philadelphia 1975 e un altro New York del 1981, box che è il seguito dell’ottimo volume 1 della serie, uscito sempre per la Cherry Red lo scorso anno, in 3 CD, e che riportava materiale del 1972-1973-1974. All’origine tutto materiale pirata, da cui il titolo, ma spesso di eccellente qualità sonora, come pure le 3 canzoni del Winterland 1973 che poi sarebbero una parte del famoso King Biscuit Flower, uscito con vari titoli, mentre il concerto del 1971 a NY era uscito anche per la Cleopatra come Live In New York 1971. Vi sta venendo il mal di testa? Per ricapitolare e fare chiarezza, diciamo che se avete un po’ di soldi da spendere (perché non costano pochissimo) i  due cofanetti della serie Bootleg Box sarebbero l’ideale, ma se vi “accontentate” anche questo 30 Days In Hole è una ottima summa degli Humble Pie dal vivo, una vera macchina da guerra, per il resto, come illustrato, spero chiaramente, occhio ai doppioni e come diceva un loro titolo Rock On. Tanta buona musica, una voce strepitosa e qualche “fregatura”!

Bruno Conti

Una Figlia D’Arte Un Po’ “Tardiva”. Mollie Marriott – Truth Is A Wolf

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Mollie Marriott – Truth Is A Wolf – Amadeus Music      

Forse il cognome risveglierà qualche fremito a coloro più addentro nelle vicende del rock britannico: ebbene sì, questa “nuova” cantante è proprio la figlia del grande Steve Marriott, indimenticato leader degli Small Faces e degli Humble Pie, una delle voci più belle del rock inglese di sempre, tragicamente scomparso nel rogo della propria casa, a soli 44 anni, nel lontano 1991. Mollie Marriott è la terza figlia di Steve, e anche per lei la gavetta è stata lunga, faticosa e costellata di problemi legali (come era stato per il babbo), e quindi solo in questi giorni, a 32 anni compiuti, arriva il suo esordio discografico: nel frattempo ha calcato i palcoscenici del Regno Unito, come background vocalist per PP Arnold, gli Oasis, in un musical sugli Small Faces, in vari tributi, tra cui quello a Ronnie Lane e alla riunione dei Faces dello scorso anno, oltre al concerto per gli 80 anni di Bill Wyman. Tra quelli che lei chiama “zii” ci sono Peter Frampton, Ronnie Wood, Kenney Jones, che hanno più volte espresso il loro entusiasmo (forse non disinteressato) per la voce di Mollie, e anche Paul Weller ha voluto collaborare con lei, infatti è presente in due brani di questo Truth Is A Wolf, album che avuto una lunga gestazione, tanto che doveva essere pubblicato già nel 2015 con un’altra copertina.

Ma alla fine, tramite una piccola etichetta, la Amadeus Music, è uscito. E devo dire che non è per niente male, buon sangue non mente, Mollie Marriott ha una bella voce, qualche inflessione e movenza del padre (come ammette le i stessa), un timbro vocale che può ricordare Bonnie Raitt o Susan Tedeschi, leggermente rauco ma potente, uno stile che si rifà a cantanti come la Sheryl Crow del primo periodo o Stevie Nicks.. Ovviamente non manca il rock classico inglese, sia quello anni ’60 e ’70, che il più recente Britpop. Tra i suoi collaboratori, co-autrice in due brani, troviamo Judie Tzuke, cantautrice rock molto di successo in UK a cavallo degli anni ’80 (e che al sottoscritto piaceva parecchio), mentre l’unico brano non composto dalla Marriott, ovvero la title track Truth Is A Wolf, porta la firma di Gary Nicholson, autore di successi per Bonnie Raitt e Delbert McClinton,e decine di altri “clienti, che aveva portato questo brano a Nashville con l’idea di darlo appunto alla Raitt o alla Tedeschi, e invece è finito su questo disco. Ed è probabilmente il pezzo migliore dell’album (che comunque si difende con lode): un brano che gira attorno al suono di un piano elettrico e della chitarra di Paul Weller, una delle classiche canzoni che di solito si accostano al miglior repertorio proprio di Raitt e Tedeschi, con la voce autorevole della Marriott che ricorda moltissimo le illustri colleghe, potente e grintosa, con una leggera vena malinconica, uno spirito musicale tra rock e blues e un arrangiamento di gran classe, veramente una bella canzone.

Il singolo Control è un bel pezzo rock, con qualche retrogusto gospel e qualcuno ha riscontrato similitudini con una vecchia canzone degli Humble Pie Fool For A Pretty Face, comunque la band della Marriott e le voci di supporto ci danno dentro di gusto, in particolare il chitarrista Johnson Jay, anche Broken è un’altra bella canzone, incalzante, con un ritmo e un drive che ricordano la miglior Stevie Nicks, una classica rock song dal sapore americano che ruota attorno alla bella voce di Mollie e al sound avvolgente dell’arrangiamento. Give Me A Reason è una bella ballata pop con elementi soul, commerciale, ma il giusto, sempre con sontuosi inserti vocali e una bella chitarra tagliente; Run With The Hounds ha di nuovo un groove tipico dei migliori Fleetwood Mac, musica pop ma di quella raffinata e coinvolgente, mentre Love Your Bones, secondo la stessa Mollie è ispirata dal sound di Tori Amos, quella più pop e meno cerebrale. Transformer è una delle due canzoni scritte con Judie Tzuke, un brano più da cantautrice classica, sempre con la bella voce in evidenza, anche se forse un filo troppo pomposo e pompato; Fortunate Fate, con qualche elemento country rimanda al repertorio della prima Shery Crow, quindi non manca neppure l’impeto rock, King Of Hearts, l’altro pezzo firmato con la Tzuke, è pure il secondo dove appare Paul Weller, una sorta di simil slow blues con richiami sia al “Modfather” come al babbo, anche se l’arrangiamento è nuovamente troppo pompato, ed è forse il difetto che più mi sento di imputare al disco,  insomma la voce e il talento ci sono, ma a tratti il tipo di produzione “moderno” incontra poco i miei gusti. La chiusura è affidata a My Heaven Can Wait, una ballata mid-tempo emozionale di nuovo troppo orientata verso quel suono turgido che non sempre soddisfa. Promossa con qualche piccola riserva.

Bruno Conti

 

Meglio Tardi Che Mai, Preziosi Ritrovamenti! Sean Costello – In The Magic Shop

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Sean Costello – In The Magic Shop – Vizztone

Se questo In The Magic Shop fosse stato un nuovo disco, sarebbe stato tra i migliori dischi di Blues (e dintorni) dell’anno, e comunque nella ristretta cerchia dei top dell’anno nel genere, il CD ci rientra comunque. Sean Costello è ormai scomparso da circa sei anni, il 28 aprile del 2008, il giorno prima del suo 29° compleanno, per una overdose accidentale, dovuta probabilmente ai disturbi causati dai suoi disordini bipolari, e il CD della Vizztone è il terzo prodotto postumo che esce da allora. Da sempre considerato uno dei chitarristi prodigio usciti negli anni ’90 (il primo album Call The Cops, fu pubblicato nel 1996, quando Costello aveva 16 anni), rispetto ai vari Lang, Shepherd, lo stesso Bonamassa, Sean, solista dalla tecnica e dal feeling sopraffino, aveva in più anche una voce fantastica, in grado di spaziare tra, Blues, rock, soul, R&B, le sue passioni, con un timbro ed una potenza che di volta in volta potevano richiamare gente come Steve Marriott, Rod Stewart, Frankie Miller, ma anche cantanti soul come Al Green, Johnny Taylor, anche Bobby Womack, di cui riprende un brano in questo In The Magic Shop, e molti altri che si intuiscono nelle pieghe della sua musica https://www.youtube.com/watch?v=TC9_c6SynBE .

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Sean Costello, oltre che interprete sopraffino era anche un ottimo autore, e questo disco, registrato sul finire del 2005, sulla scia del disco omonimo pubblicato l’anno prima dalla Artemis Records, con buoni riscontri di critica, era rimasto criminalmente nei cassetti della casa discografica per circa una decina di anni e solo oggi vede la luce, dopo la ristampa dell’eccellente At His Best/Live http://discoclub.myblog.it/2012/01/08/un-altro-grande-talento-che-non-c-e-piu-sean-costello-at-his/ , che era un compendio di varie esibizioni dal vivo, con una registrazione cruda, una sorta di bootleg ufficiale. Il produttore originale delle sessions di studio, Steve Rosenthal, vincitore di 4 premi Grammy, e titolare del Magic Shop di New York, dove l’album venne inciso nell’autunno del 2005, ha fatto un lavoro perfetto con i nastri originali, e il disco suona fresco e pimpante come fosse stato inciso cinque minuti fa. Sono state catturate tutte le caratteristiche di Costello: il chitarrista fenomenale, in grado di”perdersi” (in senso buono), in una versione sbalorditiva di It’s My Own Fault, che da sola varrebbe tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=3MkEZkH54s4 , se anche il resto non fosse comunque buono, dove il nostro amico unisce una tecnica degna del miglior Mike Bloomfield, al feeling innato del suo autore B.B. King, e alla ferocia del più cattivo Buddy Guy, per un assolo che è un miracolo di equilibri sonori e che ti risucchia nella sua bellezza con una intensità e una passione che sono cosa rara anche nei migliori bluesmen, e nella parte cantata ricorda Steve Marriott

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Ma non mancano la passione per la buona musica soul, o addirittura per il suo predecessore R&B, in Can’t Let Go, un pezzo dello stesso Sean, che su un delizioso tappeto di organo, piano elettrico, voci femminili e misurati interventi della chitarra, ci permette di godere la sua voce qui più soffice e melliflua https://www.youtube.com/watch?v=6iPARKqtQEM , per poi tornare al blues torrido di Hard Luck Woman, dove Paul Linden, il tastierista, raddoppia anche all’armonica, che duetta con la solista di Costello https://www.youtube.com/watch?v=vwOU3AoH2Gs , senza tralasciare una bellissima ballata acustica come Trust In Me, dove l’espressiva voce del nostro si divide tra sonorità che oscillano tra il crooner navigato e il soulman appassionato alla Sam Cooke https://www.youtube.com/watch?v=whYxoHOuK00 . Per passare poi a Feel Like I Ain’t Got No Home, che è un blues-rock degno degli Humble Pie più assatanati https://www.youtube.com/watch?v=hZt_CtXdGws , con la voce di Sean Costello che oscilla tra la potenza di Steve Marriott e del giovane Joe Cocker, mentre la chitarra e la ritmica pestano di brutto, ma con gran classe. You Don’t Know What Love Is, cover di Fenton Robinson, è un altro blues con chitarra lancinante, ma su una base decisamente funky e quella voce incredibile che veicola la passione che c’è alle spalle della canzone https://www.youtube.com/watch?v=pfepCcZ3CxQ , mentre Check It Out, dalla penna di Bobby Womack, è un’altra trascinante perla di R&B ritmato e trascinante, come richiesto dal genere musicale, con la solista sempre pungente ed inventiva.

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I Went Wrong, firmata da Costello torna a quel blues, BB King style, che era da sempre nel DNA di questo giovane talento da Atlanta, Georgia. In questo senso You Wear It Well, , sempre molto seventies, cover di un brano del primo Rod Stewart, altro praticante del genere, non sorprende e ci sta benissimo https://www.youtube.com/watch?v=_YuMurfToqg . Non male Told Me A Lie, inconsueta ed incompiuta, ancorché costruita intorno ad un interessante giro di basso, e il funky con wah-wah della ritmatissima Make A Move, con Dayna Kurtz tra le voci di supporto. Conclude una delicatissima Fool’s Paradise, una sorta di brano da after hours che ci riporta al Sean Costello crooner. Un bel disco ritrovato, ma veramente bello, ve lo giuro, che era un peccato non poter ascoltare: come non essere d’accordo con quel “pretty good” quasi sussurrato che conclude l’album!

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Parte del ricavato della vendita del CD va al fondo di ricerca sulla Bi-polar Disease research.

Bruno Conti

Suoni Di Casa (Di Tab Benoit) E Tanta Slide, Ma Non Solo! Damon Fowler – Sounds Of Home

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Damon Fowler – Sounds Of Home – Blind Pig/IRD

Molti sono convinti che questo sia il terzo album di Damon Fowler, al limite il quarto, contando anche il CD dei Southern Hospitality (con Jp Soars e Victor Wainwright), ed in effetti è vero, ma solo contando la produzione con l’etichetta Blind Pig.

Risalendo nel passato, il musicista di Brandon, Florida (un paesino nei pressi di Tampa Bay, quasi una “istigazione” giovanile al Blues), aveva già pubblicato tre dischetti, tra cui un live, usciti con distribuzione indipendente, a cavallo della scorsa decade, o dello scorso secolo se preferite. Gli ultimi tre sono notevolissimi, di Sounds At Home ci occupiamo immediatamente, e lo confermano uno dei massimi talenti emergenti del nuovo blues, come chitarrista, soprattutto alla slide, dove è veramente letale , e come cantante, con una voce che è una via di mezzo tra uno Steve Marriott, un filo meno potente, e un vecchio cantante soul (che sono quasi la stessa cosa)! Se poi aggiungiamo che la produzione del nuovo album è affidata a Tab Benoit (che scrive quattro pezzi con Fowler, e canta e suona, con discrezione, nel disco) il risultato è pressoché matematico: gran bel disco, con un sound da sballo.

Registrato nei Whiskey Bayou Studios (un nome, un programma) di Houma, Lousiana, di proprietà di Benoit, il disco è un’ode alla buona musica, principalmente blues, ma non solo. Grande chitarrista slide , anche se non forse della scuola virtuosistica alla Derek Trucks o Sonny Landreth, o di quella più rigorosa ma immaginifica di un Ry Cooder (a cui mi pare più vicino), senza dimenticare Winter, il nostro Damon si disbriga bene anche con le accordature tradizionali, per quanto con un tipo di suono un po’ sghembo, aspro, molto ritmico, comunque trascinante. Prendete l’iniziale Thought I Had It All, con il bottleneck che inizia a scivolare quasi con libidine sul manico della chitarra e Fowler che canta con una voce tiratissima e “cattiva”, come quella che aveva il giovane Marriott o altri giovani bianchi che si sono cimentati con il blues-rock nel corso degli anni: l’atmosfera è sospesa e minacciosa, la sezione ritmica scandisce il tempo con grande perizia e il brano, e il disco, prendono subito quota, con l’assolo nella parte centrale che è veramente letale.

E siamo solo al primo brano. Il secondo, scritto con Tab Benoit, e che è quello che dà il titolo all’album, Sounds Of Home, ci porta dalle parti delle paludi della Lousiana, dove ci aspetta un personaggio pittoresco, ma di grande carisma come Big Chief Monk Boudreaux, che con il suo vocione vissuto aiuta il “giovane” Damon a spargere il seme del blues, del rock e della bayou music dei vecchi Creedence più ingrifati di Fogerty, con la giusta grinta, gustosissimo il breve ed intricato solo nella parte finale. Trouble, scritta ancora con Benoit, ed Ed Wright, che aveva firmato anche il brano iniziale, è una sinuosa e sensuale ode al funky-soul più genuino, con un groove della sezione ritmica che spinge il piedino irresistibilmente a muoversi e lui che canta divinamente, mentre si occupa con amore della sua chitarra, titillata quasi con piacere, che meraviglia! Spark sfodera ritmi quasi da R&R e con un pizzico dello Springsteen più gioioso (sto dando i numeri?), ma ancora anche tanto Fogerty, e i due qualche punto in comune ce l’hanno. Old Fools, Bar Stools And Me (bel titolo) è uno slow blues & soul, molto cadenzato, quasi attendista, ma aspetta che ti aspetta, quando parte l’assolo ti stende al tappeto sotto lo sgabello del bar. Where I Belong avrebbe potuta suonarla Ry Cooder nei suoi dischi degli anni ’70, quelli del blues alle radici della musica, un train sonoro semplice e una slide misurata, ma sempre in grado di fare i numeri, con Benoit che lo aiuta alla ritmica acustica.

Grit My Teeth, a tempo di boogie Fowler si misura con ZZ Top o Thorogood, con la chitarra che va quasi subito in overdrive nell’altra galassia. A questo punto così ti va a pensare quel geniaccio del Damon? Una bella cover di Alison di tale Declan Patrick McManus, per la mamma, Elvis Costello per tutti gli altri, che viene “soulificata” (se si può dire, non credo, ma ormai l’ho scritto) e trasportata nel Sud degli Stati Uniti, dalle parti di Memphis o Muscle Shoals, con tanto di assolo come quelli che faceva Duane Allman nei singoli Stax od Atlantic https://www.youtube.com/watch?v=SFmA4BqrmbU  e potrebbe fare adesso il suo erede Derek Trucks, bellissimo! In Tv Mama Damon Fowler si cimenta con il repertorio di uno dei maestri della slide, Johnny Winter, e il risultato è quasi un pari, e qui si viaggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=S60cGLAz5s0. Per completare lo spettro delle influenze c’è anche una Do It For The Love che è una ballata “country got soul” con Tab Benoit impegnato alla pedal steel. E per finire la cover di un traditional come I Shall Not Be Moved, che parte all’incirca a tempo di ragtime e diventa un gospel, ancora quasi cooderiano nei suoi sviluppi. Consigliato, questo è uno bravo!

Bruno Conti

E’ Ufficiale: Humble Pie – Performance: Rockin’ The Fillmore – The Complete Recordings In Uscita Il 29 Ottobre

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Humble Pie – Performance: Rockin’ The Fillmore – The Complete Recordings 4 CD – Omnivore Recordings 29-10-2013

Lo aveva già anticipato il Buscadero nelle sue News del mese di luglio/agosto annunciando che la Universal aveva messo in cantiere una Deluxe Edition con tutte le registrazioni di 4 concerti tenuti dagli Humble Pie al Fillmore East di New York il 28 e 29 maggio del 1971, concerti del pomeriggio e sera (allora usava così), oltre quattro ore di musica.

La buona notizia è che tutto è confermato, anche se la casa che pubblica sarà l’etichetta americana specializzata in ristampe Omnivore Recordings. Le notizia meno buona è che i 22 brani contenuti sono praticamente le stesse sette canzoni che apparivano nel vecchio doppio vinile ripetute più volte (quasi tutte quattro volte meno due): in pratica ogni concerto aveva all’incirca la stessa scaletta. Quello che si dice in queste occasioni (ed è vero) è che ogni versione è diversa dall’altra e la quota di improvvisazione nel rock-blues della band di Steve Marriott, Peter Frampton, Greg Ridley e Jerry Shirley era molto elevata (a proposito di gruppi con doppia chitarra solista, come si diceva per i Fleetwood Mac, giorni or sono). Però, il tutto, come si evince dal sito della Omnivore, costerà un bel 50 dollari http://omnivorerecordings.com/humble-pie/.

I brani sono questi (quelli con l’asterisco apparivano nel disco originale, le durate delle canzoni le ho aggiunte io):

CD Disc 1:
5/28/71 Friday, First Show

1. FOUR DAY CREEP (3:51)
2. I’M READY ((8:20)
3. I WALK ON GILDED SPLINTERS (27:07)
4. HALLELUJAH (I LOVE HER SO) (6:16)
5. I DON’T NEED NO DOCTOR (8:40)

CD Disc 2:
5/28/71 Friday, Second Show

1. FOUR DAY CREEP (3:45)
2. I’M READY (8:42)
3. I WALK ON GILDED SPLINTERS (27:19)
4. HALLELUJAH (I LOVE HER SO)* (5:26)
5. ROLLIN’ STONE* (16:55)
6. I DON’T NEED NO DOCTOR* (9:13)

CD Disc 3:
5/29/71 Saturday, First Show

1. FOUR DAY CREEP (3:55)
2. I’M READY (8:40)
3. I WALK ON GILDED SPLINTERS (26:11)
4. HALLELUJAH (I LOVER HER SO) (5:59)
5. STONE COLD FEVER* (6:08)

CD Disc 4:
5/29/71 Saturday, Second Show

1. FOUR DAY CREEP* (3:50)
2. I’M READY* (8:44)
3. I WALK ON GILDED SPLINTERS* (27:53)
4. HALLELUJAH (I LOVER HER SO) (5:33)
5. ROLLIN’ STONE (12:27)
6. I DON’T NEED NO DOCTOR (7:34)

Probabilmente, come è sempre il caso, le versioni apparse nel disco originale erano le migliori, ma per completisti e amanti del buon rock rimane comunque uno dei più concerti più famosi (e più belli) della storia della nostra musica. Nei prossimi giorni spazio anche per il famoso Rock Of Ages della Band che verrà espanso, in un quintuplo, come Live At The Academy Of Music 1971.

Alla prossima.

Bruno Conti

Non Solo “Uno Dei Tanti”! Terry Quiett Band – A Night At The Orpheum

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Terry Quiett Band – A Night At The Orpheum – Lucky Bag Records

Secondo voi un chitarrista e cantante (blues) che è noto come “The Kansas Tornado” dove avrà registrato questo album dal vivo? In che parte sperduta delle lande americane si trova l’Orpheum Theatre? Ma è elementare Watson! Siamo a Wichita, Kansas, in pieno Midwest degli Stati Uniti e Terry Quiett (doppia t, please!), con Jim Gaines al seguito in cabina di regia (già produttore del precedente disco di studio Just My Luck), fiore all’occhiello del “nuovo” sound più rifinito della band, che non perde però il suo stile ruspante, acquisito in una lunga gavetta ed in una decina di album pubblicati in precedenza a livello autogestito. Naturalmente l’ambientazione live è quella ideale per questo blues molto carico anche di rock e boogie, in una collocazione sonora che in America, peraltro, ha decine se non centinaia di praticanti, più o meno validi.

Non voglio scomodare paragoni con illustri chitarristi come fanno i “miei colleghi recensori” sulle pagine del suo sito, chi cita Clapton, chi Larry Carlton, chi l’immancabile Jimi Hendrix, qualche tocco boogie à la ZZ Top, tutti collegamenti che ci stanno ma forse sono un tantino esagerati. Intanto se amate il genere “rock-Blues chitarristico” qui c’è pane per i vostri denti. Il lungocrinito Quiett è un bel manico, ha una voce espressiva, un tantino nasale e di gola ogni tanto, ma della scuola Marriott e dintorni, scrive del buon materiale e sa scegliere alcune cover forse risapute (meno una), ma di sicuro effetto. I suoi pard, Aaron Underwood al basso e Rodney Baker alla batteria, sono solidi veterani in grado di fornire un supporto vibrante e tirato senza scadere nel caciarone o nell’hard di maniera e il risultato finale di questo CD dal vivo sicuramente soddisferà gli aficionados del genere, nulla di nuovo ma un ulteriore “amico” da aggiungere alla lista di quelli che vale la pena di ascoltare, se amate il genere.

Il suono è nitido e ben definito, grazie al lavoro di Gaines, e già dall’iniziale Getting Through Me l’atmosfera è bella calda, con Quiett che strapazza subito le corde della sua chitarra con assoli lancinanti e tirati, vagamente alla Bugs Henderson, altro vecchio maestro del power trio o alla Bonamassa per restare in anni più recenti (ma senza averne la classe). La slide è protagonista in Judgment Day con un suono country-blues che poi rivela delle folate elettriche. Big Man Boogie al giro boogie del titolo sovrappone anche una bella andatura da shuffle classico, mentre Wheelhouse ha ritmi più funky alla Band Of Gypsys, anche per il suono “secco e marcato” di basso e batteria, con Quiett che continua ad inanellare una serie di soli ricchi di tecnica e feeling. Caroline è la classica power blues ballad che ricorda il sound degli Humble Pie dello Steve Marriott citato prima o di certo rock-blues americano dei primi anni ’70. Long Saturday Night è uno dei must del repertorio del trio, il classico slow blues ad alta intensità dove Quiett si dimostra anche padrone di toni e sfumature sottili nel suo incedere da solista e poi di nuovo alla slide per il classico “unisono” voce e chitarra di un blues in solitaria come The Horizon.

La prima cover è quella più inconsueta, una versione di Cover Me (un invito fin dal titolo) di Springsteen che diventa un torrido funky blues alla SRV con un bel solo di complemento, abbastanza difficile da riconoscere obiettivamente se uno non segue il testo. Onesta ma nulla più Gimme Some, più dinamica e tirata Weak Minded Man dove il buon Terry si destreggia sia con la slide che con il wah-wah per un finale hendrixiano che è propedeutico alla seconda cover della serata, proprio una corposa versione di Hear My Train A Comin’ di Mastro Jimi, ancora occasione per mostrare la sua destrezza con la chitarra solista. Just My Friends ha qualche retrogusto da ballata soul ma più che Marvin Gaye ricorda Mick Hucknall, niente di male. Short Dress con un bel funky groove di basso e batteria è l’occasione ancora per qualche esercizio di lascivo uso di slide. E la conclusione è affidata ad un altro classico, questa volta dal repertorio di Eric Clapton, con una poderosa rilettura in crescendo chitarristico di Forever Man che sicuramente incontrerà l’approvazione di Mister Manolenta e chiude in gloria questo Live!

Bruno Conti