Una Dichiarazione Di Intenti Sin Dal Titolo: A “Sorpresa” Un Eccellente Disco! Peter Frampton Band – All Blues

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Peter Frampton Band – All Blues – Universal Music Enterprises

Sono passati quasi 50 anni (anzi sono cinquanta proprio quest’anno) dall’uscita del primo album degli Humble Pie (celebrata recentemente anche su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2019/03/25/humble-pie-la-quintessenza-del-rock-agli-inizi-e-poi-un-lungo-lento-declino-parte-i/ ), e per l’occasione Peter Frampton torna al blues, sempre condito da una forte componente rock, ma nell’occasione, visto che si tratta di un album incentrato quasi completamente su una selezione di famosi standard delle 12 battute, ancora più rigoroso, almeno nella scelta del materiale. L’album è attribuito alla Peter Frampton Band, ovvero Adam Lester (seconda chitarra/voce), Rob Arthur (tastiere/chitarra/voce) e Dan Wojciechowski (batteria), nomi direi non celeberrimi, ma…ci sono alcuni ospiti, per certi versi anche sorprendenti, come Kim Wilson, Larry Carlton, Steve Morse e Sonny Landreth, e il risultato mi sembra quello del miglior disco di Peter Frampton, da molto tempo a questa parte, magari con l’eccezione di qualche CD dal vivo celebrativo. Il nostro amico non ha più quei bei boccoli vaporosi che erano un suo tratto distintivo, ma non ha perso il tocco eccellente alla solista, tocco che ne aveva fatto uno dei chitarristi più gagliardi in ambito rock-blues, e pure con le migliori cifre di vendita, grazie all’ottimo Peter Frampton Comes Alive, multidisco di platino con oltre undici milioni di copie vendute, ma poi anche con una serie di altri buoni dischi, soprattutto negli anni ’70.

Ma bando alle nostalgie, anzi forza con la nostalgia, visto che questa volta è per una buona causa, il blues, che sembra essere uno dei generi che stranamente (e per fortuna) non passa mai di moda: I Just Want To Make Love To You era uno dei cavalli di battaglia di Muddy Waters e Etta James, ma l’hanno incisa decine di altri artisti, in ambito rock-blues per esempio i Foghat, e Frampton, nel presentare il disco, ha ricordato che la sua passione per i brani blues è stata rivitalizzata anche dal fatto di averne suonati una manciata a serata, nel recente tour insieme alla Steve Miller Band. La versione del brano appena ricordato si situa giusto al crocevia tra quella classica di Waters, grazie anche alla presenza di Kim Wilson all’armonica, e un suono più grintoso e vicino al rock, in ogni caso una versione sapida e potente, con la ritmica sul pezzo, le tastiere ben inserite, la voce di Peter che si è irrobustita con il passare degli anni e la chitarra che lavora di fino ma anche di forza su uno dei riff più celebrati del genere. She Caught The Katy è è uno standard scritto da Taj Mahal e Yank Rachell, che ricordiamo anche nella versione dei Blues Brothers, la parafrasi (mi è scappato) di Frampton, con la chitarra molto impegnata in continui soli e rilanci, mi ha ricordato, per strane associazioni di idee, un sound alla Jeff Healey, ma anche con rimandi a certo southern rock di qualità, mentre Georgia On My Mind non si può certo definire uno standard blues, o meglio uno standard lo è di certo, e giustamente non potendo misurarsi con la versione di Ray Charles, Frampton decide saggiamente di trasformarlo in una ballata strumentale suadente e struggente, con la sua chitarra che confeziona un assolo dove tecnica e feeling vanno a braccetto con gusto sopraffino, grande assolo.

Can’t Judge A Book By The Cover in origine era stata scritta da Willie Dixon per Bo Diddley, poi negli anni, dai Cactus in giù, è diventato un must anche per i rockers, il nostro amico decide quindi di unire il riff e il drive alla Diddley con un sound più muscolare e tirato, con grande lavoro di slide che ricorda un poco i suoi trascorsi negli Humble Pie; Me And My Guitar, se la memoria non mi inganna era un pezzo di Freddie King, un altro brano ricco d vigore, con la chitarra di Frampton sempre in grande spolvero, a conferma che il tocco magico non si perde con il trascorrere degli anni, ragazzi se suona. E che dire di una ricercata e soave traccia strumentale come All Blues, tutta tecnica e tocco, un duetto jazzato dove Frampton rivaleggia con Larry Carlton a chi è più raffinato nel trattare questo classico di Miles Davis, entrambi ben spalleggiati dal piano di Arthur; eccellente anche la rilettura di The Thrill Is Gone, una fantastica versione di questa meraviglia di B.B. King, rispettosa il giusto, ma con Frampton (ottimo anche a livello vocale) e Sonny Landreth a scambiarsi licks e soli di chitarra con una fluidità quasi disarmante.

E in Going Down Slow, il duetto con Steve Morse, l’atmosfera si fa più rovente, sempre senza esagerare e trasformare il tutto in caciara, le chitarre ci danno dentro alla grande, ma il suono rimane chiaramente e decisamente ancorato al miglior blues elettrico, quasi rigoroso nel suo dipanarsi, con Peter e Chuck Ainlay, che hanno prodotto il disco negli studi Phoenix di Frampton a Nashville, optando per un tipo di suono molto caldo e ben delineato. Altro omaggio a Mastro Muddy in una vibrante I’m A King Bee, la quintessenza del Chicago Blues, anche se forse per l’occasione manca un poco di nerbo, ma è un parere personale e comunque il breve ritorno della chitarra in modalità talk box (giusto un assaggino in ricordo di Show Me The Way) giunge quasi a sorpresa, potremmo dire “Show Me The Waters  https://www.youtube.com/watch?v=NaeNQifZp5I . Gran finale con un altro super classico di Freddie King, la magnifica  ballatona Same Old Blues, suonata quasi alla Clapton https://www.youtube.com/watch?v=EuU1hwJkBRU , con la chitarra che viaggia fluida che è un piacere, ottimo finale per un album veramente bello ed inaspettato, e che mi sento di consigliarvi caldamente.

Bruno Conti

Un Tributo Blues “Duretto” Ma Per Nulla Disprezzabile. Bob Daisley & Friends – Moore Blues For Gary

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Bob Daisley & Friends – Moore Blues For Gary – earMusic/Edel       

Ormai sono trascorsi più di 7 anni dalla scomparsa di Gary Moore,  e ora ci pensa il vecchio amico e compagno di avventure musicali, a lungo bassista nei suoi dischi, Bob Daisley, a rendergli omaggio con un tributo. Proprio il musicista di origini australiane era stato, diciamo, l’istigatore della svolta blues di Moore, quello che gli ha suggerito che avrebbe dovuto fare un album dedicato a questo genere, Still Got The Blues, che è stato il primo di una lunga serie, e come spesso accade, anche il migliore (insieme a Blues For  Greeny ,il disco dedicato a Peter Green, a proposito di tributi poi Gary Moore ne aveva inciso anche uno dedicato a Jimi Hendrix). Diciamo che gli “amici” di Moore sono stati spesso legati all’hard rock e all’heavy metal, quindi questo Moore Blues For Gary predilige sonorità molto vigorose, il blues è tinto profondamente dal rock: d’altronde Daisley ha suonato a lungo con i Whitesnake, ma anche nella band di Ozzy Osbourne, non tralasciando una lunga militanza, circa una ventina di anni, con Gary Moore.

Con queste premesse era quasi inevitabile che l’album avrebbe avuto un suono piuttosto “duretto”, ma alla fine il risultato non è disprezzabile, anche se spesso le canzoni sono eseguite quasi in carta carbone rispetto a quelle di Moore. Non ci sono nomi notissimi nell’album, soprattutto sul versante blues, però il CD si lascia ascoltare: la partenza è più che buona, con la sinuosa That’s Why I Play The Blues, un brano ispirato dallo stile del suo vecchio mentore Peter Green, uno slow dall’atmosfera raffinata, con un buon lavoro del batterista Rob Grosser, altro veterano australiano, di  Jon C. Butler (ex Diesel Park West) bravo vocalist, e di Tim Gaze, altro eccellente chitarrista, che con l’organista Clayton Doley completa la pattuglia down under, che lavora di fino in questo brano. The Blues Just Got Sadder, un ricordo del vecchio amico da parte da Daisley, vede ancora un buon lavoro di Gaze alla slide, con l’aggiunta della fluida solista di Steve Lukather e della voce di Joe Lynn Turner dei Rainbow, mentre Empty Rooms, tratta da Victims Of The Future del 1983, anche se è meno blues e più AOR, non è male, canta Neil Carter degli UFO, Illya Szwec, di cui ignoravo l’esistenza, australiano anche lui, se la cava alla chitarra, e Daisley suona anche l’armonica in questo brano.

Still Got The Blues For You, è uno dei cavalli di battaglia di Moore, una classica ballata che suona quasi uguale all’originale, con John Sykes (Thin Lizzy, Whitesnake) alle prese con il classico refrain del brano alla solista e Daniel Bowes dei Thunder al canto, meno tamarro di quanto mi aspettavo, anzi;Texas Strut, dallo stesso album, era un omaggio di Gary alla musica di Stevie Ray Vaughan, un gagliardo boogie preso a tutta velocità, cantato da Brush Shiels, il vocalist degli Skid Row, la prima band di Moore, alla chitarra ancora l’ottimo Gaze. Nothing’s The Same è uno strano brano intimo, con chitarra acustica, cello e contrabbasso, cantato ottimamente da Glenn Hughes. The Loner è uno strumentale con Doug Aldrich alla solista, mentre per Torn Inside arriva Stan Webb dei Chicken Shack, una delle vecchie glorie del British Blues e Don’t Believe A Word, uno dei brani più belli di Phil Lynott dei Thin Lizzy,  viene rallentata e stranamente, a mio parere. è forse uno dei brani meno riusciti, anche se la voce e la chitarra di Damon Johnson filano che è un piacere, e buona anche Story of The Blues con Gaze alla solista e la voce potente di Jon C. Butler di nuovo in evidenza. In This One’s For You, un rock-blues decisamente hendrixiano scritto da Daisley, i due figli di Gary Jack e Gus se la cavano egregiamente a chitarra e voce, Power Of The Blues è forse un filo “esagerata”, ma Turner e Jeff Watson dei Night Ranger non enfatizzano troppo il lato metal, prima di lasciare spazio alla solista lirica di Steve Morse e alla voce di Ricky Warwick, attuale cantante dei Thin Lizzy, che rendono onore a Parisienne Walkways con una prestazione egregia.

Pensavo peggio, molto simili agli originali ma, ripeto, un CD non disprezzabile nell’insieme, per chi il blues(rock) lo ama “mooolto” energico.

Bruno Conti

Il Loro Canto Del Cigno? Se Sarà Così, Un Addio Con Stile! Deep Purple – Infinite

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Deep Purple – Infinite – earMUSIC/Edel CD – CD/DVD – 2LP/DVD – Box Set CD/DVD/2LP

Nel 2013 i Deep Purple, leggendaria band hard rock Britannica, diedero alle stampe l’ottimo Now What?! dopo un silenzio discografico di ben otto anni http://discoclub.myblog.it/2013/05/16/finalmente-un-disco-come-si-deve-deep-purple-now-what/ , un album che per molti (incluso il sottoscritto) era il migliore dall’addio definitivo di Ritchie Blackmore avvenuto nel 1993 (sostituito da Steve Morse, ex Dixie Dregs e terzo americano della storia del gruppo dopo Tommy Bolin e Joe Lynn Turner), anche se Purpendicular del 1996 e soprattutto Abandon del 1998 hanno molti estimatori tra i fans della nota band: di sicuro Now What?! era il migliore da quando Don Airey aveva preso il posto di Jon Lord alle tastiere, lasciando il drummer Ian Paice come unico membro presente in tutte le configurazioni del gruppo (anche se il cantante Ian Gillan ed il bassista Roger Glover sono ormai considerati alla sua stessa stregua, ben pochi si ricordano oggi di Rod Evans e Nick Simper). Now What?! era un solido disco di hard rock classico nel più puro “Purple style”, merito anche della scelta vincente di affidarsi ad un produttore esperto come Bob Ezrin, uno che è famoso per non soffrire di alcuna soggezione rispetto a chi ha di fronte, e che se una canzone fa schifo te lo dice in faccia anche se ti chiami Lou Reed, Roger Waters, Gene Simmons, Paul Stanley, Alice Cooper o Peter Gabriel (per citare gente prodotta da lui in passato, non esattamente personaggi dal carattere accomodante, forse con la sola eccezione di Cooper).

Quel disco deve aver fatto tornare ai nostri l’ispirazione, se è vero che dopo “soli” quattro anni ci riprovano con Infinite, che da alcune voci messe in giro (forse ad arte) potrebbe essere il loro ultimo lavoro, indiscrezione confermata dal nome scelto per il tour che partirà a Maggio, The Long Goodbye, che però potrebbe anche essere ironico dato che la storia del rock è piena di finti addii alle scene. A parte queste considerazioni, Infinite conferma l’ottimo stato di forma del quintetto, un album anche superiore al precedente, con una bella serie di canzoni nello stile che ha reso famosi i Purple, i quali però sono stati attenti a non limitarsi a riciclare il loro suono, ma sono riusciti a tenere alto il vessillo della creatività ed a rimanere attuali pur nella loro classicità, grazie anche alla decisione di proseguire la collaborazione con Ezrin anche per questo disco. Paice e Glover si confermano una delle sezioni ritmiche più devastanti della storia, Morse è un chitarrista coi controfiocchi e dal suono pulito e lirico, Airey un tastierista della Madonna, forse l’unico in quell’ambiente in grado di sostituire a dovere Lord, mentre Gillan con l’età è (giocoforza) diventato praticamente un altro cantante rispetto al passato, molto meno screamer ma con un timbro dalle tonalità più basse e calde. Un bel disco di hard rock classico quindi questo Infinite (che esce nelle solite molte versioni più o meno deluxe, con anche un DVD che racconta il making of del disco, ma senza canzoni aggiunte), niente di nuovo sotto il sole ma quello che c’è è fatto benissimo, anche perché non credo che qualcuno si aspettasse novità rivoluzionarie nel 2017 da parte di un gruppo in giro bene o male da cinquant’anni.

L’album inizia con la già nota (è in giro da qualche mese ormai) Time For Bedlam, introdotta da un’inquietante voce robotica, un uptempo potente e dal ritmo pressante, con la timbrica inconfondibile di Gillan ed una parte strumentale fluida (belle le parti di chitarra, ma sarà una costante), che mescola classico e moderno: un buon inizio, anche se mi aspetto di meglio. Ed il meglio arriva già con Hip Boots, altra granitica rock song contraddistinta dal tipico Purple sound, ottimi interplay tra chitarra ed organo, Glover e Paice che pestano di brutto e Gillan che sopperisce con il mestiere all’impossibilità di raggiungere ancora le note più alte; molto bella All I Got Is You, che ha un inizio epico ed emozionante dominato dall’organo di Airey, che accompagna alla grande la costante crescita ritmica del brano, poi entra Ian che intona una melodia molto discorsiva, e non manca neppure la solita parte strumentale scintillante, ma anche creativa: hard rock sì, ma di gran classe. One Night In Vegas è un rock-blues roccioso, con i nostri che marciano spediti come treni, Airey e Morse in gran forma, per uno dei brani più diretti del CD, mentre Get Me Outta Here non abbassa la guardia e ripropone i Deep Purple più classici, dove solo apparentemente ognuno va per conto suo, ma poi ci si accorge che fa tutto parte di uno schema preciso (e Paice qui è incontenibile).

The Surprising è forse il capolavoro del disco, una straordinaria ballata ricca di pathos con Gillan che canta magnificamente, uno dei pezzo migliori dei nostri da trent’anni a questa parte: l’accelerazione strumentale dopo due minuti e mezzo poi è da applausi, con Morse che non fa rimpiangere Blackmore, e non manca un languido assolo pianistico che è la ciliegina sulla torta. Ottima anche Johnny’s Band, mossa, diretta e chitarristica, forse il pezzo più immediato ed orecchiabile, altra conferma del notevole stato di forma dei cinque; la roboante On Top Of The World è rock duro in giacca e cravatta, classe pura, mentre la maestosa Birds Of Prey mostra ancora elementi blues ed una grinta per nulla scalfita dall’età, anche se la parte recitata alla fine del brano poteva anche non esserci. Gran finale con una splendida cover di Roadhouse Blues dei Doors (è raro che i nostri inseriscano brani di altri nei loro dischi, anche se il loro primo successo è stata proprio una cover, Hush), rilettura potente e tonica di un classico senza tempo, con i nostri che riescono nel non facile compito di personalizzare un brano che conoscono anche le pietre (ed Airey è strepitoso al pianoforte). Grandissima versione, degna conclusione di un disco di vero rock anni settanta, suonato come solo i Deep Purple sanno fare.

Marco Verdi

Sembra Nuovo Ma… The House Is Rockin’ – A Tribute To Stevie Ray Vaughan

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The House Is Rockin’ – A Tribute To Stevie Ray Vaughan – Deadline/Cleopatra 

Tre stellette di stima e anche per i contenuti, in parte, visto il soggetto di questo ennesimo tributo curato da una etichetta del gruppo Cleopatra Records (uhm!). Come avrete intuito da quanto scritto in passato dal sottoscritto non sempre le operazioni curate dalla casa discografica californiana mi fanno impazzire: alcuni tributi sono buoni, penso a quello sui Creedence dello scorso anno http://discoclub.myblog.it/2014/09/03/la-difficile-arte-del-disco-tributo-blues-tribute-to-creedence-clearwater-revival/, anche quello recente acustico ai Beatles non è male, come pure quello “Psych” agli Stones, ma in altri casi si fanno tributi a capocchia a chiunque, anche con brani già apparsi altrove, giusto per tenere in azione gli artisti sotto contratto con l’etichetta. Nell’ambito ristampe della Cleopatra/Purple Pyramid, penso a quelle dei Quicksilver http://discoclub.myblog.it/2015/05/01/cera-volta-lacid-rock-quicksilver-messenger-service-live-san-jose-1966/  o dei Canned Heat http://discoclub.myblog.it/2015/06/07/canned-heat-live-tira-laltro-stockholm-1973/ , ma anche al giro Vanilla Fudge/Cactus http://discoclub.myblog.it/2010/09/14/un-disco-del-cactus-ultra-sonic-boogie-1971/ , decisamente meglio, peraltro in molti casi, tipo questo del tributo a Stevie Ray Vaughan, sembrerebbe che dei nomi scelti a caso vengano inseriti in una vecchia urna delle estrazioni del lotto e il bambino bendato, nel frattempo cresciuto, estrae i nomi dei partecipanti alla suddetta celebrazione. John Sykes, Scott Hill, Mark Kendall, Doug Aldrich, Richie Kotzen, Steve Stevens? Tutti ex metallari più o meno pentiti (niente contro la categoria, ma come direbbe qualcuno. Che c’azzecca?) scelti a scapito, che so, cito a caso, di ZZ Top, del fratello Jimmy Vaughan i primi che mi vengono in mente, ma anche Jeff Beck, Eric Clapton  Buddy Guy, Robert Cray, Lonnie Mack, Robben Ford,  un “discepolo” come Chris Duarte, ce ne sarebbero altri a decine, magari anche coinvolgere i Double Trouble, un colpo forse troppo geniale! Costano troppo? Allora non fate il tributo, magari qualcuno sarebbe venuto anche gratis (Come dite? L’hanno già fatto, uscito per la Epic nel lontano 1996, con il titolo A Tribute To Stevie Ray Vaughan, cè pure il film https://vimeo.com/71091763 ). Che pignoli!

a tribute to stevie ray vaughan

Comunque nel disco della Deadline troviamo anche nomi validi, gente come Albert Lee, Steve Morse, Walter Trout o uno Stanley Jordan, che come stile non c’entrerebbe, ma a livello di tecnica pura non si discute. Perfino il sudafricano Trevor Rabin, ex Yes, famoso soprattutto per avere scritto Owner Of A Lonely Heart, non se la cava male nell’iniziale Tightrope, e anche alcuni dei bistrattati (da me) ospiti potrebbero sorprendervi. Ma andiamo con ordine. Produce Billy Sherwood, altro pseudo Yes degli anni ’90, pure al basso nel disco, con Jay Schellen, alla batteria, altra presenza costante in questi tributi, alla voce, ove occorra, Ron Young e Dante Marchi, e chi sono, mah (comunque per essere onesti, la parte cantata è buona)? Piccolo particolare non trascurabile, anche questo album era però già uscito nel 1996, contenuto identico, come Crossfire – A Salute To Stevie per la Blues Bureau (quindi la Cleopatra ha colpito ancora, visto che non è scritto da nessuna parte nella “nuova “ edizione).

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Per chi non l’avesse preso ai tempi, confermo che la versione di Tightrope, con la solista di Rabin in bella evidenza non è affatto male https://www.youtube.com/watch?v=6Na_8hTAU_E , come pure Cold Shot con uno Steve Stevens forse un tantinello esagerato in un’orgia di wah-wah https://www.youtube.com/watch?v=ZZQl6el76gc . Travis Walk evidenzia la grande perizia tecnica di Steve Morse, al meglio delle sue possibilità, con un pianino malandrino non accreditato (come in generale le altre tastiere presenti) ad aumentare il fascino di questo brano strumentale https://www.youtube.com/watch?v=HwEl4Td6-KA . Eccellente l’approccio più country twang e rilassato in Empty Arms, con Albert Lee che era già in pista nel mondo della musica quando SRV andava ancora alle elementari https://www.youtube.com/watch?v=9EZCl6BqlKY . Pride And Joy dell’ex Tyger Of Pan Tang e Thin Lizzy John Sykes è troppo esagerata e ridondante, con i suoi lick quasi metal, mentre Scott Hill che tra i suoi meriti vanta una militanza nei Fu Manchu (?!?) fa comunque un buon lavoro in Couldn’t Stand The Weather, quasi alla Bonamassa ante litteram in modalità hendrixiana. Ain’t Gone And Give Up On Love è un brano meno conosciuto di Stevie che appariva su Soul To Soul, uno slow blues preso su una tonalità troppo heavy dal solista dei Great White, Mark Kendall. E pure Doug Aldrich non ha un approccio che mi piace verso The House Is Rockin’, la band suona R&R, lui è metallurgia pura https://www.youtube.com/watch?v=InZAKBwwDeo , e così sarebbe pure per Richie Kotzen, altro solista diciamo esuberante che invece centra alla perfezione lo spirito di Honey Bee, come pure Walter Trout, che pur virando su un sound decisamente tirato (ma ci sta) rende onore a Say What, altro celebre cavallo di battaglia di Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=1kjcyKj6dyM . Chiude Stanley Jordan che con un tapping elaboratissimo rilegge da par suo la jazzata Riviera Paradise https://www.youtube.com/watch?v=K9glnLiDO7A . 

Visto che vent’anni fa (anzi 19) il Blog non c’era ancora, facciamo finta che sia un disco nuovo, in fondo non è brutto!

Bruno Conti

Il “Figlioccio” Di Jimi Hendrix Tenta Nuove Strade! Eric Gales Trio – Ghost Notes

eric gales trio

Eric Gales Trio – Ghost Notes – Tone Center/Shrapnel Records

Dopo il disco registrato con dUg Pinnick e Thomas Pridgen http://discoclub.myblog.it/2013/02/21/esagerati-ma-bravi-un-mini-supergruppo-pinnick-gales-pridge/  e il CD/DVD Live http://discoclub.myblog.it/2012/10/10/tra-mancini-ci-si-intende-eric-gales-live/ , torna uno dei miei “clienti” abituali, Eric Gales (della premiata ditta dei fratelli Gales, che comprendeva anche Manuel, in arte Little Jimmy King, prematuramente scomparso, che era forse il più bravo della dinastia). Anche Eric come chitarrista non scherza un c…, una grandissima tecnica, che gli deriva in egual misura da anni di ascolti, sin dalla più tenera età, del blues di tutti i vari King, Albert, B.B. e Freddie, nell’ordine e da una insana passione per la musica di Jimi Hendrix, di cui possiamo definirlo “figlioccio” ed “erede”, anche se è una parola grossa (forse il fatto di essere entrambi mancini, a volere essere cattivelli, ma in verità è veramente bravo http://www.youtube.com/watch?v=S-f2Pby42eA e http://www.youtube.com/watch?v=amtLZwS441M )!

Eric+Gales

*NDB La foto non è di Hendrix! Cercano sempre un attore per il film su Jimi, non occorre cercare lontano, altro che Andre 3000 degli Outkast, l’ideale sarebbe stato Phil Lynott dei Thin Lizzy, ma purtroppo…

Per questa nuova avventura con la Tone Center, una delle etichette della galassia di Mike Varney, Gales ha messo in piedi un altro trio, con due giovani virtuosi ai rispettivi strumenti, Orlando Thompson al basso e Nick Hayes alla batteria, ed ha realizzato il primo disco tutto strumentale della sua carriera http://www.youtube.com/watch?v=eDq_r3kCuxw . Tutti brani firmati dallo stesso Eric, questa volta viaggiamo tra rock, blues e jazz, con molto funky, come di consueto e le inevitabili acrobazie strumentali di uno dei migliori virtuosi della chitarra elettrica dell’ultimo ventennio (anche se non manca una Grandaddy Blues che è una veloce incursione nella musica acustica, ma è troppo rapida per dire se avrà un seguito).

eri gales live

C’è anche molta musica, come vogliamo definirla, neo-progressiva, hard-virtuosistica? Ai miei tempi si chiamava jazz-rock o fusion, prendete un pezzo come Caution, un brano che si potrebbe trovare su un qualsiasi album anche di Eric Johnson, altro musicista che è uno dei punti di riferimento del nostro amico Gales, vorticose scale chitarristiche sostenute da una sezione ritmica dove basso e batteria sono partner alla pari del funambolico chitarrista. Direi che proprio a questo tipo di ascoltatore si rivolge questo prodotto, tra blues futuristici ed hendrixiani (ovviamente) come A Few More Miles http://www.youtube.com/watch?v=C8oyEoa0bXM  e frenetiche cavalcate alla Dixie Dregs (eh, Steve Morse), tipo l’iniziale Pickin’N Grinnin’  http://www.youtube.com/watch?v=ThNhWMMTzUI o derive funky come nell’orgia wah-wah di Just Funk ,dalle parti della Band Of Gypsys se avesse fatto fusion, è soprattutto l’appassionato dei virtuosismi chitarristici che apprezzerà questo CD. Cast Away ha sempre quella allure spaziale à la Jimi, mista a certo jazz-rock anni ’70. Senza dimenticare, sempre per rimanere in tema, le libere improvvisazioni della Mahavishnu Orchestra o dei Return To Forever, senza il furore e l’inventiva di un Di Meola o di un McLaughlin, ma pur sempre con una rispettabile quota di virtuosismo.

Ovviamente per i non appassionati del genere, l’imperativo è stare alla larga, perché alla lunga, se non si ama questa musica, l’ascolto può essere impegnativo, anche se Gales e soci cercano di tenere i temi sonori i più vari possibili, come nella intensa e pirotecnica Way Down dove non si può fare a meno di ammirare un virtuoso di queste proporzioni, in grado di lavorare sulla propria chitarra in maniera notevole. Misunderstood, un “blues-rock meticcio”, basato sull’interscambio dei vari strumentisti e le melodie più romantiche di New Beginning,s dalle parti di certe cose di Gary Moore , (altro hendrixiano)ci riportano poi alla iper velocità di una EG Shuffle, di nuovo Johnson/Morse dipendente, per concludere con l’unica cover, una strana, ma affascinante rivisitazione prima acustica e poi elettrica del classico Amazing Grace. Cosa aggiungere? Per chitarrofili incalliti, stop!

Bruno Conti   

Vecchi E Nuovi Prog Rockers, Unitevi! Anteprima Flying Colors – Live In Europe

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Flying Colors – Live In Europe – 2CD DVD 3 LP o Blu-ray Provogue/Edel 15-10-2013

I Flying Colors sono un nuovo super gruppo di quel filone che discende direttamente dal prog rock classico degli anni ’70, hanno all’attivo un solo album di studio, omonimo, uscito nel 2012 e sono tra i migliori nel genere. Anche perché nelle loro fila ci sono alcuni dei musicisti migliori nel campo: due dal “passato”, Steve Morse alla chitarra e Dave LaRue al basso, dai leggendari Dixie Dregs, una band che univa il southern classico al filone hard-prog americano, che aveva anche elementi delle future jam bands, vi sfido ad ascoltare un brano come Blue Ocean che apre questo doppio CD dal vivo e non riscontrarvi delle analogie con il sound di una band come i Phish, estrema abilità ai propri strumenti, unita con un gusto per la improvvisazione, ma anche per la melodia, innato.

I due dal “presente” sono Neal Morse (per quanto strano non sono parenti, ma anche il sottoscritto non ha nulla a che vedere con l’ex calciatore della Roma), tastierista, ex Spock’s Beard e ora solista, nonché l’ottimo batterista Mike Portnoy, già con i Dream Theater. A fare da collante un cantante, Casey McPherson, che non ha il pedigree degli altri componenti la band, ma possiede una bella voce, in grado da spaziare dal prog alla Genesis o Kansas, all’hard rock melodico, ma anche a quello duro e anche una sensibilità pop, intesa nel senso più nobile del termine. Le linee sinuose della chitarra di Steve Morse sono il punto di forza del gruppo e il solista americano, secondo me, qui si trova molto più a suo agio di quanto non sia nei Deep Purple (di cui è chitarrista dal 1995).

Registrato a Tilburg, Olanda nel settembre del 2012, il concerto, oltre a riprendere brani dal loro unico album solista, ovviamente si appoggia anche al repertorio delle varie band da cui provengono i cinque. Shoulda Coulda Woulda, da quel disco, ha un sound più duro, che quasi ricorda il grunge dei Pearl Jam, anche per la voce vedderiana di McPherson, se non fosse per le tastiere onnipresenti di Morse (Neal) e l’indaffaratissimo Portnoy alla batteria. Love Is What I’m Waiting For ha quell’aura pop di cui vi dicevo, con armonie vocali quasi Beatlesiane del gruppo intero e l’ottimo McPherson che si rivela cantante dalle mille risorse vocali, molto bravo a dispetto della scarsa fama. Proprio dal gruppo da cui proveniva il bravo Casey, gli Indochine (ammetto, mai sentiti) arriva la prima cover della serata, Can’t Find A Way, con un attacco di chitarra di Morse che ricorda moltissimo i Pink Floyd di metà anni ’70, Shine On You Crazy Diamond e poi si rivela un ottimo brano di rock dalle melodie dolci ed accattivanti. The Storm prosegue in questa vena tra melodia e prog-rock con il gruppo che si divide tra l’indubbia abilità tecnica e un gusto per la melodia inconsueto nelle band più hard degli ultimi anni, ma che i vecchi gruppi rock avevano stampato nel DNA, aggiornato ai giorni nostri.

Nella versione di Odyssey, tratta dal capolavoro dei Dixie Dregs, What If, non c’è il violino di Allen Sloan, ma le tastiere di Neal Morse supportano alla grande la chitarra di Steve in quell’ibrido di jazz-rock, prog, southern e hard che era la musica della band, allora su Capricorn, ritmi vorticosi e continui cambi di tempo, qui riprodotti perfettamente dal vivo. Forever in a daze è un altro brano dal disco di debutto dei Flying Colors, un pezzo di rock più convenzionale, vagamente funky grazie al basso di LaRue, mentre la cover successiva è quantomeno inaspettata, leggendo il titolo mi era preparato ad ascoltare una versione prog-rock di Hallelujah,Cohen via Buckley, invece McPherson la canta, bene, nello stile di Jeff, accompagnato solo da una elettrica arpeggiata. Better Than Walking Away conclude, ancora su una nota melodica e riflessiva il primo CD.

Kayla con un abbrivio quasi classicheggiante ci riporta al sound progressive degli anni ’70 o ai Marillion dei primi dischi (che poi è la stessa roba), Fool in my heart è un poppettino piacevole ma innocuo, Spur Of The Moment è una breve improvvisazione al basso di Dave LaRue ed è seguito da Repentance un brano dei Dream Theater meno complessi e da June un pezzo tratto dal vecchio repertorio degli Spock’s Beard, tuttora in attività ma senza Neal Morse, che qui canta in un brano tra primi Yes e CSN, molto piacevole ed avvolgente anche per le belle armonie vocali. All Falls Down è uno dei brani più tirati, quasi frenetico, con chitarra e tastiere a guidare le danze. Everything Changes e la lunghissima Infinite Fire, il brano più improvvisato del set ci portano alla conclusione del concerto e del doppio CD (o DVD, se preferite,  che avrà anche un documentario di 45 minuti con estratti da altri concerti del tour). Se amate il rock progressivo, ma quello di buona qualità, qui c’è trippa per gatti! Esce il 15 ottobre.

Bruno Conti    

Finalmente Un Disco Come Si Deve! Deep Purple – Now What?!

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Deep Purple – Now What ?! – EarMusic CD/DVD

Uno degli eventi dell’anno, almeno per gli appassionati di quello che ultimamente viene definito Classic Rock, è indubbiamente il nuovo album di studio dei Deep Purple, a ben otto anni da Rapture Of The Deep.

Bisogna innanzitutto dire che c’era un po’ di scetticismo sulla reale capacità della storica band inglese di sfornare ancora canzoni degne di essere pubblicate, specie dopo che gli unici due lavori del nuovo secolo, Bananas e appunto Rapture Of The Deep, erano forse gli episodi più scadenti della loro discografia, insieme a The House Of Blue Light del 1986 (non considero l’album del 1990 Slaves And Masters, in quanto più che un brutto disco dei Deep Purple era un discreto disco dei Rainbow): i Purple stessi sembravano poco convinti, almeno fino ad un anno fa, di rientrare in studio e mettersi di nuovo in gioco, ed il titolo del nuovo CD, Now What?!, ironizza sulle richieste che venivano fatte in continuazione alla band circa i progetti futuri.

Le prime avvisaglie che le cose potevano andare per il verso giusto si sono avute quando è stato svelato il nome del produttore: Bob Ezrin è una specie di leggenda per certo tipo di musica, ha lavorato, tra gli altri, con Lou Reed, Alice Cooper, Kiss e Pink Floyd, ed è uno che difficilmente produce delle ciofeche. Ebbene, credeteci o no, Now What?! è un gran bel disco, ispirato, potente, con il classico Purple-sound che esce da ogni nota, dove quasi tutto funziona a meraviglia (un solo brano brutto su undici, dodici nell’immancabile edizione deluxe, è una bella media dopo 46 anni di carriera). Un disco non certo inferiore ai primi due del periodo post-Blackmore (Purpendicular ed Abandon), ma forse addirittura un gradino sopra: la cosa più stupefacente, dato che il manico dei cinque nel suonare e la perizia di Ezrin li davo per scontati, è la bontà delle canzoni, particolare fondamentale per fare un bel disco, ma abbastanza latitante negli ultimi lavori del gruppo.

Sul fatto che Ian Paice (unico membro originale rimasto, anche se per tutti i veri Purple sono quelli del Mark II) e Roger Glover fossero ancora due macigni non c’erano dubbi, come non ce n’erano sulla bravura e sulla tecnica di Steve Morse (anche se per me il chitarrista dei Deep Purple rimarrà sempre Blackmore), mentre a stupire è la forma di Ian Gillan, anche se tirate alla Child In Time non se le può più permettere da anni, e soprattutto il tastierista Don Airey, sostituto di Jon Lord (a cui il disco è dedicato) dal 2002. Si sa che Airey non è un pivellino, ha suonato con mezzo mondo (Whitesnake, Black Sabbath, Rainbow, Jethro Tull, iniziando negli Hammer con Cozy Powell e nei Colosseum II), ma che riuscisse a non far rimpiangere Lord non pensavo: il suo organo è il protagonista assoluto di quasi tutti i brani, dando al disco un sapore classico e deliziosamente retrò, come se la scomparsa di Lord avvenuta lo scorso anno lo avesse ispirato in maniera decisiva.

Che le cose siano cambiate in meglio lo si intuisce dalle prime note di A Simple Song: intro di grande atmosfera a base di organo, seguito da un assolo di chitarra molto melodioso, poi arriva Gillan ed inizia a cantare in maniera chiara, sillabando le parole; una pausa ed il brano esplode, diventando una rock song tipica (con Airey che inizia a fare i numeri), per terminare ancora lenta, come era iniziata. Peccato che arrivi subito Weirdistan a rovinare tutto: è l’unico brano brutto di cui parlavo prima, una canzone confusa, priva di una melodia vera e propria, nel quale l’impegno dei cinque non basta; meglio la lunga Out Of Hand, che richiama da vicino il classico suono anni settanta, un po’ di autocitazione non fa mai male e comunque dai Purple questo ci si aspetta (Morse qua fa sentire di sapere una cosa o due in fatto di chitarra). Hell To Pay è un ottimo rock’n’roll, diretto, solido, immediato, con Morse ancora protagonista con un assolo formidabile e blackmoriano (ed Airey che, sfidato a duello, risponde per le rime), mentre Body Line è un rock blues tosto e grintoso, con Gillan lucido ed il gruppo che lo segue a memoria: il disco cresce di brano in brano, e Weirdistan è solo un ricordo.

Above And Beyond inizia con un mood cupo, con Don che prosegue la sua eccellente prestazione, Gillan entra solo dopo un paio di minuti, ma non fatica a mettersi alla pari con gli altri: il brano ha quasi accenti folk nella melodia, anche se l’accompagnamento è 100% Purple. Blood From A Stone è un lento di gran classe, notturno e bluesato, un brano atipico ma riuscito, cantato da Ian in maniera insinuante e con Steve che schitarra alla grande; un altro lungo assolo di Morse introduce Uncommon Man, un’altra rock song di grande impatto, anche se qui l’interpretazione di Gillan è forse un po’ piatta. La solida Apréz Vous sembra uscita dalle sessions di Fireball, con uno splendido duello centrale chitarra-organo, mentre l’orecchiabile All The Time In The World è quasi radio friendly (almeno per i loro standard), una delle più gradevoli del CD.

L’album si chiude con la maestosa ed inquietante Vincent Price e, nell’edizione deluxe, con It’ll Be Me, una cover addirittura di un brano di Jack Clement, reso con uno scintillante arrangiamento rock’n’roll. Nel DVD troviamo un’intervista di venti minuti ai membri della band e tre brani audio: un remix di All The Time In The World e due versioni live recenti di Perfect Strangers e Rapture Of The Deep.

Un ottimo e gradito ritorno: ora aspettiamo Giugno per vedere come sapranno rispondere i Black Sabbath.

Marco Verdi

“Dischi Virtuali”! Tommy Bolin & Friends – Great Gypsy Soul

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Tommy Bolin And Friends – Great Gypsy Soul – Samson Records

La moda del duetto virtuale o del “disco virtuale” si può far risalire alla famosa Unforgettable del 1991, il brano in cui la voce di Nat King Cole fu inserita in modo elettronico su una base con voce già registrata dalla figlia Natalie. Poi nel 1995 fu perfezionata per il brano dei Beatles Free As A Bird dove un demo voce e piano di John Lennon venne completato dai “Threetles” per il primo volume della serie Anthology e nel corso degli anni è diventata una sorta di abitudine, da Celine Dion con Sinatra fino ad arrivare a Kenny G che duetta con Armstrong in What A Wonderful World (ho ancora i brividi, ma non di piacere!). In questa ultima decade la pratica è andata scemando ma non dimentichiamo che questo sistema di registrazione è quasi una prassi tra musicisti viventi: lo scambio di nastri e registrazioni nell’era del digitale, quando persone che spesso vivono in diverse città, stati o anche continenti, e per vari motivi non si possono incontrare, è uno dei metodi quasi più comuni utilizzati per gli album di duetti o i Tributi.

In questo caso, essendo Tommy Bolin scomparso nel lontano 1976, è ovvio che questo poteva essere l’unico sistema di registrazione. A dare una patina di autorevolezza al progetto ha provveduto la presenza di Warren Haynes che insieme a Greg Hampton ha curato la produzione di questo Great Gypsy Soul per la Samson Records e ha anche scritto le note del libretto. In effetti anche se si dice che sono brani “incompiuti” sembra perlopiù trattarsi di outtakes, versioni diverse di pezzi già apparsi originariamente in Teaser (tutti meno uno), che la stessa etichetta aveva pubblicato lo scorso anno in edizione Deluxe e, volendo, di Bolin, nel corso degli anni, sono uscite varie raccolte di inediti e rarità a partire dal cofanetto doppio The Ultimate negli anni ’90 poi ampliato a triplo nel 2008 con l’aggiunta della parola Redux e, sempre lo stesso anno, i due volumi di outtakes Whips And Roses. Come saprete la carriera del musicista americano non è stata particolarmente lunga né gloriosa, quando è morto aveva 25 anni, e aveva suonato con gli Zephyr, poi nella James Gang al posto di Joe Walsh e al momento della morte suonava con i Deep Purple e in contemporanea a Come Taste The Band era uscito Teaser. Ma la sua fama, soprattutto tra gli appassionati di chitarra, è legata alla partecipazione a Spectrum di Billy Cobham, dove i furiosi duetti con la batteria del titolare del disco (e con il synth di Jan Hammer) avevano contribuito alla riuscita di quel disco, che ancora oggi è uno dei migliori esempi del cosiddetto jazz-rock.

Anche Teaser era una sorta di Spectrum più blando, con l’aggiunta della voce, tra funky, hard rock, blues, jazz con la partecipazione di musicisti come Jan Hammer, David Foster, Jeff Porcaro, David Sanborn, Narada Michael Walden, Glenn Hughes e molti altri. Questo Great Gypsy Soul, brano dopo brano, alla voce e alla chitarra di Bolin, aggiunge una lista di “ospiti” impressionante: da Peter Frampton nel funky-rock dell’iniziale The Grind cantata dallo stesso Tommy, che detto per inciso non aveva un gran voce ma compensava in abbondanza con la perizia alla chitarra. In Teaser lo sentiamo duettare con l’ottimo Warren Haynes e in Dreamer, uno dei brani più belli del disco, una ballata dove la voce è quella di Myles Kennedy degli Alter Bridge, l’altra chitarra è di Nels Cline dei Wilco, uno “strano” terzetto ma funziona. Per Savannah Woman, tra jazz e latino, vagamente Santaneggiante, il duetto virtuale è con John Scofield mentre per Smooth Fandango uno dei brani migliori che ricorda i ritmi frenetici di Spectrum si aggiunge l’ottimo Derek Trucks. Nella reggata e francamente irritante People People ci sono Gordie Johnson con i canadesi Big Sugar, meglio il rock di Wild Dog anche se c’è l’Aerosmith “sbagliato” Brad Whitford.

Homeward Strut è un funkaccio strumentale molto anni ‘70 con Steve Lukather e le chitarre viaggiano. Sugar Shack con Glenn Hughes e la slide di Sonny Landreth non so da dove arriva (non era su Teaser) ma è un solido blues-rock, Crazed Fandango è l’occasione per pirotecnici scambi strumentali con Steve Morse e il sax di Sanborn. La conclusione è affidata alla lunga e scintillante Lotus con Glenn Hughes che si porta l’amico Joe Bonamassa per duettare con Nels Cline. Ovviamente si tratta di un disco per fans e completisti di Bolin e/o della chitarra nelle sue varie forme, non male e credibile nel risultato finale. Solo per il mercato americano, in esclusiva su Amazon.com ne è uscita una versione doppia Deluxe con quattro lunghe jam dove i vari partecipanti si “accoppiano” strumentalmente tra loro!

Bruno Conti

Un “Fenomeno” Della Chitarra! Johnny Hiland -All Fired Up

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Johnny Hiland – All Fired Up – Shrapnel/Provogue

Vi risparmio la battuta sul “grosso” talento (tanto l’ho già fatta) su questo pacioso e robusto ragazzone americano che è considerato uno dei nuovi talenti della chitarra negli Stati Uniti. Scoperto da Steve Vai nel 2004 che gli ha anche pubblicato il primo album per la sua Flavored Nations lo stesso anno (ma già da metà anni ’90 aveva suonato come session-man con molti artisti country come Toby Keith, Ricky Skaggs e Hank Williams III), nel 2008 ha pubblicato un disco autogestito Loud And Proud ed ora approda alla Shrapnel/Provogue di Mike Varney che produce questo All Fired Up. Evidentemente i “metallari” ma virtuosi (nel senso dello strumento) hanno una predilezione per questo chitarrista, cieco dalla nascita, che è un iradiddio al suo strumento, una Fender Telecaster (che lo sponsorizza da un po’ di anni, caso raro per un musicista senza un contratto con una grande casa) dove è in grado di creare vere cascate di note in uno stile che sta fra country, bluegrass elettrico (se esiste) ma anche tanto rock e blues https://www.youtube.com/watch?v=AxnoyrS2TDc .

Johnny-Hiland-Guitar-Lessons

Quando ho messo nel lettore il dischetto ed è partito il primo brano mi è venuto uno scioppone, vuoi vedere che ho inserito Hiding di Albert Lee o qualche disco degli Hellecasters per sbaglio? No, no è proprio lui, che fa tutto da solo (con un consistente aiuto dal bassista Stuart Hamm e del batterista Jeremy Colson, e nel primo disco c’era Billy Sheehan al basso) con vere e proprie cascate di note che si susseguono velocissime, una tecnica mostruosa che non ha nulla da invidiare, nel proprio ambito, a un Danny Gatton o a un Roy Buchanan, oltre al già citato Albert Lee https://www.youtube.com/watch?v=Y0n0ZEVc4lk . Anche quando si cimenta in pezzi decisamente country come la deliziosa Bakersfield Bound con un sound che vira quasi verso quello di una pedal steel, gli assoli di Hiland sono una vera miniera di trovate e ricchi di inventiva. Forse mi sono dimenticato di dirvi che è tutto rigorosamente strumentale, ma penso che si intuisse. Non mancano momenti più lirici e melodici come Forever Love dove anche il tastierista Jesse Bradman si ritaglia un suo spazio.

Johnny-Hiland-Hero-Pix_Photo-by-Bob-Seaman_WEB

Six String Swing come da titolo si avvicina a tematiche più jazzate sempre con la chitarra di Hiland in un perenne overdrive tecnico mentre la conclusiva Bluesberry Jam dai tempi decisamente rock darebbe dei punti anche allo Steve Morse più inventivo dei tempi dei Dixie Dregs, un vero fulmine di guerra, o meglio di note https://www.youtube.com/watch?v=2I625pTjii4 . E non contento di tutto ciò il nostro amico nelle due bonus vocal tracks finali si rivela anche un ottimo cantante country nelle scintillanti Breaker, Breaker 1-9 e Party Time. Se le scrive, se le suona e volendo, se le canta. Un vero mostro di tecnica, magari soprattutto per appassionati della chitarra elettrica e il giudizio molto positivo è anche mirato in quel senso ma molto piacevole da ascoltare per tutti.

Una bella sorpresa.

Bruno Conti

Ma esistono ancora? Take 1: Kansas -There’s Know Place Like Home

kansas there's know place.jpgNuovo anno, inauguriamo un’altra rubrica: ero indeciso con “Ancora Tu”, ma poi ho optato per questo Ma esistono ancora, devo decidere se con punto interrogativo o punto esclamativo visto che il significato cambia e di parecchio.

Per l’occasione optiamo per la domanda: la risposta ovviamente sarà sempre un sonoro Sì con significative furtive toccatine degli artisti interessati, ma non è questo il punto, ovviamente.

Intanto vi giuro che non parleremo di Bay City Rollers, A Flock of Seagulls e di tutti i gruppi e solisti che il mio quasi omonimo Carlo Conti invita regolarmente nelle sue trasmissioni.

Ma veniamo a bomba: questo dovrebbe essere il settimo (tra CD e DVD) album dal vivo dei Kansas, gloriosa formazione rock americana che proprio quest’anno ha festeggiato il 35° anniversario (anche se sotto altre forme esistevano da qualche anno prima, questa è la formazione classica). Ci sono, naturalmente, il leader del gruppo, Steve Walsh, il batterista Phil Ehart, il bassista Billy Greer, il violinista David Ragsdale e il chitarrista Richard Williams (gli ultimi quattro, per non aspettare i comodi del leader, hanno formato una band collaterale, Native Window che ha pubblicato un omonimo esordio nell’estate del 2009), non mancano, visto l’aspetto commemorativo del concerto Kerry Livgren, tastierista e chitarrista della formazione originale e Steve Morse, che ha militato a più riprese nel gruppo, in prestito dai Deep Purple, suo attuale gruppo. Risultato finale?

Dopo un primo ascolto gli avrei sparato, soprattutto per le parti cantate di Walsh che in alcuni momenti sono veramente imbarazzanti, poi agli ascolti successivi ho un po’ rivisto la mia posizione. Non siamo di fronte ad un capolavoro ma c’è di peggio: i primi cinque album e il live Two for the Show rimangono i dischi da avere (se volete e amate il genere!), prog-rock, AOR, melodic rock, i Genesis americani con un violino in più e un Peter Gabriel in meno, varie sono le definizioni che li hanno contraddistinti.

Questo Live registrato in quel di Topeka (la località ha scatenato anche commenti ilari, ma loro da lì vengono, Topeka, Kansas, capito il perchè del nome, astuti) è uscito in 5 (cinque) versioni diverse: per il mercato americano DVD oppure Cd singolo con alcuni brani in meno, in Europa Cd doppio, 2cd + dvd, dvd, oppure in entrambi i continenti anche blu-ray (in effetti farebbe sei!).

Brani salienti? Point of Know Return (è un vizio con questi titoli), la lunga Song For America che inizia come una outtake da Selling England dei Genesis e finisce come un brano dei primi E,L&P, tutto, però meglio di come sembra sulla carta ( o se preferite in un post), i classiconi Dust On The Wind e Carry On Wayward Son, che secondo alcuni commenti che ho letto in rete non avrebbero dovuto suonare per svecchiare il repertorio. A parte il fatto che avrebbero rischiato il linciaggio, sarebbe come se Springsteen, per partito preso, non suonasse Born to Run, o gli U2 One. Oltre a tutto non avendo registrato un album nuovo dal lontano 2000 e quelli precedenti erano del 1995 e 1988 non è che abbiamo un repertorio nuovo immane. Per i fans c’è comunque una sorta di live jam inedita, registrata nel pomeriggio delle prove, Down the road, non male devo dire.

Che altro? Ah, un piccolo particolare, il gruppo è accompagnato da una orchestra di archi, più o meno presente nei vari brani ma che sicuramente caratterizza il live in questione.

Interrogativo o esclamativo? Non so, devo decidere, giudicate voi

Per la serie strano ma vero, il tutto pubblicato anche in Italia.

Bruno Conti