Per Amanti Dei “Bravi Chitarristi”, Ex Ragazzo Prodigio! Eric Steckel – Black Gold

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Eric Steckel – Black Gold – Eric Steckel Music

Rispetto all’imberbe ragazzino che nel 2002 esordiva a soli 11 anni con l’album A Few Degrees Warmer, ora, a giudicare dalla foto di copertina di Black Gold, Eric Steckel è un giovane dal lungo capello, con barba, sempre fulmine di guerra con la sua chitarra, non più legato ad un blues deferente verso i dettami del passato, ma dal sound più vicino al rock https://www.youtube.com/watch?v=iFtL5CHC8ms . Però anche lui ha sempre dovuto fare i conti con il mercato discografico: i suoi dischi sono comunque autoprodotti, con una distribuzione difficoltosa (in effetti questo nuovo Black Gold risulta essere uscito da circa un anno, ma pochi se ne erano accorti), registrati al risparmio. Nel nuovo album Steckel, oltre alla solista, suona anche basso e tastiere, lasciando al co-produttore dell’album, Maikel Roethof, il ruolo di batterista. Se il nome non vi sembra americano non vi sbagliate, viene da Amsterdam, dove il disco è stato in parte registrato, meno alcune parti realizzate a Nashville. Rispetto al precedente Dismantle The Sun (uscito quasi quatto anni fa, con un EP digitale ad interrompere la lunga pausa) http://discoclub.myblog.it/2013/02/12/ex-bambini-prodigio-crescono-eric-steckel-dismantle-the-sun/  mi sembra che il nuovo album sia di un gradino inferiore, sempre molto ricco e fluente nell’ambito chitarristico, ma meno vario e più orientato verso un rock più duro rispetto al passato.

Diciamo che Steckel continua a seguire le tracce di un Bonamassa, ma mentre negli ultimi anni il chitarrista newyorkese ha affinato il suo stile, andando a pescare ancora di più anche nel blues e nel soul, l’ancora giovane Eric (in fondo viaggia tra i 25 e i 26 anni) preferisce privilegiare un suono più vicino all’heavy rock targato anni ’70, come evidenzia la traccia di apertura Holding On, molto legata a quello stile, anche se gli interventi di chitarre e tastiere, i continui cambi di tempo e la voce sicura del nostro, rendono il tutto comunque molto piacevole, e poi il suono della chitarra è brillante e ricco di grande tecnica , come è sempre stato per Steckel. Juke Joint inserisce qualche elemento southern, ma privilegia un suono troppo leggerino; anche El Camino può ricordare le band sudiste più rock, tipo Blackfoot o Molly Hatchet, anche se il lavoro di slide di questo strumentale è comunque apprezzabile. Fugitive ricorda addirittura certo AOR americano anni ’70 o gente come Nugent, Journey, Bad Company (non i primi), con My Darkest Hour, che nei suoi quasi 6 minuti, grazie ad un arrangiamento più complesso che evidenzia anche l’uso dell’organo, mi sembra migliore, con interessanti aperture melodiche e il solito lavoro fluente della chitarra, però sempre soggetta a quel sound a tratti troppo “leggerino”.

Però Speed Of Light è di nuovo quasi lite metal, e neppure del migliore, mentre Texas 1983 è una bella improvvisazione strumentale di stampo Vaughan/Hendrix, peccato sia troppo breve https://www.youtube.com/watch?v=NJ_c2Jwn610 . Outta My Mind, un funky-blues più vicino ai lavori passati di Steckel e What It Means, una sorta di ballata d’atmosfera ha tratti dell’antico splendore, con un lirico solo posto in conclusione, ma Rocket Fuel con il suo riffing grasso e “acrobatico” quasi alla Van Halen, è abbastanza scontata e ripetitiva. L’ultimo brano è l’unica cover del disco, If I Ain’t Got You di tale Alicia J. Augello-Cook, se il nome vi dice, non posso che confermare, è proprio un pezzo di Alicia Keys, tratto dal suo secondo disco, The Diary Of A.K,, ed è tra le cose migliori del disco, una ballata soul, cantata veramente bene e nobilitata da un finissimo solo di Eric Steckel che conferma, quando vuole, il suo gusto e la sua tecnica https://www.youtube.com/watch?v=Vy3pk6QNN1U . Luci ed ombre, ma gli amanti dei “bravi chitarristi” troveranno motivi per apprezzare.

Bruno Conti  

Ma Che Musica Maestro! Buddy Guy – I’ll Play The Blues For You…Live

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Buddy Guy – I’ll Play The Blues For You…Live – Klondike Records 

Credo che tutti sappiamo chi sia Buddy Guy, forse l’ultimo dei grandi “originali” bluesmen del periodo d’oro ancora in vita, il chitarrista elettrico per eccellenza, uno che ha suonato a lungo, prima con Muddy Waters e poi con Junior Wells, ma anche con una carriera solista altrettanto lunga, pur se non particolarmente prolifica, avvenuta in un certo senso a periodi, prima quello a cavallo fine anni ’60,  primi ’70, con i bellissimi album per la Vanguard, poi il “ritorno” ad inizio anni ’80, con i dischi targati Alligator, e l’ultima fase, tutt’ora in corso, iniziata con Damn Right, I’ve Got The Blues, uscito nel 1991 per la Silvertone/BMG e che prosegue a tutt’oggi, con lo splendido Born To Play Guitar, recente vincitore del Grammy come miglior disco Blues nel 2016 http://discoclub.myblog.it/2015/08/03/lultimo-dei-chitarristi-blues-gran-forma-buddy-guy-born-to-play-guitar/ .

E il nostro è veramente nato per suonare la chitarra: nel corso degli anni, Jeff Beck, Eric Clapton, Jimmy Page e Jimi Hendrix, i quattro grandissimi dello strumento, ma poi anche Stevie Ray Vaughan, hanno ammesso l’influenza che il grande musicista di Lettsworth, Louisiana, ma da sempre cittadino onorario di Chicago, ha esercitato sulla loro formazione come chitarristi. Keith Richards e gli Stones stravedono per lui, nel 2012 al Kennedy Center gli hanno dato un premio alla carriera, in una serata in cui Jeff Beck e Beth Hart hanno incendiato la platea dei presenti (tra cui i Led Zeppelin al completo) con una versione memorabile di I’d Rather Go Blind, nel 2014 è stato “introdotto” nella Hall Of Fame, quindi i riconoscimenti, per una volta e per fortuna, non gli sono mancati da vivo, ma quelli a cui tiene di più sono quelli che raccoglie sui palchi in giro per il mondo, con una serie di concerti che sono sempre delle feste memorabili per gli amanti della chitarra.

Il suo stile spavaldo, quasi acido, con quel sound lancinante, forte e tenero, ma anche aggressivo,  è il prototipo del blues elettrico, Buddy Guy è anche un grande entertainer, uno showman con “trucchetti” alla chitarra che qualcosa hanno insegnato anche a Jimi e a tutti gli altri citati, ma è anche un grande tecnico dello strumento e un divulgatore, in grado di suonare il repertorio pure di molti colleghi, contemporanei e non, con cui ha condiviso lunghi tratti di vita.

 

Prendete questo concerto dal vivo, il solito broadcast “ufficiale”, una registrazione del 9 gennaio 1992, dallo Sting, New Britain nel Connecticut, Guy ha appena pubblicato quel Damn Right… citato prima e delizia il pubblico presente e quello sintonizzato alla radio con un concerto dove si apprezzano tutte le sue indubbie qualità: con la sua Stratocaster in overdrive infiamma il pubblico presente con una serie di brani dove gli assolo di chitarra si sprecano, ma anche tutto il contorno blues e rock è di primissima scelta. Il suono è buono, senza essere perfetto, da bootleg, ma di quelli ascoltabili, le canzoni però sono formidabili: un’oretta di musica dove Guy sciorina un repertorio che definire eclettico è quasi fargli un torto, da una Mary Had A Little Lamb, uno dei suoi rari successi per la Chess, a lungo nel repertorio di SRV, e qui in una versione scintillante, con la chitarra che scorre con una fluidità assoluta e quella voce aspra e vissuta che canta il blues come pochi hanno fatto, prima e dopo di lui.

 

A seguire una I Just Wanna Make Love To You che parte funky e diventa una fucilata rock-blues, prima di trasformarsi, sotto la forma di medley (un modo di proporre i brani tipico del Guy performer live) in You Can’t Fool A Fool, con Buddy che fa cantare tutto il pubblico presente, con il brano che diventa quasi jazzato grazie ad un pregevole assolo di piano, senza soluzione di continuità ci troviamo scaraventati nella leggendaria blues ballad I’ll Play The Blues For You, uno degli slow più belli del repertorio di Albert King, dove Guy accarezza con libidine la sua chitarra, per poi lanciarsi in un altro medley memorabile, con il trittico da sogno della ciondolante Everything’s Gonna Be Alright, l’omaggio a B.B. King con accenni di Rock Me Baby e Watch Yourself, poi è la volta del suo “allievo” Jimi Hendrix, con l’intro a tutto wah-wah di Voodoo Chile, che poi diventa l’inchino al “maestro” Muddy Waters di una poderosa Hoochie Coochie Man, un accenno a Cold Shot di Vaughan e poi è la volta di Strange Brew dei Cream di Eric Clapton, proposta in un medley con Mustang Sally, il pezzo di Wilson Pickett, l’unico tratto dall’album in teoria in promozione, con Guy che “addestra” il pubblico e i suoi musicisti come un domatore di tigri, oltre dieci minuti di pura magia sonora che diventano più di 15 minuti in una orgia di R&B e R&R per l’accoppiata mitica di Knock On Wood/Johnny Be Goode. Ma che musica Maestro!

Bruno Conti

Forse Un Po’ Estrema Come Strategia Di Marketing! – Se Ne E’ Andato Anche David Bowie 1947-2016!

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E’ passata meno di una settimana dalla mia recensione per questo blog dell’ultimo disco di David Bowie, Blackstar http://discoclub.myblog.it/tag/david-bowie/ , che devo tornare ad occuparmi del “Duca Bianco”, ma stavolta ne avrei fatto volentieri a meno: è infatti giunta stamattina la notizia, come il classico fulmine a ciel sereno, della sua scomparsa, in pace come scrive il suo entourage su Facebook, dopo una battaglia di 18 mesi contro il cancro, una malattia tenuta nascosta fino all’ultimo (ma David, specie ultimamente, aveva fatto della privacy quasi una seconda arte), all’età di 69 anni compiuti da tre giorni.

Bowie (nato David Robert Jones) ha avuto, specie negli anni settanta, una grande importanza sia a livello musicale che soprattutto di immagine, reinventandosi in continuazione e spiazzando più volte pubblico e critica: dopo gli esordi folk-rock londinesi, nei quali palesava l’influenza di Bob Dylan (da lui definito “come una mamma” ed omaggiato nell’album Hunky Dory con Song For Bob Dylan), divenne uno degli artisti di punta del movimento glam con la creazione del suo alter ego Ziggy Stardust e l’album The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars, iniziando una serie di trasformazioni a livello di look che lo affermarono come uno degli artisti più avanti nella gestione della propria immagine (ben prima dei Kiss, tanto per fare un esempio), oltre a rivelare al mondo un interprete dallo spiccato gusto per la teatralità, che lo porteranno in seguito a diventare anche un apprezzato attore cinematografico.

Nel prosieguo della decade, Bowie lascerà presto il mondo del glam, passando con disinvoltura dal pop-soul e funk (gli album Diamond Dogs e Young Americans), sfiorando il krautrock con Station To Station (dove creerà l’algido personaggio del Thin White Duke) e soprattutto con la trilogia berlinese di Low, Heroes e Lodger, realizzata in collaborazione con Brian Eno e Robert Fripp e che gli diede l’immortalità con la title track del secondo dei tre album.

Gli anni ottanta saranno contraddistinti soprattutto dal successo di Let’s Dance (album e singolo), dove alla chitarra troviamo nientemeno che Stevie Ray Vaughan, diversi duetti che voleranno alto nelle hit parade (tra cui Under Pressure coi Queen e la cover di Dancing In The Streets con Mick Jagger, eseguita al Live Aid in versione video), oltre che la bellissima Absolute Beginners (più dylaniana che mai), colonna sonora del film omonimo.

Negli anni novanta, dopo la parentesi hard rock con i Tin Machine (che personalmente ho sempre trovato un po’ indigesta), Bowie sperimenterà sonorità elettroniche, hip-hop e drum’n’bass con l’elegante Black Tie White Noise ed i terribili (per me, ma per qualcuno sono capolavori) Outside e Earthling, tornando finalmente ad un sound più classico e rassicurante nel nuovo millennio con Hours (del 1999), Heathen (2002) e Reality (2003), fino ai dieci anni di silenzio totale  interrotti nel 2013 dal più che buono The Next Day.

Personaggio di grande carisma e dalla personalità decisamente sfaccettata, è sempre stato restio alle classificazioni ed alle banalità, Bowie ha passato tutta la carriera a sperimentare diversi stili, dando molto raramente al suo pubblico quello che si aspettava (e Blackstar è solo l’ultimo esempio in tal senso): per il sottoscritto una discografia bowiana consigliata per neofiti potrebbe essere composta dai seguenti album: Space Oddity, Hunky Dory, Ziggy Stardust, Young Americans, Heroes, Let’s Dance e The Next Day (ma anche Aladdin Sane, Scary Monsters e Tonight andrebbero considerati). Oppure il bellissimo box Five Years 1969-1973 (pubblicato pochi mesi fa), che comprende tutti i dischi di David del primo periodo, compresi live, colonne sonore, singoli e rarità, che però ha il difetto di non costare poco (anche l’antologia tripla del 2014 Nothing Has Changed è perfetta per chi non dovesse conoscere il nostro).

david bowie five years

Voglio chiudere ricordando Bowie con le sue due canzoni che forse preferisco, appartenenti entrambe al periodo “spaziale”.

 

Riposa in Pace, vecchio Ziggy, e scusa per il titolo del post (ma da ironico english man quale eri, so che non ti sei offeso).

Marco Verdi

*NDB Visto che il buon David amava molto sia le stelle che lo spazio, direi che come omaggio non poteva mancare anche la canzone che lo ha lanciato negli spazi profondi, dove sta per ritornare.

Eccone Un Altro! Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Rude Mood

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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Rude Mood – FMIC 

I giudizi continuano ad essere positivi, però è già il quarto live broadcast di Stevie Ray Vaughan che esce negli ultimi mesi, solita etichetta di fantasia e via pedalare. Però diciamo che finché la qualità rimane buona i fans del chitarrista texano possono fare un altro sacrificio e in questo caso ci siamo. Il concerto è registrato il 30 giugno del 1987 a Philadelphia al Mann Music Center e trasmesso ai tempi dall’emittente locale WMMR: siamo ancora nel tour per supportare il doppio ufficiale Alive, come nel caso del recente doppio Live…Texas 1987 http://discoclub.myblog.it/2015/11/13/se-fosse-anche-inciso-bene-sarebbe-perfetto-2-stevie-ray-vaughan-double-trouble-livetexas-87/ , con cui ha in comune buona parte del repertorio della serata, in una differente sequenza e con Rude Mood, l’ultimo bis, che nel concerto texano non c’era.

Anche in questo caso alcuni brani, tre per la precisione, erano presenti nel cofanetto ufficiale della Sony SRV che raccoglie parecchio materiale live inciso da Vaughan e mai pubblicato nella sua interezza. Anche questo CD non riporta tutto il concerto, ma solo la parte che è andata in onda alla radio e comunque come gli altri usciti ha i suoi momenti di notevole interesse: se la registrazione al Bumbershoot Arts Festival dell’85 aveva la particolarità della partecipazione di Bonnie Raitt nei due brani conclusivi http://discoclub.myblog.it/2015/11/07/preservato-i-posteri-stevie-ray-vaughan-featuring-bonnie-raitt-bumbershoot-arts-festival-1985/ , quello in Texas il fatto di essere il concerto completo, questo Rude Mood ha alcuni versioni di classici di SRV notevoli, oltre ad una eccellente qualità sonora, forse la migliore di quelli pubblicati finora. Il solito travolgente strumentale Scuttle Buttin’ posto in apertura, l’immancabile e vorticosa orgia di wah-wah Say what, una poderosa Look At Litte Sister, tutto l’armamentario è schierato in gran pompa con Vaughan e i compari dei Double Trouble che paiono in gran serata, concentrati e vogliosi di improvvisare come rare volte è dato di ascoltare.

Mary Had A Little Lamb è super funky e lo slow blues Ain’t Gone ‘N’Give Up On Love in una delle più intense versioni mai sentite con il mancino texano quasi trasfigurato dal suo rapporto con la chitarra solista. Ma tutto il concerto è ancora una volta fantastico, a conferma del fatto che Stevie Ray Vaughan è stato uno dei più grandi performer live della storia, quando i suoi problemi con droga e alcol non collidevano con la sua voglia di fare musica. Musica che scorre fluida e travolgente anche nella super hendrixiana Couldn’t Stand The Weather e in una versione monstre, oltre 14 minuti, di Life Without You, una delle vette dell’arte di improvvisare il blues del nostro, una slow ballad in crescendo, liquida e limpida come l’acqua, con la chitarra che raggiunge vette di eccellenza assoluta. Il trittico finale, Come On, Love Struck Baby e la citata Rude Mood conclude in gloria una serata per certi versi memorabile. Hendrix è stato il Maestro assoluto della chitarra elettrica (con Clapton, Page e Beck quasi suoi pari), Stevie Ray Vaughan uno dei suoi discepoli più grandi.

Bruno Conti

Recuperi (E Sorprese) Di Fine Anno 1. Aiuto! Il Mio Lettore Va A Fuoco! The Sonics – This Is The Sonics

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The Sonics – This Is The Sonics – Revox CD

Quando è uscito questo disco l’ho preso più che altro per curiosità, senza immaginare che mi sarei ritrovato a fine anno ad inserirlo tra i miei dieci preferiti del 2015. I Sonics, storica garage band proveniente da Tacoma, stato di Washington, erano inattivi discograficamente addirittura dal 1967 (il peraltro rinnegato Introducing The Sonics, in quanto Sinderella del 1980 era composto da rifacimenti di alcune loro canzoni, ma nulla di nuovo), e gli anni diventano 49 se si conta dal loro secondo LP, Boom, che seguiva di un anno il bombastico esordio di Here Are The Sonics. I Sonics sono il prototipo della band di culto per antonomasia, di scarso (per non dire nullo) successo, ma di grande influenza per le generazioni di musicisti a venire: il loro suono, un rock’n’roll grezzo, potente ed aggressivo, viene considerato il progenitore del punk degli anni settanta e del grunge dei novanta, ed i due dischi del biennio 1965-1966 sono la punta di diamante del movimento garage sotterraneo, insieme agli album di band quali The Wailers, The Kingsmen e Paul Revere & The Raiders (questi ultimi però il successo lo conobbero eccome), anticipando di diversi anni l’effetto della storica compilation Nuggets (dalla quale erano peraltro assenti, ma furono inclusi con la loro Strychnine nella riedizione espansa in box del 1998).

I musicisti che hanno più o meno fatto riferimento negli anni al gruppo di Tacoma sono molteplici: i nomi più noti sono quelli dei Nirvana, White Stripes, Dream Syndicate, Flaming Lips e perfino Bruce Springsteen, che ha più volte proposto dal vivo la cover di Have Love, Will Travel di Richard Berry nell’arrangiamento proprio dei Sonics. This Is The Sonics non è però un disco di settantenni bolsi e patetici che si sono rimessi insieme per ricordare i vecchi tempi, ma una vera e propria bomba sonora che mi ha lasciato senza fiato, una scarica elettrica che attraversa le dodici canzoni del CD con la stessa forza di una scossa tellurica. I membri originali sono tre su cinque (Gerry Roslie, voce, piano e organo, Larry Parypa, chitarra solista e voce, Rob Lind, sassofono, armonica e voce), coadiuvati da Freddie Dennis (Kingsmen) al basso e voce e da Dusty Watson (Dick Dale Band) alla batteria, e con questo disco ci dimostrano che nonostante l’età sono in grado di dare dei punti (e tanti) anche a gente di due o tre generazioni successive.

Ma il disco, che si divide tra cover e brani originali, non è solo musica suonata a volume alto, ma anche con grande energia e feeling, un muro sonoro dominato dalla chitarra di Parypa che mena fendenti e riff a destra e a manca e dal sassofono impazzito di Lind, con una sezione ritmica che definire rocciosa è poco, un rock’n’roll quasi primordiale, con elementi blues ed errebi che colorano maggiormente il tutto. Fare una disamina dettagliata brano per brano in questo caso è quasi inutile, in quanto tutto il disco è una fucilata dal primo all’ultimo pezzo, a partire dall’uno-due iniziale da k.o., con la cover di I Don’t Need No Doctor (Ray Charles), un rock-blues tirato allo spasimo che ricorda il suono del disco dello scorso anno di Roger Daltrey con Wilko Johnson (ma con un sound ancora più “primitivo”), e la devastante Be A Woman, suonata a ritmo indiavolato e con il ritornello letteralmente sparato in faccia dell’ascoltatore.

La grezza Bad Betty precede uno degli highlights del CD, cioè una cover incredibilmente energica di You Can’t Judge A Book By The Cover di Willie Dixon (però portata al successo da Bo Diddley), con il sax in evidenza, ed una The Hard Way che spazza via in un sol colpo l’originale dei Kinks (non certo gli ultimi arrivati). Tra le mie preferite ci sono anche il rock’n’roll suonato ai duecento all’ora Sugaree, la furiosa Look At Little Sister (Hank Ballard, peraltro rifatta mirabilmente negli anni ottanta da Steve Ray Vaughan), la roca Livin’ In Chaos (mi brucia la laringe solo ad ascoltarla) e le conclusive Save The Planet e Spend The Night, che mettono definitivamente al tappeto chiunque sia ancora in piedi a questo punto.

E’ da molto tempo che un disco non mi dava questa adrenalina: per me album rock’n’roll dell’anno.

Marco Verdi

Se Fosse Anche Inciso Bene Sarebbe Perfetto, 2! Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Live…Texas ’87

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Stevie Ray Vaughan & Double Trouble – Live…Texas ’87 2CD Rox Vox 

Un altro? Ebbene, pare di sì, ormai questi CD relativi a broadcast radiofonici paiono spuntare come funghi, e i concerti di Stevie Ray Vaughan sono tra i più gettonati da queste etichette fantasma. Comunque, finché dura, gli appassionati e i fans hanno di che gioire, soprattutto quando la qualità, musicale e in parte sonora, è di questo spessore. Prendiamo il dischetto, anzi i dischetti in questione: per prima cosa il concerto è completo, fatto abbastanza raro in queste (ri)pubblicazioni, la qualità sonora è buona, sia pure con un po’ di statica e soffio della trasmissione radiofonica, ma soprattutto il contenuto è veramente notevole. Siamo al 1° febbraio del 1987, Majestic Theatre di San Antonio, Texas, SRV quindi gioca in casa, è il tour relativo a Live/Alive, il doppio album ufficiale della sua discografia, pubblicato nel 1986 dalla Columbia, ma siamo nella seconda parte di quella tournée, il nostro amico sembra essersi liberato dai suoi problemi di dipendenza da alcol e droghe e suona in modo superbo, nettamente superiore al contenuto del doppio Columbia. In effetti il concerto, trasmesso dall’emittente texana KZEP-FM, è veramente fantastico: accompagnato dai soliti Double Trouble, Layton, Shannon e Wynans, Vaughan dà vita ad una delle migliori esibizioni che mi è capitato di sentire, sia da dischi ufficiali, come da bootleg, e probabilmente i due compact meriterebbero anche, in una ipotetica valutazione, una mezza stelletta in più, se fossero incisi meglio, per quanto…

Dopo l’introduzione dell’emittente radiofonica che racconta brevemente il ritorno del figliol prodigo a casa sua e la presentazione sul palco dal MC della serata, ci tuffiamo a capofitto in una versione vorticosa dello strumentale Scuttle Buttin’, seguita dall’orgia wah-wah di Say What, più hendrixiana che mai. Poi, a seguire, una grandissima e lunghissima versione, oltre tredici minuti, dello slow blues Ain’t Gone’N’Give Up On Love, veramente ispirata dallo spirito dei grandi chitarristi che lo hanno preceduto. Lookin’ Out The Window è solo normale, ma Look At Little Sister, pur con qualche problema tecnico nella registrazione, è decisamente sopra alla media, come pure una ferocissima Mary Had A Little Lamb, dove Stevie Ray strapazza la sua Fender in modo quasi delicato, prima di lanciarsi in una inconsueta, ma non rarissima e gagliarda, rilettura, del classico di Freddie King Hideaway.

Pausa, e il secondo dischetto riparte con la sua versione di Superstition, sempre tiratissima, prima di lanciarsi in una fantasmagorica Willie The Wimp, veramente “cattiva” e nello slow blues intensissimo di Dirty Pool, per non parlare di una Cold Shot da antologia, una altrettanto eccellente cavalcata nel rock-blues leggendario di Couldn’t Stand The Weather, anche questa presa dal libretto di istruzioni, “come suonare, quasi, come Jimi Hendrix”. Non manca una lunghissima versione di Life Without You, che era tratta da Soul To Soul, il disco allora più recente, e che dal vivo era diventata uno dei nuovi cavalli di battaglia del suo repertorio, mentre Testify. che conclude il concerto, è/era uno dei suoi brani migliori in assoluto, qui in una versione scintillante con SRV e i Double Trouble, presentati a fine canzone, al meglio delle loro possibilità. Breve intermission radiofonica e si torna per i bis: Come On Part III, il brano di Earl King ma che tutti conosciamo nella versione di Hendrix e una scoppiettante Love Struck Baby (peccato per la qualità sonora che qui peggiora leggermente) che conclude degnamente una serata memorabile.

Bruno Conti

Preservato Per I Posteri. Stevie Ray Vaughan featuring Bonnie Raitt – Bumbershoot Arts Festival 1985

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Stevie Ray Vaughan featuring Bonnie Raitt – Bumbershoot Arts Festival 1985 – Go Faster Records 

Come i più attenti fra i lettori avranno notato (ma anche quelli meno attenti, tanto è evidente) ormai escono quasi più dischi “Live” di quelli ufficiali. Chiamati con felice eufemismo Broadcast radiofonici, sono perlopiù i cari vecchi bootleg che circolano in modo legale su alcuni mercati, e noi appassionati, finché dura, non ce ne lamentiamo, perché si tratta spesso di documenti sonori di buona qualità audio di grandi concerti pescati dal passato. Tra i più gettonati l’immancabile Springsteen, Tom Petty, ma anche Stevie Ray Vaughan ha parecchi titoli al suo attivo. L’unica avvertenza, come detto in altre occasioni, è stare attenti, perché spesso gli stessi concerti escono con diversi titoli e copertine ma identici contenuti. Non mi sembra, per il momento, il caso di questo Bumbershoot Arts Festival 1985 dedicato al grande chitarrista texano. Siamo al 1° settembre 1985 in quel di Seattle, Coliseum Arena, nel weekend del Labour Day, all’interno di un Festival che si tiene nella città americana dai primi anni ’70 ai giorni nostri: SRV era negli anni più bui della sua dipendenza da alcol e droghe ed aveva appena finito di registrare il suo terzo album Soul To Soul, che sarebbe stato dato alle stampe il 30 di settembre, ma era già in promozione nel corso di un lungo tour, partito a giugno di quell’anno e proseguito fino all’agosto del 1986.

Stevie Ray alternava serate svogliate ad esibizioni strepitose e scoppiettanti (per esempio il Festival di Montreux che vedete qui sopra) e anche quella contenuta in questo dischetto: accompagnato dai Double Trouble, nella versione ampliata con Reese Wynans alle tastiere in aggiunta a Layton e Shannon. Una delle particolarità del concerto è che viene eseguito proprio l’album Soul To Soul nella sua quasi totalità (manca solo Gone Home) e anche con l’esatta sequenza dei brani, cosa abbastanza rara in generale nei tour promozionali, con l’aggiunta di classici e rarità, che comunque non mancano. La qualità sonora è piuttosto buona ed il concerto si apre con una versione feroce dello strumentale Scuttle Buttin’, con il nostro in gran forma che inizia subito a fare i numeri con la sua solista prima di entrare, senza soluzione di continuità, nella sequenza del terzo album: partendo con una formidabile versione a tutto wah-wah di Say What che ricorda il miglior Hendrix di Electric Ladyland anche grazie all’ottimo lavoro di Wynans all’organo e poi con Lookin’ Out The Window e Look At Little Sister che furono i due singoli estratti dall’album al tempo e che nelle versioni dal vivo acquistano in grinta, soprattutto il secondo brano con un pianino R&R scatenato, ancora Wynans (peccato per la non perfetta qualità, a tratti, della voce di Vaughan). Fantastica la versione dello slow blues Ain’t Gonna Give Up On Love, uno dei brani migliori del nuovo album firmati da Vaughan, per l’occasione in grande controllo del suo strumento trattato con il tocco del fuoriclasse.

Anche Change It, uno dei due brani scritti da Doyle Bramhall (il babbo) per il disco, scorre con il classico drive del Texas blues, tipico delle migliori esibizioni del nostro, come pure You’ll Be Mine, un vecchio brano di Willie Dixon per Howlin’ Wolf, è un perfetto esempio di blues’n’roll di casa Chess, e anche Empty Arms conferma che per SRV suonare il blues era facile come respirare aria pura. Come On, il vecchio brano di Earl King, la faceva pure Jimi, e la versione di Vaughan, registrata nella tana del lupo, in quel di Seattle, non ha nulla da invidiare come grinta a quella di Hendrix, anche se il mancino rimane insuperato dai suoi vari discepoli, di cui sicuramente Stevie è stato il più grande. Fine per il momento della sequenza di Soul To Soul, si prosegue con una buona versione di Cold Shot (ne ha fatte di migliori) mentre Couldn’t Stand The Weather è un altro riuscito omaggio all’arte hendrixiana e la lunghissima versione di Life Without You, sempre dal terzo album, è da manuale. Tiratissimo anche il super classico Pride and Joy e poi, per il finale, Vaughan chiama sul palco Bonnie Raitt per una intensissima Texas Flood, dove la slide della rossa californiana si unisce alla solista del nostro per una versione al calor bianco, poi replicata in una eccellente versione di Testify degli Isley Brothers, presa a tutta velocità. Grande versione che conclude degnamente un eccellente concerto preservato per i posteri.

Bruno Conti

Ripassi Per Le Vacanze 5: Succedeva Circa Un Anno Fa! Lucky Peterson – Live In Marciac July 28th 2014

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Lucky Peterson – Live In Marciac July 28th 2014 – Jazz Village/Harmonia Mundi CD+DVD

Lucky Peterson è un buon musicista, altrettanto a suo agio all’organo come alla chitarra, che peraltro predilige; ha una produzione copiosa, spesso di album dal vivo, magari nel formato CD+DVD, come questo Live In Marciac, registrato lo scorso anno, e pure il multiplo Live At 55 Arts Club Berlin del 2012 lo era http://discoclub.myblog.it/2012/12/23/bravo-fortunato-e-tiene-famiglia-ma-the-lucky-peterson-band/ . In mezzo un album di studio come The Son Of A Bluesman, pubblicato sempre dalla stessa Jazz Village, un CD dedicato alla figura del padre James https://www.youtube.com/watch?v=Rc4Qg5XiuVA , anche lui Bluesman, negli anni ’60 proprietario di un locale a Buffalo, dove Willie Dixon, che vi passava spesso, prese sotto la sua ala protettrice il bambino “Judge Kenneth”, che forse sarebbe diventato “Lucky” Peterson anche per questo. Come molti bambini prodigio (con le eccezioni di Stevie Wonder, Steve Winwood e Michael Jackson, che però sappiamo la fine che hanno fatto a livello qualitativo) Peterson è rimasto sempre nel “gruppone” dei musicisti di culto, forse anche per la sua indecisione nello scegliere decisamente uno stile tra il soul e il blues (con abbondanti dosi di funky, rock e jazz), che però potrebbe essere pure uno dei suoi pregi. Anche il nuovo capitolo, molto buono, registrato a Marciac, (nel continente europeo dove è decisamente più popolare che in patria) conferma i pregi e, in questo caso, i (pochi) difetti del musicista nero: fluidità e facilità di tocco sia alle tastiere che alla chitarra, con la “strana” presenza nella formazione di un secondo tastierista, Marvin Hollie, e del fido Shawn Kellerman alla seconda chitarra, particolare inconsueto per uno così bravo ad entrambi gli strumenti, e pure vocalist dalla voce ora potente, ora felpata.

Per l’occasione non c’è la moglie Tamara (mi dispiace dire, meglio), ma nell’ultimo brano, come ospite, appare Joe Satriani (!?). Se devo essere sincero ho una decisa preferenza per il Peterson blues-rocker, ma anche quello che si dedica con fervore al funky e al soul non è male: e quindi il concerto parte con Boogie Thang, un vecchio brano di Matt “Guitar” Murphy (quello dei Blues Brothers, avete presente, il “marito” di Aretha Franklin nel film), dal poderoso drive chitarristico, dove Peterson, ottimamente coadiuvato dalla sua band, mette subito in chiaro di essere un chitarrista di quelli tosti e un cantante istrionico di grande potenza, in grado di infiammare subito il pubblico, con quasi undici minuti tra rock e blues che di solito si conservano per la fine del concerto. Ma evidentemente il nostro Lucky vuole il pubblico bello caldo e le sue scorribande alla solista sono difficili da ignorare (e anche Kellerman ci mette del suo): sto recensendo il concerto dal CD e quindi non ho avuto modo di vedere “ufficialmente” se non alcuni spezzoni del video (ma in rete ce n’è uno completo, come vedete sotto), in ogni caso l’energia si percepisce comunque, quando il gruppo prende il groove di Funky Broadway del “vecchio” Wicked” Wilson Pickett, il soul e il R&B vengono sparati a mille e poi reiterati in una eccellente (e nuovamente assai lunga) I Can See Clearly Now, il brano di Johnny Nash,  coinvolgente come pochi in una versione presa a tutta velocità, in un tripudio di chitarre, organo e la voce poderosa di Peterson.

Nuovamente soul, di quello nato nel profondo Sud per la It Ain’t Safe di George Jackson, con Marvin Hollie che giustifica la sua presenza alle tastiere con un ottimo lavoro e Lucky che incanta il pubblico con la sua notevole presenza scenica; anche quando i tempi rallentano per una eccellente versione di Trouble, il brano di Ray LaMontagne (canzone molto amata da Peterson che la aveva inserito anche nel precedente live) e che nelle mani, e nella voce, del nostro, diventa una deep soul ballad degna di quelle di Otis Redding. I brani originali, e forse questo è il piccolo difetto non citato prima, faticano a reggere con le ottime cover, ma Look Out Of Love, è un ottimo blues-rock, tirato e ad alta densità chitarristica, come pure Make My Move On You, dove Peterson inchioda un assolo spettacolare che poi sfocia in un breve ma sentito Tribute To Stevie Ray Vaughan; Nana Jarnell è uno slow blues strumentale hendrixiano notevole e I’m Still Here è puro Chicago Blues prima alla Buddy Guy e poi con continue variazioni tematiche, dove Peterson e Kellerman si sfidano alle soliste, prima di passare a una veloce capatina nel classico Goin’ Down Slow con Lucky all’organo, prima di una ulteriore furiosa ricaduta nel funky-soul-rock di Judy’s Got Your Girl and Gone, sempre con continui cambi di tempo che poi confluiscono in Boogie Woogie Blues Party, come da titolo una festa di ritmi scatenati. Se ne vanno, ma ritornano subito, con Joe Satriani, per un tuffo nei riff incontenibili di Johnny B. Goode, presi a velocità supersonica, esagerati, ma per una volta come è giusto che sia, persino Satriani sembra godere come un riccio, come pure tutto il pubblico!

La confezione doppia è disponibile dal 1° giugno.

Bruno Conti   

Sembra Nuovo Ma… The House Is Rockin’ – A Tribute To Stevie Ray Vaughan

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The House Is Rockin’ – A Tribute To Stevie Ray Vaughan – Deadline/Cleopatra 

Tre stellette di stima e anche per i contenuti, in parte, visto il soggetto di questo ennesimo tributo curato da una etichetta del gruppo Cleopatra Records (uhm!). Come avrete intuito da quanto scritto in passato dal sottoscritto non sempre le operazioni curate dalla casa discografica californiana mi fanno impazzire: alcuni tributi sono buoni, penso a quello sui Creedence dello scorso anno http://discoclub.myblog.it/2014/09/03/la-difficile-arte-del-disco-tributo-blues-tribute-to-creedence-clearwater-revival/, anche quello recente acustico ai Beatles non è male, come pure quello “Psych” agli Stones, ma in altri casi si fanno tributi a capocchia a chiunque, anche con brani già apparsi altrove, giusto per tenere in azione gli artisti sotto contratto con l’etichetta. Nell’ambito ristampe della Cleopatra/Purple Pyramid, penso a quelle dei Quicksilver http://discoclub.myblog.it/2015/05/01/cera-volta-lacid-rock-quicksilver-messenger-service-live-san-jose-1966/  o dei Canned Heat http://discoclub.myblog.it/2015/06/07/canned-heat-live-tira-laltro-stockholm-1973/ , ma anche al giro Vanilla Fudge/Cactus http://discoclub.myblog.it/2010/09/14/un-disco-del-cactus-ultra-sonic-boogie-1971/ , decisamente meglio, peraltro in molti casi, tipo questo del tributo a Stevie Ray Vaughan, sembrerebbe che dei nomi scelti a caso vengano inseriti in una vecchia urna delle estrazioni del lotto e il bambino bendato, nel frattempo cresciuto, estrae i nomi dei partecipanti alla suddetta celebrazione. John Sykes, Scott Hill, Mark Kendall, Doug Aldrich, Richie Kotzen, Steve Stevens? Tutti ex metallari più o meno pentiti (niente contro la categoria, ma come direbbe qualcuno. Che c’azzecca?) scelti a scapito, che so, cito a caso, di ZZ Top, del fratello Jimmy Vaughan i primi che mi vengono in mente, ma anche Jeff Beck, Eric Clapton  Buddy Guy, Robert Cray, Lonnie Mack, Robben Ford,  un “discepolo” come Chris Duarte, ce ne sarebbero altri a decine, magari anche coinvolgere i Double Trouble, un colpo forse troppo geniale! Costano troppo? Allora non fate il tributo, magari qualcuno sarebbe venuto anche gratis (Come dite? L’hanno già fatto, uscito per la Epic nel lontano 1996, con il titolo A Tribute To Stevie Ray Vaughan, cè pure il film https://vimeo.com/71091763 ). Che pignoli!

a tribute to stevie ray vaughan

Comunque nel disco della Deadline troviamo anche nomi validi, gente come Albert Lee, Steve Morse, Walter Trout o uno Stanley Jordan, che come stile non c’entrerebbe, ma a livello di tecnica pura non si discute. Perfino il sudafricano Trevor Rabin, ex Yes, famoso soprattutto per avere scritto Owner Of A Lonely Heart, non se la cava male nell’iniziale Tightrope, e anche alcuni dei bistrattati (da me) ospiti potrebbero sorprendervi. Ma andiamo con ordine. Produce Billy Sherwood, altro pseudo Yes degli anni ’90, pure al basso nel disco, con Jay Schellen, alla batteria, altra presenza costante in questi tributi, alla voce, ove occorra, Ron Young e Dante Marchi, e chi sono, mah (comunque per essere onesti, la parte cantata è buona)? Piccolo particolare non trascurabile, anche questo album era però già uscito nel 1996, contenuto identico, come Crossfire – A Salute To Stevie per la Blues Bureau (quindi la Cleopatra ha colpito ancora, visto che non è scritto da nessuna parte nella “nuova “ edizione).

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Per chi non l’avesse preso ai tempi, confermo che la versione di Tightrope, con la solista di Rabin in bella evidenza non è affatto male https://www.youtube.com/watch?v=6Na_8hTAU_E , come pure Cold Shot con uno Steve Stevens forse un tantinello esagerato in un’orgia di wah-wah https://www.youtube.com/watch?v=ZZQl6el76gc . Travis Walk evidenzia la grande perizia tecnica di Steve Morse, al meglio delle sue possibilità, con un pianino malandrino non accreditato (come in generale le altre tastiere presenti) ad aumentare il fascino di questo brano strumentale https://www.youtube.com/watch?v=HwEl4Td6-KA . Eccellente l’approccio più country twang e rilassato in Empty Arms, con Albert Lee che era già in pista nel mondo della musica quando SRV andava ancora alle elementari https://www.youtube.com/watch?v=9EZCl6BqlKY . Pride And Joy dell’ex Tyger Of Pan Tang e Thin Lizzy John Sykes è troppo esagerata e ridondante, con i suoi lick quasi metal, mentre Scott Hill che tra i suoi meriti vanta una militanza nei Fu Manchu (?!?) fa comunque un buon lavoro in Couldn’t Stand The Weather, quasi alla Bonamassa ante litteram in modalità hendrixiana. Ain’t Gone And Give Up On Love è un brano meno conosciuto di Stevie che appariva su Soul To Soul, uno slow blues preso su una tonalità troppo heavy dal solista dei Great White, Mark Kendall. E pure Doug Aldrich non ha un approccio che mi piace verso The House Is Rockin’, la band suona R&R, lui è metallurgia pura https://www.youtube.com/watch?v=InZAKBwwDeo , e così sarebbe pure per Richie Kotzen, altro solista diciamo esuberante che invece centra alla perfezione lo spirito di Honey Bee, come pure Walter Trout, che pur virando su un sound decisamente tirato (ma ci sta) rende onore a Say What, altro celebre cavallo di battaglia di Vaughan https://www.youtube.com/watch?v=1kjcyKj6dyM . Chiude Stanley Jordan che con un tapping elaboratissimo rilegge da par suo la jazzata Riviera Paradise https://www.youtube.com/watch?v=K9glnLiDO7A . 

Visto che vent’anni fa (anzi 19) il Blog non c’era ancora, facciamo finta che sia un disco nuovo, in fondo non è brutto!

Bruno Conti

Uno Stevie Ray Vaughan D’Annata! Live At The Spectrum, Philadelphia 23rd May 1988

stevie ray vaughan spectrum philadelphia

Stevie Ray Vaughan – Spectrum, Philadelphia 23rd May 1988 Echoes

Nel 1988 Stevie Ray Vaughan, inconscio di tutto ciò, si avvicinava a grandi passi agli ultimi anni della sua breve vita (sarebbe scomparso, all’età di 35 anni, nel tragico incidente di elicottero del 27 agosto 1990 a East Troy, nel Wisconsin), ma nello stesso tempo, per la prima volta da lunga pezza, era libero dai fantasmi della tossicodipendenza, o almeno così si diceva e si legge nelle sue biografie. Però chi vi scrive si ricorda di essere stato presente ad una delle due date milanesi che SRV tenne al Palatrussardi di Milano nel luglio di quell’anno, ed in particolare, il 7, la serata in cui si esibì insieme a Pogues e Los Lobos. Ora, forse, la memoria mi inganna, sono passati 27 anni, ma non mi pare di ricordare un concerto memorabile, al di là della solita acustica orrida del palazzetto milanese, quella che doveva essere una serata eccezionale per la presenza contemporanea di tre grandi formazioni, alla fine non fu tale. O così ricordo io: Shane MacGowan era l’ombra di sé stesso e anche il musicista texano non fece un set fantastico (altri ricordano diversamente), forse penalizzati dall’acustica pessima e per il tempo ridotto, Los Lobos esclusi, nessuno mi parve all’altezza della propria fama.

Il buon Stevie, dopo la partenza fulminante con Texas Flood, e prima ancora con la esibizione al Festival di Montreux del 1982, dove venne peraltro contestato da alcuni dementi fondamentalisti del jazz festivaliero (ma il filmato in rete e il doppio CD con le due esibizioni dell’82 e dell’85, raccontano una storia diversa) e testimoniano di un musicista in forma strepitosa, poi replicata nel Rockpalast alla rocca di Lorelei dell’agosto del 1984, in una epoca in cui internet era ancora solo un’idea, l’esibizione venne mandata in Eurovisione, anche in Italia su Rai Tre, e permise a chi era rimasto folgorato dal suo primo album, da poco replicato con l’eccellente Couldn’t Stand The Weather, di godere la presenza scenica e sonora di questo “Zorro” della chitarra, un musicista fantastico che convogliava nella sua persona lo spirito di Jimi Hendrix, e di molti altri “eroi” della chitarra, bianchi e neri, che lo avevano preceduto. Non c’è né il tempo né lo spazio in questa breve recensione per ricordarlo, ma probabilmente Stevie Ray Vaughan è stato l’ultimo vero grande chitarrista della storia del rock, scomparso troppo presto, mentre avrebbe potuto dare ancora molto al mondo della musica. Comunque nel 1988, anno in cui viene registrato, e poi trasmesso nell’etere questo concerto radiofonico di Filadelfia, il nostro amico si sta preparando a registrare quello che sarà il suo ultimo album di studio, In Step, probabilmente il migliore della discografia insieme al primo, e regala ai fans accorsi allo Spectrum il 23 maggio del 1988, uno show nettamente superiore a quelli utilizzati per il doppio Live ufficiale Live Alive di due anni prima. La qualità del suono di questo CD è ottima, cruda ma bel delineata, così come il repertorio scelto per l’occasione: Vaughan, accompagnato dai fidi Double Trouble in versione quartetto, con Reese Wynans, Tommy Shannon e Chris Layton, sciorina, con nonchalance e classe immensa, undici brani di notevole spessore, che se non costituiscono un concerto completo, per le restrizioni di tempo applicate al broadcast radiofonico, cionondimeno rimangono un documento notevole del suo enorme talento di chitarrista.

Si parte con un medley di Dust My Blues che si riversa nell’inconfondibile riff di Love Struck Baby, per una versione fantastica, con Shannon che pompa sul basso come ne andasse della sua vita e Wynans e Layton travolgenti ai rispettivi strumenti, mentre Stevie strapazza la sua vecchia Fender e ne estrae citazioni di Johnny Be Goode e altre mirabilie del R&R e del blues. Look At Little Sister, il classico di Hank Ballard da Soul To Soul, è puro Rock’n’blues texano e anche You’ll Be Mine, dallo stesso album, è carica di una energia strabordante, poi veicolata nell’uno-due micidiale dell’accoppiata Mary Had A Little Lamb, dal repertorio di Buddy Guy e Texas Flood, entrambe in versioni dove le mani di SRV sembrano volare sul manico della sua chitarra; Superstition non raggiunge forse i vertici di quelle di Stevie Wonder e Jeff Beck, ma è sempre un bel sentire. Willie The Wimp è una rara esibizione dell’altrettanto raro singolo, scritto dall’amico di Austin Bill Carter, un rock verace e grintoso nella migliore tradizione texana, seguito da una vorticosa Cold Shot, con la sua ciondolante andatura, e poi dall’hendrixiana Couldn’t Stand The Weather, con i classici stop and go, e da una versione lunghissima, oltre i 9 minuti, di Life Without You, uno slow blues atmosferico e scintillante che anticipa la svolta dell’imminente In Step ed è seguita da una sontuosa Voodoo Chile (Slight Return) di mastro Jimi, solo Hendrix la faceva meglio. Grande concerto comunque, sarà anche un ex bootleg, ma che ci frega!

Bruno Conti