Come Sempre Buona Musica Da New Orleans. Subdudes – Lickskillet

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Subdudes – Lickskillet – Subdudes CD

Come i lettori di questo blog sanno, i Subdudes nel corso degli anni hanno sempre presentato un “cocktail” unico di stile Americana che, partendo dalle radici della musica della Louisiana, intercalate da country, folk, soul, rhythm and blues, zydeco e musica cajun, diventa un affascinante gumbo, per restare in temi cari alla zona di New Orleans e dintorni. Tutto questo avviene sin dagli anni ’80,con la formazione che era composta ai tempi da Tommy Malone, John Magnie, Steve Amedèe, e dal compianto Johnny Rae Allen, fino allo scioglimento avvenuto alla fine del ’96. Riformatisi a sorpresa nel 2002, e inserendo nella band Tim Cook e Jimmy Messa, ricominciano a pubblicare alcuni dischi di grande qualità come Miracle Mule, Behind The Levee, Street Symphony, Flower Petals, fino al superbo Live At Rams Head, e dopo un’ulteriore pausa,  ritornare di nuovo con lavori di difficile reperibilità come 4 On The Floor (recensito puntualmente su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2017/03/16/il-ritorno-della-band-di-new-orleans-sempre-in-forma-smagliante-subdudes-4-on-the-floor/ ) e ora questo inaspettato Lickskillet, sempre distribuito in modo autogestito dalla propria etichetta, quindi abbastanza costoso per noi europei e faticoso da reperire, se non nel formato del download digitale (*NDB Lo diciamo sempre a malincuore, ma se non c’è altro modo!) .

L’attuale “line-up” si avvale come sempre delle chitarre elettriche di Tommy Malone, le tastiere di John Magnie, della bravura del polistrumentista Steve Amedèe a piano, percussioni e fisarmonica, e del bassista Tim Cook, che danno voce e corpo ad un “sound” difficilmente etichettabile, ma incentrato come al solito su belle melodie ed equilibrate armonie vocali. Lickskillet parte con la gioiosa e corale The Perfect Time con la fisarmonica di Amedèe in grande evidenza, per poi cambiare subito ritmo con il “funky-.soul”  di una intensa Love Has The Power, riscoprire il lavoro alla chitarra di Tommy Malone nella torbida e pigra I Smile https://www.youtube.com/watch?v=ksKj0-xvNDs , e sbalordire ancora una volta il sottoscritto con il particolare “gospel” di una intrigante Lost Religion Blues. Con Dancing Together Again è un ritorno alla ballate classiche che sembrano scritte con il cuore in mano https://www.youtube.com/watch?v=A-Napc87Pas , canzone a cui fanno seguito una Them Figs dal ritmo contagioso in puro stile New Orelans https://www.youtube.com/watch?v=Ydf4OqIrFJg e un’altra ballata come Oh, con la melodia che ti prende subito, e con un cantato degno della migliore musica californiana https://www.youtube.com/watch?v=r9IRMmq6S50 .

Ci si avvia alle tracce finali con You Are The One ancora molto corale e con un importante assolo di chitarra del solito Malone, una ennesima ballata suggestiva Mama’s Really Gone, che ancora una volta mette in luce le migliori qualità della band, e a chiudera Secret Ways Of Love, dove si mischiano i vari generi che sono evidenziati nella musica e atmosfera che si respira nella città di New Orleans. Di questa terza vita musicale dei Subdudes si è parlato abbastanza poco, ed è un vero peccato in quanto è sempre un piacere (ri)scoprire quanta vitalità ci sia ancora in questo gruppo, che rimane una band dal “sound” particolarissimo, che oltre ad assimilare e generare vari umori musicali, si manifesta nella bravura tecnica dei componenti della band, e in particolare nella peculiare sscansione ritmica di Amedèe, che produce e sviluppa tutta una serie di “groove” altamente contagiosi dove parlano solo gli strumenti, fisarmonica, percussioni e chitarra elettrica su tutti, che sono il marchio di fabbrica dei Subdudes (al riguardo provate a  recuperare album splendidi come Lucky e Annunciaton). Questo Lickskillet ci riconsegna quindi ancora una volta il talento dei Subdudes e anzi (per chi scrive) ne segna in qualche modo una significativa evoluzione musicale che si era già intravista nel precedente 4 On The Floor, e ci fa sperare che decidano di restare insieme ancora per molto tempo perché, credetemi, band di questa caratura e con un suono così particolare, sono “mosche bianche” nell’attuale panorama musicale, anche se la loro produzione è  diventata veramente difficile da rintracciare (come succede anche per altri artisti di culto),

Tino Montanari

Non Posso Che Confermare: Gran Bel Disco! Levi Parham – It’s All Good

levi parham it's all good

*NDB Se vi risulta familiare non vi state sbagliando, ne abbiamo già parlato in anteprima, molto bene, all’incirca un mese fa https://discoclub.myblog.it/2018/06/03/lairone-delloklahoma-ha-spiccato-il-volo-con-un-grande-disco-levi-parham-its-all-good/ , ma visto che mi trovo tra le mani anche una seconda recensione, nel frattempo è uscita anche la versione americana, e il disco merita, ho deciso di pubblicare anche questa. Succede raramente, ma per questa volta facciamo una eccezione.

Levi Parham  – It’s All Good – Continental Song City/CRS CD/Horton Records

Levi Parham, musicista originario dell’Oklahoma, è sempre stato molto legato alla sua terra d’origine, fin dal suo esordio, l’autogestito (non di facile reperibilità. ma si trova) An Okie Opera. Il suo secondo lavoro, These American Blues (2016) è stato prodotto dal “late great” Jimmy LaFave, che era sì texano ma aveva vissuto per anni a Stillwater: ora Parham, nel suo nuovo album It’s All Good, ha deciso di giocare ancora più in casa, chiamando a raccolta musicisti solo della zona di Tulsa (ed infatti il CD è intitolato a Levi insieme ai Them Tulsa Boys And Girls), un gruppo di amici e conoscenti tra i quali spicca una nostra vecchia conoscenza, John Fullbright, ma anche altri musicisti titolari di discografie in proprio (Jesse e Dylan Aycock, il chitarrista Paul Benjaman, che è anche il band leader in questo disco). E It’s All Good è un gran bel disco di puro rock sudista, dieci canzoni lucide e coinvolgenti in cui il nostro mischia con grande abilità e feeling rock, blues, boogie ed un pizzico di funky e soul.

L’album è stato inciso a Sheffield, in Alabama, nei Portside Studios che altro non sono che gli ex Muscle Shoals Studios, un ambiente nel quale solo ad entrarci si respira grande musica. E di grande musica in questo CD non ne manca di certo: Parham è un vero uomo del sud, ha il ritmo nel sangue, ed in più è dotato di una voce mica male; le canzoni partono dalla lezione di gruppi storici come Little Feat, Allman Brothers Band, Delaney & Bonnie e Derek & The Dominos, nomi importanti certo, e di sicuro inarrivabili, ma Levi ha l’intelligenza e l’umiltà di andare per la sua strada, e mette a punto un disco di vero rock come si faceva negli anni settanta, con la slide spesso protagonista ma in genere con un suono piuttosto chitarristico, ben bilanciato da validi interventi di piano ed organo. Badass Bob è un brano elettrico e bluesato, dal ritmo strascicato e quasi pigro, con un mood decisamente annerito ed un intermezzo chitarristico notevole. Anche Borderline parte attendista, ma c’è una tensione elettrica che fa presagire un’esplosione imminente, che arriva dopo due minuti sotto forma di aumento di ritmo e ruspanti assoli di chitarra. Puro rock, suonato come Dio comanda. Turn Your Love Around è scura, lenta, quasi paludosa, tra rock e blues del Mississippi, eseguita con una padronanza degna di un veterano, e contrassegnata da acuti lancinanti a base di slide, mentre la vibrante My Finest Hour, dal ritmo spezzettato, è più solare pur mantenendosi saldamente in territori sudisti, con la voce “nera” del nostro che è quasi uno strumento aggiunto.

Boxmeer Blues è un rock’n’roll sanguigno e coinvolgente, che rammenta alcune cose dei Little Feat ma anche dei Subdudes: chitarre che dettano il ritmo ed ottimi interventi di organo e piano elettrico; la fluida Shade Me sembra il risultato del viaggio di un anno nel sud degli States da parte dei Beatles, specialmente Harrison e Lennon, mentre la trascinante Heavyweight è ancora influenzata dall’ex band di Lowell George sia nel suono, un rock-blues con elementi quasi funk, sia nell’uso sbarazzino della slide, ed anche la godibile Kiss Me In The Morning non si discosta molto da queste sonorità: slide sempre in primo piano, ottimo uso del pianoforte ed un motivo fresco e scorrevole, con un assolo di sax come ciliegina. Il CD termina con la title track, un gustosissimo boogie pianistico degno di Professor Longhair, e con la tenue All The Ways I Feel For You, finale stripped-down, voce e chitarra, ma cui non manca di certo l’intensità. Al terzo disco Levi Parham ha centrato il bersaglio: consigliato a chi ama il rock, quello vero, con implicazioni southern.

Marco Verdi

Ma Non Si Erano Sciolti? Tornano In Studio Per il 40° Anniversario. Radiators – Welcome To The Monkey House

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Radiators – Welcome To The Monkey House – Radz Records

Si pensava che la carriera dei Radiators (o meglio The Radiators From New Orleans, visto che esistono anche i Radiators australiani e gli irlandesi Radiators From Space) fosse arrivata al capolinea nel 2010, quando la band in un comunicato annunciava che dopo un tour d’addio, che prevedeva  una esibizione al celebre Jazz And Heritage Festival, e dei concerti al Tipitina, il famoso locale di New Orleans, la loro città, si sarebbe sciolta. E nel 2012 è uscito il triplo dal vivo The Last Watusi, che conteneva il meglio delle tre serate al Tipitina. Ma poi ogni anno a maggio la band si riunisce per partecipare alla JazzFest, di cui sono usciti nel corso degli anni  innumerevoli  CD https://discoclub.myblog.it/2010/07/28/live-at-new-orleans-jazz-heritage-festival-the-radiators-pre/ , e nel 2015 hanno suonato per altre serate al famoso locale di Nola. Ma quest’anno si festeggiano i 40 anni di carriera per il gruppo  e quindi i 5 componenti storici della band, Ed Volker, alle tastiere e voce, Dave Malone, chitarre e voce (fratello dell’altrettanto bravo Tommy, dei Subdudes https://discoclub.myblog.it/2014/05/31/delle-glorie-della-big-easy-tommy-malone-poor-boy/ ), con il valido supporto del secondo chitarrista Camille Baudoin, del bassista Reggie Scanlan e del batterista Frank Bua, hanno deciso di fare le cose per tempo, riunendosi  in studio a New Orleans per registrare un nuovo album di studio, il primo dal lontano 2006, in cui uscì l’ottimo Dreaming Out Loud (i loro dischi sono tutti piuttosto belli, se ne trovate qualcuno del primo periodo sarebbe l’ideale, ma la scelta è ampia, difficile sbagliare).

Sono stati definiti la Band di New Orleans, e ci può stare, ma come mi è capitato di dire in passato, io li vedo più come dei Little Feat della Louisiana: doppia chitarra, doppia voce, un tastierista fantastico, una sezione ritmica solida ed inventiva che sottolinea le evoluzioni dei vari solisti e un repertorio che attinge dal rock, dal blues, dal funky, dal Gumbo di New Orleans, qualche pennellata di jazz, di swamp rock, di southern e anche una propensione alla jam, soprattutto nei concerti dal vivo, per quanto anche nei dischi di studio gli strumenti siano liberi di improvvisare all’impronta. E anche in questo Welcome To The Monkey House lo fanno nei 16 brani, inediti nei dischi di studio, ma rodati da varie apparizioni nei concerti della band. Ecco quindi scorrere il boogie-blues-rock alla Little Feat dell’iniziale title track, con continui rimandi delle due soliste che si intrecciano e si sfidano con grande classe, mentre l’impassibile Ed Volker (Zeke per gli amici) volteggia sul suo pianoforte con libidine. Per poi riprodurre in una deliziosa Nightbird il sound ispirato di un Dr. John o di un Allen Toussaint, nei loro momenti più romantici, oppure scatenarsi  nella vorticosa Fishead Man, dedicata ai propri fans, con un piano boogie woogie che si incrocia con il rock annerito del resto del gruppo.

Che è sempre ispirato e variegato anche nella mossa The Fountains Of Neptune, dove Volker aggiunge pure l’organo al sound d’assieme, sempre gioioso e complesso, con il classico suono del  rock americano, quello delle migliori band degli anni ’70, un paio le abbiamo citate, ma anche Amazing Rhythm Aces, Meters, Neville Brothers o Allman Brothers rientrano tra le influenze dei Radiators, come evidenzia l’ottima slide, doppiata dall’altra solista, che percorre la bluesata One Monkey. Comunque tutti i brani sono di livello notevole, dal funky-rock di Ride Ride She Cried, ancora con slide d’ordinanza, al quasi barrelhouse/R&R della spensierata e “acida” Doubled Up In A Knot. Tra i loro “seguaci” possiamo segnalare i Subdudes, più raffinati https://discoclub.myblog.it/2017/03/16/il-ritorno-della-band-di-new-orleans-sempre-in-forma-smagliante-subdudes-4-on-the-floor/ , la Honey Island Swamp Band https://discoclub.myblog.it/2016/06/12/altro-gruppo-new-orleans-bayou-americana-gradire-honey-island-swamp-band-demolition-day/ o i Wood Brothers https://discoclub.myblog.it/2015/12/27/recuperi-sorprese-fine-anno-2-peccato-conoscerli-the-wood-brothers-paradise/ . In First Snow ci si avventura anche in territori più complessi, tipo i Los Lobos di Kiko, grazie ad un vibrafono e ad una andatura sinuosa, ma è subito rock and roll di nuovo con l’avvolgente suono solare di Time To Rise And Shine o della caraibica Back To Loveland, che fa molto Jimmy Buffett o il puro New Orleans sound della splendida King Earl, con le twin guitars in piena azione.  Insomma, senza ricordarle tutte, ma una citazione per la giubilante (anche per il titolo) Bring Me The Head Of Isaac Newton mi scappa, questo è un album da avere per i fans, però anche tutti gli altri amanti della buona musica rock ci possono fare un pensierino.

Bruno Conti

Il “Ritorno” Della Band Di New Orleans: Sempre In Forma Smagliante! Subdudes – 4 On The Floor

subdudes 4 on the floor

Subdudes – 4 On The Floor – Subdudes.com

Tra i tanti ritorni che abbiamo documentato negli ultimi anni, quello dei Subdudes, a parere del sottoscritto non può che far piacere a tutti gli appassionati: un gruppo che nel corso della sua lunga carriera ha sempre prodotto album di grande spessore, certificato da un cocktail unico del genere “americana”, sottogenere Louisiana Music. La band si è formata alla fine degli anni ottanta, quando Tommy Malone, John Magnie, Johnny Rae Allen e Steve Amedée si sono messi insieme: la loro produzione discografica che si estende su quasi quattro decenni, parte nel lontano ’89 con il disco omonimo The Subdudes, a cui fanno seguire un trittico da “urlo” con Lucky (91), Annunciaton (94), e Primitive Streak (96), per poi inaspettatamente decidere di sciogliersi (causa l’uscita dal gruppo del bassista Johnny Ray Allen) e fare alcuni concerti di addio, evento che li porterà comunque a pubblicare l’anno seguente il loro “testamento” dal vivo, il bellissimo Live At Last (97).

Dopo un lungo periodo “sabbatico” di ben otto anni, durante il quale alcuni componenti della band intraprendono una importante carriera solista (soprattutto Tommy Malone http://discoclub.myblog.it/2013/07/01/da-new-orleans-tommy-malone-natural-born-days/ ma anche http://discoclub.myblog.it/2014/05/31/delle-glorie-della-big-easy-tommy-malone-poor-boy/), parte il secondo capitolo della loro storia che, oltre ai tre membri originali Malone, Amedée e Magnie, vede l’ingresso in formazione di validi musicisti come Tim Cook e Jimmy Messa,  e una nuova fase che li porta ad incidere lavori di grande qualità come Miracle Mule (04), Behind The Levee (06), dedicato alla tragedia di Katrina, Street Symphony (07), per poi celebrare il ventennale con il superbo doppio dal vivo Live At The Rams Head (ne esiste anche una versione DVD, che contiene anche un concerto acustico Unplugged At Pleasant Plains), e chiudere anche la seconda fase con il meno riuscito Flower Petals (09). Adesso un po’ a sorpresa, girando in rete, è “apparso” questo nuovo lavoro 4 On The Floor (precisiamo subito di difficile reperibilità e dal costo molto elevato), un CD  rivisita con un suono in forma “unplugged parecchi brani degli anni 2000, e che vede in azione l’attuale line-up guidata dal “frontman” cantante e chitarrista Tommy Malone, dal fisarmonicista John Magnie, da Steve Amedée alle percussioni, e al basso Tim Cook, per undici brani che come al solito prendono la decisa ispirazione dai suoni della nativa New Orleans.

Il loro caratteristico sound spicca subito fin dall’iniziale Someday, Somehow, che in origine era su Lucky, dove si evidenzia un strepitoso insieme di voci, chitarre e fisarmonica, che si ripete anche nella seguente Oh Baby, da Miracle Mule, mentre Wishn’ è una bella ballata venata di soul, per poi passare ad un meraviglioso lento dai toni “gospel” come Known To Touch Me, ancora da Miracle Mule. suonato e cantato in modo spettacolare. Si continua con una gustosa Poorman’s Paradise, che era su Street Symphiony, dal suono cadenzato, sempre in perfetto “New Orleans style”, per poi tornare ai primi anni sessanta con la bella melodia di Wedding Rites (I Already Knew You), da Flower Petals, innaffiata da coretti “soul Stax”, riproporre in versione più “unplugged” la cantautorale Brightest Star (recuperata ancora dallo splendido Miracle Mule), e tentare la strada di  atmosfere vocali quasi alla Blind Boys Alabama per  una piacevole One Word (Peace), già in Behind The Levee. Ci si avvia alla fine con un lento di grande impatto come la corale The Rain, ennesimo brano da Miracle Mule, l’omaggio al grande Hank Williams con il country got soul di una intrigante I Saw The Light (eseguita tra gli altri in passato da Jerry Lee Lewis, Johnny Cash e Carl Perkins), e andare a chiudere in allegria con la breve e scanzonata Rockabilly Rain, il tutto a certificare che nei Subdudes come sempre scorre ancora tantissima musica di qualità.

Devo confessare che sono di parte in quanto sono sempre stato un estimatore del gruppo di New Orleans, e questo 4 On The Floor è uno dei più riusciti e maturi della loro discografia, un tributo a sé stessi sotto forma di un condensato della musica della Louisiana, un “Gumbo” misto di rock, blues, soul, country e gospel, il tutto al servizio di canzoni di valore, cantate e suonate come Dio comanda, meritoriamente in forma “unplugged”. In conclusione, un ennesimo bel ritorno dei Subdudes, con uno di quei dischi fatto con amore, e che vanno diritti al cuore degli appassionati della buona musica.  Cercatelo, gente, cercatelo, (oppure, sigh, scaricatelo in forma digitale), ne vale la pena.!

Tino Montanari

“Solo” Un Altro Gruppo Da New Orleans: Bayou Americana, Per Gradire! Honey Island Swamp Band – Demolition Day

honey island swamp band demolition day

Honey Island Swamp Band – Demolition Day – Ruf Records

L’ultima uscita della Ruf, il CD di Andy Frasco & The U.N., non mi aveva entusiasmato http://discoclub.myblog.it/2016/04/16/mi-aspettavo-piu-andy-frasco-and-the-u-n-happy-bastards/ . Ma l’etichetta tedesca si riprende subito con questa ottima proposta di un’altra band americana, anzi di New Orleans per la precisione. La Honey Island Swamp Band, gruppo della Louisiana che aveva raccolto positive recensioni anche sul Blog per il precedente Cane Sugar http://discoclub.myblog.it/2013/09/20/good-news-from-louisiana-honey-island-swamp-band-cane-sugar/ . Ma il quartetto (ora ampliato a quintetto) ha già una decina di anni di attività sulle spalle, con tre album di studio e un EP pubblicati, oltre ad un paio di titoli dal vivo della serie Live At Jazz Fest. Lo stile della band è una riuscita fusione di rock, soul, funky, blues, swamp music, con spruzzate anche di country e folk, che loro stessi, con felice espressione, hanno definito “Bayou Americana” https://www.youtube.com/watch?v=6rZ35Dy8RwY . Quindi a grandi linee siamo dalle parti di altre grandi band della Crescent City tipo Subdudes e Radiators, oltre agli inevitabili paragoni con Little Feat e Band, ma diciamo che le componenti “nere” sono meno accentuate che negli altri gruppi citati. Nella formazione i due leader sono il cantante, chitarrista, mandolinista, all’occorrenza anche armonicista Aaron Wilkinson, che è puree l’autore principale delle canzoni, e il chitarrista, virtuoso della slide, Chris Mulé, anche lui autore prolifico https://www.youtube.com/watch?v=IXeV90lcop0 . L’ottima sezione ritmica è composta da Sam Price al basso e Garland Paul alla batteria: con tutti e quattro i musicisti che apportano le loro eccellenti armonie vocali al suono complessivo del gruppo. Che aggiunge l’ultimo arrivato, il tastierista Trevor Brooks, a completare un sound già ricco,

Il disco precedente era stato prodotto dallo specialista di New Orleans John Porter con ottimi risultati, questa volta in città, al Parlor Studio, si è calato Luther Dickinson. Se l’anno scorso vi era piaciuto, come al sottoscritto, molto,  il disco dei Wood Brothers, qui troverete un altro dischetto più che soddisfacente http://discoclub.myblog.it/2015/12/27/recuperi-sorprese-fine-anno-2-peccato-conoscerli-the-wood-brothers-paradise/ . L’apertura è affidata a How Do You Feel, un pezzo che sembra provenire da una riuscita fusione degli Stones americani a tutto riff e degli intrecci vocali di gruppi come la Band e i Little Feat, con Mulé, l’autore del brano, che intreccia la sua slide con le fluide cascate di note del piano di Brooks, che ricorda molto il tocco del vecchio Nicky Hopkins, con tanto di gran finale di sax che ci ricorda appunto i Rolling di Sticky Fingers. grande inizio. Head High Water Blues, racconta i fatti conseguenti all’uragano Katrina, un evento che ha segnato tutti i musicisti della band, costretti a emigrare a San Francisco per un periodo di tempo, e lo fa a tempo di funky-blues, con la consueta slide tagliente di Mulé, ma anche interventi di Wilkinson con la seconda solista, tastiere “scure” e molto Gumbo nel suo dipanarsi, la voce caratteristica di Wilkinson, ottimo vocalist, qui autore del brano; No Easy Way parte lenta e solenne, quasi funerea, poi innesta un ritmo in crescendo, sulle ali della agile sezione ritmica, interventi mirati dei fiati, e quella slide incombente sullo sfondo del tessuto sonoro del pezzo, che sottolinea l’ottima performance vocale di Wilkinson, mentre un organo vintage dà il tocco in più, per un effetto che a tratti ricorda anche i Neville Brothers, con le percussioni ad aggiungere un feel quasi latino. Medicated, dell’accoppiata Wilkinson/Mulé, ha un’aria più spigliata e sbarazzina, quasi sixties, mi ricorda certe cose della prima J.Geils Band,  anche nell’approccio vocale, ritmo ed energia per un pezzo coinvolgente.

Watch And Chain, con un bel piano elettrico, poi ricorrente, ad aprire le procedure, si avvicina a quel sound Subdudes/Radiators di cui si diceva, sempre il bottleneck di Mulé che incombe sul tutto e ritmi spezzati tra blues e rock di sostanza, con i fiati che sottolineano la voce di Aaron, con improvvisi stacchi funky https://www.youtube.com/watch?v=7Kvml9a5Mok . Katie scritta da Mulé, è una canzone quasi folk, solo chitarra acustica, armonica ed una ritmica discreta, deliziosa nella sua semplicità, il tocco di organo è geniale https://www.youtube.com/watch?v=d8LBRTgxrE0 , mentre Ain’t No Fun è un southern-blues-rock, con la slide potente di Mulé di nuovo in azione, e quel groove che ricorda i vecchi Little Feat ma anche le twin guitars degli Allman Brothers, grande brano, con il basso di Sam Price che è una vera potenza. She Goes Crazy, di nuovo di Mulé, ha  un groove elettroacustico che tanto ricorda i vecchi Subdudes, ma è meno efficace di altri brani; Through Another Day è uno dei brani più potenti della raccolta, introdotto dal suono dell’armonica, poi si sviluppa su intricate atmosfere southern che ricordano il sound dei primi Widespread Panic, con eccellenti intrecci chitarristici. Say It Isn’t True è una bellissima ballata con armonica, piano e una delicata chitarra wah-wah ad incorniciare una splendida performance vocale di Aaron Wilkinson. Il mandolino e l’acustica slide che aprono la conclusiva Devil’s Den, scritta insieme a John Mooney, potrebbero far pensare ad un brano tranquillo, ma poi il pezzo si sviluppa in un notevole crescendo e diventa quasi epico, pur rimanendo nei suoi tratti di “Bayou Americana”. Consigliato di cuore!

Bruno Conti

Una Delle “Glorie” Della Big Easy! Tommy Malone – Poor Boy

 

tommy malone poor boy

Tommy Malone – Poor Boy – M.C. Records/Ird

New Orleans, alla rinfusa, è stata la culla del jazz, del Dixieland, del ragtime, di Louis Armstrong e di King Oliver, di Jerry Roll Morton e Sidney Bechet: la Big Easy ci ha dato, nel dopoguerra, anche i primi barlumi del R&B e del R&R con Fats Domino e Dave Bartholomew, passando per Professor Longhair, Huey Piano Smith, giù giù fino ad arrivare a Dr. John, Allen Toussaint, Meters e Neville Brothers, che si possono considerare gli inventori del funky di New Orleans. Ma nella City Of New Orleans, NOLA, c’è anche una forte componente di bianchi, circa un terzo della popolazione, e quindi ci sono alcuni “cani sciolti” che ibridano, meticciano molti di questi stili con il rock americano classico, la british invasion, il blues, i Little Feat. Due di loro, i fratelli Dave e Tommy Malone, si sono inventati dei gruppi straordinari come i Radiators (From New Orleans) e i Subdudes.

 

Nel passato di Tommy ci sono stati anche  Dustwoofie, Continental Drifters e Cartoons (se volete investigare, ma è roba più difficile da trovare del tesoro del Pirata Barbanera). I Subdudes sono in stand-by, ma possono risorgere da un momento all’altro https://www.youtube.com/watch?v=p1qckEX7Axw , e quindi Tommy Malone può regalarci un nuovo disco da solista, questo Poor Boy,a meno di un anno di distanza dall’ottimo Natural Born Days https://www.youtube.com/watch?v=K_zl1wAmZSM , di cui vi avevo parlato molto positivamente proprio lo scorso anno http://discoclub.myblog.it/2013/07/01/da-new-orleans-tommy-malone-natural-born-days/ . Quel disco, grazie anche alla produzione di John Porter, forse era superiore a questo, co-prodotto dallo stesso Malone con il vecchio pard nei Continental Drifters, Ray Ganucheau e con la fattiva collaborazione, come autore, di Jim Scheurich, compagno d’avventura nei Dustwoofie, che già aveva contribuito a parecchi brani del penultimo disco. Pur nella diversità degli stili, e con una produzione decisamente più spartana e cruda, la qualità delle canzoni è comunque sempre decisamente buona. Come ricorda lo stesso Dave, e come si percepisce ascoltando i brani del CD, sono riaffiorati quei vecchi ricordi di una serata del 1964, quando i tre fratelli Malone, nel tinello della loro casa, come milioni di altri americani, vedevano e sentivano per la prima volta i Beatles all’Ed Sullivan Show. E’ passato qualche annetto, ora il nostro amico di anni ne ha 57, ma evidentemente quella impronta è rimasta.

 

E quindi questa volta, tra le mille influenze del musicista di New Orleans, si affacciano pure Beatles, Big Star, Costello e Nick Lowe, il power pop e i Kinks. Prendete il brano d’apertura, You May Laugh, che se nel timbro vocale può ricordare Ray Davies, ma anche Costello,  nel ritornello cita volutamente il titolo di un brano dei Fab Four, e la musica è puro pop anni ’60 https://www.youtube.com/watch?v=VDeDuv3pk-U , rivisto con l’occhio di un artista che non si limita a copiare pedissequamente, ma, nel suo DNA, ha l’imprinting del musicista di gran qualità, quelli che sanno scrivere belle canzoni, e poi confezionarle in un tripudio di chitarre e armonie vocali, tamburelli e organo sullo sfondo. Ma Malone sa comporre anche brani come Pretty Pearls, che sembra un brano di Dylan (bellissimo lo stacco di armonica e gli interventi del piano) cantato da un giovane Roy Orbison meno melodrammatico (benché grandissimo), la doppia voce di Ganucheau è sempre deliziosa e il suono minimale ha comunque un fascino senza tempo. Mineral Girl è forse quella che più riprende le tematiche del suono blues, ma assai raccolto, dei Subdudes più roots. All Dressed Up, definita dallo stesso Malone “a party song for geriatrics” https://www.youtube.com/watch?v=FJu17-QI-bI , ha quell’aria rock’n’ roll mista a blues (sempre per via dell’armonica) dei Subdudes più tirati, con la slide di Tommy Malone che si divide gli spazi con l’organo di Sam Brady. We Both Lose ha un giro armonico beatlesiano innestato su un groove alla Rockpile o Big Star, ma sempre con quel tocco personale inconfondibile da artigiano del pop, chitarre acustiche ed elettriche a iosa.

 

Bumblebee, il pezzo firmato con l’amico Pat McLaughlin (grande cantautore!), potrebbe venire dal lato “giusto” di Nashville, pensate ad un brano di Nick Lowe scritto per i vecchi Brinsley Schwarz, con quella miscela di rock e country che tanti anni dopo si sarebbe chiamata Americana; peccato, come dicevo all’inizio, per il suono un po’ pasticciato della produzione che non sempre permette di godere appieno le delizie di questi piccoli piatti da gourmet del pop. Spesso sembra che la batteria sia suonata su qualche pezzo di cartone capitato per caso in studio e l’effetto di primitivo R&R alla Buddy Holly via George o Paul, come in Time To Move On, sia del tutto casuale (o forse è voluto e mi sbaglio io, può essere). Once In A Blue Moon è una ballatona acustica come potrebbe farla il miglior Lyle Lovett, se fosse stato anche lui davanti alla TV in quella lontana serata. Crazy Little John ha ancora quello spirito country-folk delizioso e nel finale Malone tira fuori il suo miglior accento soul di New Orleans https://www.youtube.com/watch?v=8xux3N6np7c , prima con una intensa Talk To Me, cantata alla grande e poi con una cover inattesa di Stevie Wonder, Big Brother, che si trovava su quel capolavoro chiamato Talking Book; per la prima volta in vita sua Dave usa una batteria elettronica, a lui piace, io mi devo abituare, comunque il risultato è molto piacevole e la voce si gusta appieno. Bello, ma forse da lui ci si aspetta qualcosa di più!

Bruno Conti

Da New Orleans Tommy Malone – Natural Born Days

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Tommy Malone – Natural Born Days – M.C. Records/Ird

Questo Natural Born Days, tanto per mettere subito le cose in chiaro, è uno dei migliori dischi dell’anno in quel genere che potremmo definire “Country Got Soul”?, “Soul Got Blues”,?, fate voi, qualsiasi buona musica che sia “Got qualcosa”!. Sia rock, blues, country, R&B, funky, ballate, musica di New Orleans, prendetela e miscelatela ed otterete questo ibrido, questo Gumbo sonoro, che può provenire solo dalla Crescent City. Se i fratelli principali della città della Louisiana sono indubbiamente i Neville Brothers, anche la famiglia Malone ha dato un importante contributo alla reputazione di New Orleans. La storia dei fratelli Malone prende il suo abbrivio ad inizio anni ’70 con una band chiamata Dustwoofie, di cui ammetto di non avere mai ascoltato nulla, poi la carriera di Tommy Malone prosegue con agli altrettanti “oscuri” Cartoons, una band di R&B dove militava anche l’ottima vocalist Becky Kury (mi fido di quello che dicono le note del CD) e si incrocia anche con quella dei Continental Drifters, che da lì a poco (metà anni ’80) si sarebbero trasformati nei grandi Subdudes, che a fine decade avrebbero pubblicato il loro omonimo e ottimo disco d’esordio, proseguendo poi per altre due decadi (in due fasi, anni ’90 e reunion anni 2000) a deliziare gli amanti della buona musica, con una consistente serie di dischi, culminata con la pubblicazione di Flower Petals nel 2009 e la partecipazione alla colonna sonora di Treme e spero proseguirà anche dopo la pubblicazione del secondo disco da solista di Malone.

Lungo il suo percorso musicale ha collaborato, come Malone Brothers (ma non hanno inciso nulla a parte un live della serie Live At Jazzfest), con il fratello Dave Malone, co-leader dei formidabili Radiators (From New Orleans), che nel corso degli anni hanno inciso una dozzina di album più una miriade di dischi dal vivo, culminati con l’uscita del fantastico triplo The last Watusi, che riporta la registrazione del loro ultimo concerto al Tipitinas di New Orleans, a chiudere 33 anni di onorata carriera. Fine della digressione. Torniamo a Tommy Malone, che sino ad ora aveva pubblicato un unico album solo in precedenza, dodici anni fa, l’ottimo Soul Heavy, che peraltro, vista la difficile reperibilità, per usare un eufemismo, della etichetta locale Louisiana Red Hot, pochi avevano visto e meno ancora sentito. Il nostro amico Tommy è un ottimo chitarrista ma soprattutto è dotato di una voce espressiva, ricca di soul, che mette in evidenza le sue capacità compositive e la varietà di stili impiegati in questo Natural Born Days. Disco che segna il suo ritorno alla città nativa, dopo cinque anni di “esilio” in quel di Nashville, Tennesse, a seguito dell’uragano Katrina. Per l’occasione Malone ha anche riallacciato i rapporti con Jim Scheurich, musicista che faceva parte, una quarantina di anni fa, di quei Dustwoofie citati ad inizio articolo. I due hanno composto insieme ben sei brani, tra cui la struggente, a livello di testo, Home, ma la musica del brano d’apertura è un southern rock con uso di slide, degno dei migliori Allman, con il pianino di Jon Cleary (magico alle tastiere in tutto il disco) in grande spolvero e la voce di supporto di Susan Cowsill, che può ricordare quella di Susan Tedeschi. 

Grande partenza, ma è tutto il disco che soddisfa, anche grazie alla produzione di John Porter, mitico bassista inglese dei primi Roxy Music, ma da moltissimi anni uno dei migliori produttori in quel di New Orleans, l’ideale per chi vuole fare dei dischi ricchi di blues, soul e musica nera in generale, ma contaminati dal miglior rock. E così possiamo ascoltare l’intenso blues acustico di Hope Diner o l’accorata e bellissima deep soul ballad God Knows (I Just Ain’t Talkin’), con le tastiere solo per l’occasione affidate a Nigel Hall, degna dei migliori Delbert McClinton o John Hiatt, una piccola meraviglia. O ancora il funky carnale e vagamente reggato di Wake Up Time, scritto propria con il pard di McClinton, Gary Nicholson, alla pari coi migliori Neville o con i Radiators del fratello Dave Malone, con una chitarrina choppata e insinuante che si fa strada tra organo e sezione ritmica, per poi rilasciare un solo à la Radiators, quindi dalle parti di Lowell George. Distance è un’altra ballata, come le migliori scritte nel corso degli anni con i Subdudes, sempre con la seconda voce della Cowsill in evidenza e un alto tasso di soul nei contenuti. Mississippi Bootlegger, dedicata al padre, è uno swamp rock assatanato, dalle parti delle paludi della Louisana, ma che ricorda anche i migliori Creedence.

Didn’t wanna hear it è un altro brano lento, molto “atmosferico” e lavorato nei suoni e ci permette di gustare ancora una volta la voce molto espressiva di Tommy Malone, cantante ricco di pathos e tecnica vocale sopraffina. Natural Born Days scritta con Johnny Allen e il fratello Dave, è un bel country-funk o se preferite country got soul, degno ancora, nei suoi retrogusti gospel, del miglior Fogerty, o degli ultimi Subdudes che in Flower Petals avevano virato verso un sound più country, ma anche il sound classico della Band non si può dimenticare, molto bello. Altrettanto belle le melodie solari della dolce No Reason, con Malone che sfodera le sue capacità melodiche più accattivanti per un’altra chicca sonora, che chissà perché mi ha ricordato il miglior Costello, forse per la costruzione sonora, semplice ma raffinata al tempo stesso. Non manca neppure il country puro Nashville della caramellosa (ma di quelle buone) Important To Me, con John Porter al mandolino e Malone ad una twangy guitar. Life Goes On con slide acustiche ed elettriche che si incrociano, sta a cavallo tra Subdudes, Radiators e Little Feat, che non è un brutto andare, Susan Cowsill sostiene, non Pereira, ma l’ottimo Malone e Jon Cleary titilla ancora una volta il suo pianino magico. “Magica” anche la ballata Word In The Street che conclude in gloria le operazioni di un dischetto sorprendente che mi sento di consigliare a chi ama la buona musica che viene dal profondo del cuore e dell’anima!

Bruno Conti

Musica Dal Profondo Sud E Da New Orleans. Gran Bella Voce! Beth McKee – Next To Nowhere

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Beth McKee – Next To Nowhere – Swampgirl Music

Ho già incrociato la sua strada (come recensore per il Busca), un paio di volte:  la prima, molti anni fa, nella prima parte degli anni ’90, quando faceva parte delle Evangeline, un gruppo di New Orleans (ma lei è di Orlando, Florida) sotto contratto per la Margaritaville di Jimmy Buffett e con uno stile musicale intriso degli umori della Crescent City, quindi swamp music, cajun, country, roots e americana.

L’avventura non era finita bene, il gruppo si sciolse nel 1996 e da allora Beth McKee aveva fatto perdere le sue tracce. Poi, lentamente, nel corso degli anni, anche con lo stimolo e l’incoraggiamento del marito, Juan Perez, musicista pure lui, batterista per la precisione, ha ripreso la sua avventura nel mondo della musica incisa. In possesso di una bella voce (un giornalista della rivista Nashville Scene l’ha definita una “Bonnie Raitt giovane”), e di una notevole abilità musicale, suona piano, organo, synth, piano elettrico e accordion, riprende a incidere.

E qui avviene il secondo incontro con chi vi scrive, all’uscita del suo esordio da solista un I’m That Way dedicato alla musica di Bobby Charles, una delle leggende della musica di New Orleans. Un disco molto piacevole, tutte cover ma eseguite con gran classe e con lo sfoggio di una voce che è il suo migliore strumento e che la inserisce in quel filone dove navigano anche Susan Tedeschi, Kelley Hunt e altre cantanti di nicchia ma che regalano piaceri sopraffini agli amanti delle belle voci. Questo Next To Nowhere è il passo successivo: un album tutto di materiale originale firmato dalla stessa McKee con l’aiuto di alcuni dei musicisti che suonano con lei nell’album, tra i quali Tommy Malone dei Subdudes nella conclusiva Already Mine, ma che suona una tagliente slide guitar in parecchi brani dell’album.

Il nome dell’etichetta vi dice già che musica aspettarvi ma il suono è molto eclettico e variato: dall’errebi screziato di cajun della title-track con la fisarmonica della McKee a disegnare le sue evoluzioni tra chitarrine, tastiere e una sezione ritmica agile e preziosa. Ma anche l’eccellente funky meets Carole King di On The Verge (che poteva essere l’altro titolo del CD) dove appare anche una piccola sezione fiati, delle voci femminili che supportano alla grande la voce sicura della brava Beth e dei continui inserimenti di una solista intrigante. La successiva Shoulda Kept On Walkin’, quasi identica nel groove alla New Orleans con un organo hammond molto presente a destreggiarsi tra sax e ritmi sensuali. Not Tonight, Josephine fin dal titolo è un omaggio alle musiche e ai ritmi di Professor Longhair, di Fats Domino e degli altri grandi musicisti di quella città, con la stessa Mckee che si doppia nei due canali dello stereo per duettare con sé stessa mentre il suo pianino maliziosamente si impone nell’arrangiamento. Poi rincara la dose con una bellissima ballata come New Orleans To Jackson che si aggiunge ad una lista di brani dedicati alla città della Louisiana: un delizioso violino suonato da Jason Thomas impreziosisce l’arrangiamento mentre lei canta veramente come un incrocio tra “due giovani” Bonnie Raitt e Carole King, molto bello, le piccole delizie della musica di “culto”.

River Rush avrebbe fatto un figurone in Tapestry e la voce assume delle tonalità anche à la Joni Mitchell del periodo elettrico mentre coretti e piano elettrico duettano con la sua fisarmonica. Ma la nostra Beth sa anche maneggiare il blues elettrico e grintoso di un brano come Tug Of War dove la chitarra di Malone sale al proscenio. Someone Came Around è un un brano rock/R&B degno della migliore Susan Tedeschi (con o senza consorte al seguito), con un basso martellante, chitarre e piani impazziti nella migliore tradizione delle revue anni ’70. Same Dog’s Tail è nuovamente puro New Orleans Style con la bella fisa (correttore di bozze, occhio) della protagonista in evidenza. Return To Me scritta con i tre produttori dell’album è un’altra grintosa ballata dall’ampio respiro mentre la conclusione è affidata allo swamp blues della già citata Already Mine scritta con Tommy Malone e dove la McKee esegue un assolo “vecchio stile” al synth come non sentivo da secoli.

Non salverà le sorti della musica mondiale ma se cercate della bella musica non andate troppo lontano!

Bruno Conti