Bravi Ma Basta. Of Men And Monsters – My Head Is An Animal

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Of Monsters And Men – My Head Is An Animal – Universal Republic

Quindi, prendendo spunto dal titolo di una importante “opera” di Lino E I Mistoterital (ma esiste ancora? Il tessuto, non il gruppo!) eccoci a parlare di questa confraternita islandese di “figli di…” e una “figlia di…”(ma ce n’è una anche nella sezione fiati) dove tutti hanno un cognome con un suffisso che finisce per sson e dottir ma non hanno praticamente nulla in comune,almeno a livello musicale, con i connazionali Sugarcubes e Sigur Ros, le altre glorie nazionali.

Tutto comincia nel 2010 quando il gruppo vince il “Musiktilraunir”, ovvero la Battle of The Bands dei gruppi esordienti che procura loro un contratto a livello locale. Nell’estate del 2011 esce in Islanda questo My Head Is An Animal, titolo estrapolato dal brano Dirty Paws che apre l’album. Nella loro isola è subito un successo che attira l’attenzione soprattutto della stampa specializzata americana, Paste e USA Today li inseriscono nei nomi da tenere d’occhio per il 2012 e a marzo di quest’anno sono ospiti al South By Southwest di Austin e iniziano ad avere una buona base di fans soprattutto a Seattle e Filadelfia che poi si sparge in tutti gli States tanto che l’album, pubblicato là il 3 aprile, schizza subito al 6° posto della classifica di Billboard (ma sono già scesi dopo l’exploit iniziale).

Sarà vera gloria? Forse non è un caso che alla manifestazione texana, negli anni precedenti, avevano avuto successo due gruppi come i Mumford and Sons e The Head and The Heart con la musica dei quali questi Of Monsters And Men hanno più di un punto di comune, e si sono fatti anche i nomi dei Decemberists, Arcade Fire, Great Lake Swimmers, Death Cab For Cutie, band che fanno parte tutte di questo fenomeno definito del “neo-folk-rock”. Tutto vero, la loro musica si può avvicinare al sound di queste band, con brani dall’andatura quasi di marcette epiche con dei ritornelli pop in crescendo nella parte centrale del brano e l’utilizzo anche di fisarmonica e fiati a fianco delle classiche chitarre, acustiche ed elettriche, in gran copia, tastiere quanto basta ed una sezione ritmica discreta di stampo folk che è in grado di propellere improvvisamente le canzoni verso euforiche accelerazioni. Sul tutto galleggiano le voci dei due leader (spesso usate all’unisono), quella femminile, vispa ed espressiva, di Nanna Bryndis Hilmarsdottir e quella più piana di Ragnar Porhallsson che sono i punti di forza del gruppo.

Il disco pubblicato dalla Universal differisce leggermente dall’edizione che era uscita per il mercato islandese: è stato aggiunto un brano, From Finner e, in alcuni altri, dietro alla consolle siede Jacquire King, già responsabile del successo di Kings Of Leon, Punch Brothers, Norah Jones, anche Tom Waits e molti altri, quindi perfettamente in grado di maneggiare gli stili più disparati per un suono più professionale. Sin dall’apertura della citata Dirty Paws il copione dei brani è più o meno quello (e forse è l’unico limite, se ce n’è uno, della loro musica), attacco di chitarre acustiche arpeggiate sul quale entrano la voce (o le voci), poi si unisce, spesso in crescendo la band, à la Arcade Fire o Mumford and Sons, cori di gruppo inframmezzati da oh-ah-eh euforici e che catturano l’ascoltatore e brevi pause inserite ad arte prima che il sound d’insieme del gruppo si riappropri del tema musicale del brano.

In King and Lionheart la voce è quella di Nanna, con qualche deriva tonale non dissimile da una Bjork meno “schizzata”, e una pronuncia inglese piuttosto chiara che nel Lionheart ripetuto ad libitum (e nel primo ascolto non avevo capito cosa diceva per via di quello “strano” inglese che usano gli islandesi) si avvicina ai temi sonori cari alla musica folk britannica. Mountain Sound è un’altra marcettina cantata a voci alternate dai due leaders e per certi versi mi ricorda quei brani pop primi anni ’80, ma di quello nobile di Housemartins o Smiths con qualche tocco “celtico” come i primi Big Country. Slow And Steady, come da titolo, rallenta i tempi ma non la loro capacità di fondere tematiche pop, anche gli U2 o i Simple Minds di Street Fighting Years vengono alla mente, temperati dalla voce evocativa della Hilmarsdottir, mentre gli arrangiamenti corali delle voci non mancano di avvincere l’ascoltatore. From Finner potrebbe ricordare i Cranberries di Dolores O’Riordan, quelli più tenui a tinte pastello degli esordi (ed infatti è stato citato come altro punto di riferimento), la fisarmonica è lo strumento guida di questo brano. 

Little Talks, con i suoi fiati euforici e un ritornello irresistibile, è il singolo trainante di questo album, che sta uscendo a pelle di leopardo in questa operazione di conquista del mercato globale: in Italia, Regno Unito e nel resto d’Europa verrà pubblicato a metà maggio (con l’eccezione di Olanda, Svizzera e Germania dove è già uscito con un discreto successo). Alcuni brani hanno un notevole appeal radiofonico quindi non è da escludere che il disco possa diventare un long seller come è stato l’esordio dei Mumford che è tutt’ora nelle classifiche americane. Non tutti i brani sono memorabilizzabili: la seconda parte dell’album è meno fresca e frizzante, Six Weeks cantata dal solo Porhallsson non mi sembra memorabile (se mi passate il gioco di parole) e si risolleva nel finale quando entra la voce di Nanna. Viceversa Love Love Love con le sue atmosfere folk (qualcuno ha detto John Barleycorn?), sognanti e fiabesche, per una volta resiste al tentativo continuo dell’accelerazione sonora a tutti i costi. Your Bones si riallaccia ai brani epici della prima ondata del folk britannico già ripercorse da gruppi come i Decemberists con in più il tocco sonoro delle trombe e dei fiati in genere mutuati dagli Arcade Fire in una riuscita miscela. Sloom, di nuovo cantata dalle due voci soliste alternate parte quieta ed acustica fino al consueto finale più gioioso che li riavvicina nuovamente al suono dei Mumford and Sons.

Pur confermando un piccolo cedimento qualitativo nella seconda parte del CD anche nel finale si può ascoltare una vibrante Lakehouse, di nuovo in area Cranberries e la dolce Yellow Light con una lunga coda strumentale. Tanti i nomi di riferimento ma anche buona musica, vedremo se resisterà alla distanza e agli ascolti ripetuti. Bravi, ma basterà?

Bruno Conti