Grande Chitarrista, Grande Cantante, Altri Nove Ottimi Musicisti (E Qualche Amico): Che Disco! Tedeschi Trucks Band – Made Up Mind

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Tedeschi Trucks Band – Made Up Mind – Sony Masterworks

Sarà un caso che il disco esca per il ramo Masterworks della Sony, quello dedicato alla musica classica? Ovviamente no, in quanto l’album è già un piccolo “classico” nel suo genere. Già ma quale genere? Direi rock, blues, soul (tra Stax e Motown, con una spruzzata Muscle Shoals), funky e jazz, quindi di tutto un po’. Come facevano Delaney & Bonnie & Friends (con Eric Clapton) più di 40 anni fa. Ma la musica non risente del tempo che passa, anzi, come il buon vino, migliora. La fusione dei gruppi di Derek Trucks e della moglie Susan Tedeschi, che all’inizio poteva sembrare un azzardo, si è rivelata una mossa azzeccata: al di là del fatto che sicuramente non deve essere facile mantenere e portare in giro una band di 11 elementi, i risultati, prima con Revelator nel 2011, poi con l’eccellente doppio dal vivo Everybody’s Talkin’, che esplorava il lato più improvvisativo del gruppo e ora con questo eccellente Made Up Mind, confermano che la Tedeschi Trucks è una delle migliori entità musicali attualmente in circolazione sull’orbe terracqueo.

Come dice il titolo, un grande chitarrista, Derek Trucks, soprattutto alla slide, degno erede di Duane Allman e che rivaleggia con Ry Cooder per la maestria all’attrezzo, ma ottimo chitarrista anche complessivamente, nel lato ritimico e solista, e anche come compositore. Una grande cantante, Susan Tedeschi, in possesso di una voce bellissima, roca e sensuale, dolce e potente al tempo stesso, degna erede di voci come quella di Bonnie Raitt, di cui in questo disco, leggo da qualche parte, si sarebbe affrancata dalle, diciamo, affinità elettive, manco si parlasse di madonna o kylie minogue, non di una delle più grandi cantanti e chitarriste bianche nell’ambito blues e rock e quindi si tratta di un complimento, non certo di una critica. Senza dimenticare gente come Bonnie Bramlett, tanto per non fare altri nomi, vera diva, con il marito Delaney, nell’arte di fondere soul, R&B e rock. Mi pare invece che le similitudini tra gli stili delle due Bonnie e Susan Tedeschi siano ancora più evidenziate in questo nuovo album, che è un disco di canzoni ancora più rifinite, ma al contempo fresche e frizzanti, rispetto ai predecessori.

Non dimentichiamo che la band ha anche una sezione fiati di tre elementi, piccola ma compatta, Maurice Brown alla tromba, Kebbi Williams al sax e Saunders Sermons al trombone, che si applica con profitto anche alle armonie vocali, doppia batteria, J.J. Johnson e Tyler Greenville, come nella band di zio Butch Trucks, quattro diversi bassisti, ma solo in l’occasione di questo CD, e alternati nei vari brani, dal vivo, per il tour, hanno annunciato, il nuovo addetto allo strumento,sarà Eric Krasno, presente nel disco come chitarrista aggiunto e autore, uno dei “friends”. Chi manca? Kofi Burbridge, il tastierista, anche ottimo flautista e i due vocalist aggiunti, Mike Mattison (già cantante della Derek Trucks Band e leader degli Scrapomatic, qui forse un po’ sacrificato) e Mark Rivers. Tutti costoro, se serve, si danno da fare anche alle percussioni e, soprattutto, ci regalano undici canzoni, una più bella dell’altra.

A partire dal boogie rock blues dell’iniziale title-track dove Derek Trucks si divide tra slide e wah-wah, la moglie innesta un ottimo ritmo alla seconda chitarra e canta all grande, mentre il pianino di Burbridge e i fiati aggiungono pepe alle operazioni, ottima partenza. Do I Look Worried, scritta con John Leventhal, uno dei tanti ospiti, è un mid tempo sincopato ed emozionale, perfetto esempio di quel blues-rock got soul che è uno dei manifesti del disco, un paio di soli brevi ed incisivi di Derek, contrappuntati alla perfezione dai fiati e dalla voce partecipe di Susan. idle Wind è scritta con Gary Louris dei Jayhawks, un brano elettroacustico, dall’arrangiamento complesso, quasi jazzato, con il flauto di Kofi Burbridge a farsi largo tra gli altri fiati, la doppia batteria molto felpata e le armonie vocali soffuse, un perfetto esempio di jazz & soul revue, esplicato dall’assolo quasi modale di Trucks (la chitarra sembra quasi un sitar).

Sonya Kitchell (bravissima cantautrice) e il già citato Eric Krasno scrivono il super funky di Misunderstood, che con il suo clavinet e fiati, voci, chitarre wah-wah nel finale, organo e percussioni in libertà, sembra un brano dei tempi d’oro di Sly & Family Stone. Part Of me, scritta con Doyle Bramhall II e Mike Mattison, è anche meglio, pura Motown della più bella acqua, fino al falsetto fantastico di Sermons, che accoppiato con l’ottimo contralto di Susan, rievoca le armonie dorate di Tempations e Jackson 5, una piccola magia fin dalle chitarrine ritmiche e dalle sinuose linee della solista di Derek Trucks qui ispiratissimo, che trasporta parti del brano in zona Muscle Shoals, ovvero Stax, un matrimonio in Paradiso, in una parola, anzi due: una meraviglia!

Torna Louris come autore per una poderosa Whiskey Legs e qui le cose si fanno serie, la Tedeschi imbraccia la sua Gibson e risponde colpo su colpo alle bordate del marito Derek, in un brano di impianto rock-blues, dove anche l’organo si ritaglia i suoi spazi e che dal vivo probabilmente diventerà territorio di battaglia per gagliarde jam nella migliori tradizioni del genere, e del gruppo. La prima delle ballate del disco, It’s So Heavy, scritta da Trucks, ancora con Kitchell e Krasno, è un’altra meraviglia sonora, toccante ed emozionante, deep soul e melodia intrecciati, con i due solisti, Derek e Susan, in stato di grazia, lui alla chitarra e lei alla voce, a dimostrazione che la buona musica, quella genuina, è ancora viva e vegeta. All That I Need, con i suoi ritmi latini, vagamente santaneggianti, è nuovamente una collaborazione con Bramhall, brano forse (ma forse) minore, benché arrangiato sempre con precisione chirurgica, fiati, armonie vocali, tastiere, il tutto piazzato con cura nel tessuto sonoro del brano e le due “stelle” del gruppo che ricamano sull’insieme. Sweet And Low, l’altra ballata, è quasi più bella di It’s So heavy, malinconica e accorata, con la voce vellutata di Susan Tedeschi ancora una volta in spolvero, ma non c’è un brano dove non canti più che bene, quasi fosse un suo disco solista, accompagnata da una band da sogno e con una manciata (abbondante) di canzoni, tra i quattro e i cinque minuti, che rasentano la perfezione.

The Storm, scritta dai due con Leventhal, è l’unico pezzo che supera i sei minuti, e qui la coppia indulge nel proprio lato rock-blues e improvvisativo, dopo una lunga introduzione cantata da Susan, la parte strumentale imbocca anche percorsi jazz e jam, con le due soliste spesso all’unisono e Derek Trucks che fa i numeri di fino con la sua chitarra, sul solito tappeto di organo, fiati e una ritmica consistente, confermandosi uno dei migliori chitarristi attualmente in circolazione, come testimonia anche la sua militanza negli Allman Brothers. Qui c’è trippa per gli amanti della chitarra, dura 6 minuti e 35 ma dal vivo probabilmente si espanderà fino a quindici o venti. Finale minimale, acustico, solo la National steel di Derek, una seconda chitarra e la voce carezzevole e tenera di Susan per una dolce Calling Out To You. Per concludere, e anche questo non guasta, il disco è co-prodotto da Jim Scott (e non da Doyle Bramhall II, a parte un brano, come avevo erroneamente scritto nella anticipazione): è proprio quello di Wilco, Jayhawks, Court Yard Hounds, Crowded House e dei due dischi precedenti della band. Il sound è caldo, delineato, umano, respira con l’ascoltatore

Uno dei migliori dischi del 2013, fino ad ora, ma non ce ne saranno molti altri così belli.

Bruno Conti

Musica Dal Profondo Sud E Da New Orleans. Gran Bella Voce! Beth McKee – Next To Nowhere

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Beth McKee – Next To Nowhere – Swampgirl Music

Ho già incrociato la sua strada (come recensore per il Busca), un paio di volte:  la prima, molti anni fa, nella prima parte degli anni ’90, quando faceva parte delle Evangeline, un gruppo di New Orleans (ma lei è di Orlando, Florida) sotto contratto per la Margaritaville di Jimmy Buffett e con uno stile musicale intriso degli umori della Crescent City, quindi swamp music, cajun, country, roots e americana.

L’avventura non era finita bene, il gruppo si sciolse nel 1996 e da allora Beth McKee aveva fatto perdere le sue tracce. Poi, lentamente, nel corso degli anni, anche con lo stimolo e l’incoraggiamento del marito, Juan Perez, musicista pure lui, batterista per la precisione, ha ripreso la sua avventura nel mondo della musica incisa. In possesso di una bella voce (un giornalista della rivista Nashville Scene l’ha definita una “Bonnie Raitt giovane”), e di una notevole abilità musicale, suona piano, organo, synth, piano elettrico e accordion, riprende a incidere.

E qui avviene il secondo incontro con chi vi scrive, all’uscita del suo esordio da solista un I’m That Way dedicato alla musica di Bobby Charles, una delle leggende della musica di New Orleans. Un disco molto piacevole, tutte cover ma eseguite con gran classe e con lo sfoggio di una voce che è il suo migliore strumento e che la inserisce in quel filone dove navigano anche Susan Tedeschi, Kelley Hunt e altre cantanti di nicchia ma che regalano piaceri sopraffini agli amanti delle belle voci. Questo Next To Nowhere è il passo successivo: un album tutto di materiale originale firmato dalla stessa McKee con l’aiuto di alcuni dei musicisti che suonano con lei nell’album, tra i quali Tommy Malone dei Subdudes nella conclusiva Already Mine, ma che suona una tagliente slide guitar in parecchi brani dell’album.

Il nome dell’etichetta vi dice già che musica aspettarvi ma il suono è molto eclettico e variato: dall’errebi screziato di cajun della title-track con la fisarmonica della McKee a disegnare le sue evoluzioni tra chitarrine, tastiere e una sezione ritmica agile e preziosa. Ma anche l’eccellente funky meets Carole King di On The Verge (che poteva essere l’altro titolo del CD) dove appare anche una piccola sezione fiati, delle voci femminili che supportano alla grande la voce sicura della brava Beth e dei continui inserimenti di una solista intrigante. La successiva Shoulda Kept On Walkin’, quasi identica nel groove alla New Orleans con un organo hammond molto presente a destreggiarsi tra sax e ritmi sensuali. Not Tonight, Josephine fin dal titolo è un omaggio alle musiche e ai ritmi di Professor Longhair, di Fats Domino e degli altri grandi musicisti di quella città, con la stessa Mckee che si doppia nei due canali dello stereo per duettare con sé stessa mentre il suo pianino maliziosamente si impone nell’arrangiamento. Poi rincara la dose con una bellissima ballata come New Orleans To Jackson che si aggiunge ad una lista di brani dedicati alla città della Louisiana: un delizioso violino suonato da Jason Thomas impreziosisce l’arrangiamento mentre lei canta veramente come un incrocio tra “due giovani” Bonnie Raitt e Carole King, molto bello, le piccole delizie della musica di “culto”.

River Rush avrebbe fatto un figurone in Tapestry e la voce assume delle tonalità anche à la Joni Mitchell del periodo elettrico mentre coretti e piano elettrico duettano con la sua fisarmonica. Ma la nostra Beth sa anche maneggiare il blues elettrico e grintoso di un brano come Tug Of War dove la chitarra di Malone sale al proscenio. Someone Came Around è un un brano rock/R&B degno della migliore Susan Tedeschi (con o senza consorte al seguito), con un basso martellante, chitarre e piani impazziti nella migliore tradizione delle revue anni ’70. Same Dog’s Tail è nuovamente puro New Orleans Style con la bella fisa (correttore di bozze, occhio) della protagonista in evidenza. Return To Me scritta con i tre produttori dell’album è un’altra grintosa ballata dall’ampio respiro mentre la conclusione è affidata allo swamp blues della già citata Already Mine scritta con Tommy Malone e dove la McKee esegue un assolo “vecchio stile” al synth come non sentivo da secoli.

Non salverà le sorti della musica mondiale ma se cercate della bella musica non andate troppo lontano!

Bruno Conti 

Un Altro Grande Talento Che Non C’é Più! Sean Costello – At His Best Live

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Sean Costello – At His Best Live  – Landslide Records

Ultimamente mi è capitato spesso di occuparmi di “artisti che non ci sono più!”, Lester Butler e i suoi 13 (un-vero-peccato-ma-non-e-mai-troppo-tardi-13-featuring-leste.html) , Jeff Healey (un-adeguato-testamento-sonoro-jeff-healey-band-full-circle.html), ma anche Gary Moore (un-ultimo-saluto-gary-moore-live-at-montreux-2010.html) e a parte Healey si tratta di musicisti che ci hanno lasciato per problemi legati ad alcol o droga. Anche Sean Costello se ne è andato per una overdose, nel 2008, il 16 aprile, un giorno prima del suo compleanno. Avrebbe compiuto 29 anni! Un vero peccato, perché si trattava di un vero talento, di cui mi ero occupato per il Buscadero recensendo (se non ricordo male) un paio di suoi dischi.

Uno dei migliori chitarristi della sua generazione e, caso raro, anche un eccellente cantante, con un voce ora calda e suadente, nel repertorio vicino a soul e R&B, più rauca e vissuta quando si dedicava al Blues, forse l’unico a cui potrei avvicinarlo, di quelli ancora in circolazione, sia come stile e passione per i due generi, sia per le qualità vocali (ma Costello cantava anche meglio) direi che sia l’ottimo Tommy Castro. Nativo di Philadelphia ma cresciuto a Atlanta, Georgia (come ricorda lo speaker nell’intro al 1° brano), Sean ha iniziato la sua carriera discografica da giovanissimo, un altro enfant prodige che ha pubblicato il suo primo disco, Call The Cops, a 16 anni. Ma la fama è arrivata con la partecipazione, come chitarra solista, a Just Won’t Burn di Susan Tedeschi, con la quale, band al seguito, ha condiviso i palchi americani per un breve periodo facendo la giusta gavetta. Dal 2000 sono usciti altri 4 album a nome proprio, tutti molto buoni, che sono culminati nel 2008 con la pubblicazione del migliore di tutti, We Can Get Together, un disco veramente bello che fondeva le sue varie passioni, soul, blues e rock, unite ad una tecnica chitarristica eccezionale e una voce veramente coinvolgente.

E arriviamo a questo At His Best Live, che raccoglie materiale registrato nel corso della sua intera carriera, alternando brani di buona qualità sonora ad altri più ruspanti a livello sound, ma sempre notevoli per l’intensità della musica dal vivo. Si dice sempre che il meglio dei grandi musicisti (se c’è talento) si ascolta dal vivo e anche in questo caso non veniamo delusi. Dalla partenza Blues con il fulminante brano strumentale San-Ho-zay di Freddie King registrato nel 2000 passando per lo slow Blue Shadows (uno di quelli con suono “ruspante) registrato al locale di Buddy Guy a Chicago nel 2002 e nel quale lo spirito del titolare si impadronisce di Costello per un blues veramente torrido. E ancora, una formidabile T-Bone Boogie, registrata in Florida nel 2007, per non dire di una All Your Love di Magic Sam che fa rivivere lo stile del grande Bluesman di Chicago e dei suoi dischi per la Cobra e la Delmark. Ma c’è spazio per il funky di I get a feeling, uno dei cavalli di battaglia di Johnny Guitar Watson e l’errebi fantastico di Check It Out di Bobby Womack propelso da un giro di basso micidiale e in cui la voce di Sean Costello acquista coloriture “black” impressionanti e la chitarra scorre fluida e ricca di inventiva.

Bellissima anche Can I Change My Mind dove c’è spazio pure per l’organo di Matt Wauchope nell’accompagnare la voce super confidente di Costello. Suono ai limiti della decenza in You’re Killing My Love in cui Sean si cimenta con il repertorio di Mike Bloomfield, ma la chitarra viaggia alla grande. Stesso discorso per Reconsider Me, suono scarso ma grande performance. A Doing My Own Thing di Johnnie Taylor (altra passione mai nascosta) applica un trattamento alla Steve Marriott dei tempi d’oro degli Humble Pie, di cui ricorda moltissimo la voce, rock-blues ad altissima gradazione.

The Hucklebuck un duetto chitarra-organo pimpante può ricordare anche il sound di Ronnie Earl o Robillard a dimostrazione della sua ecletticità. Motor Head Baby è un altro brano di Johnny Guitar Watson notevole, peccato per il suono. Bellissima anche Hold On This Time un brano Stax scritto da Homer Banks per Johnnie Taylor, e qui si gode. The Battle Is Over But The War Goes On (che titolo!) non la ricordavo, ma siamo di nuovo in territori rock-blues con la chitarra tiratissima. Merita anche Peace Of Mind di Robert Ward dove anche il gruppo pompa alla grande dietro a voce e chitarra assatanate di Sean Costello. Si conclude con una Lucille ricca di energia. Se questo doveva essere il suo testamento sonoro dal vivo direi che, scontati i problemi tecnici di alcuni brani, ci ha lasciato della grande musica e il titolo del disco, per una volta, è conforme ai contenuti.

Bruno Conti 

Strani Casi Di Parentela! Trampled Under Foot – Wrong Side Of The Blues

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Trampled Under Foot – Wrong Side Of The Blues – TUF Records

 

Gruppi musicali con fratelli in formazione me ne vengono in mente parecchi, dai leggendari Kinks dei fratelli Davies per arrivare fino ai Black Crowes o ai fratelli Dickinson dei North Mississippi Allstars o gli Allman Brothers e i Beach Boys (anche con cugini e amici) per citarne alcuni. Nel Blues ci sono state molte coppie di fratelli, Jimmie e Stevie Ray Vaughan o Buddy & Phil Guy sempre per procedere per esempi.

In anni recenti a proposito di trii ci sono stati i giovanissimi (e bravissimi) fratelli della Homemade Jamz Blues Band ma questo trio di Kansas City, i fratelli Schnebelen (un bel nome d’arte più facile, no?), forse costituiscono una primizia (attendo notizie o smentite, non ho indagato a fondo, lo ammetto). Tre fratelli con due di loro, il chitarrista e la bassista che sono mancini.

Ovviamente tutto questo sarebbe ininfluente se non fossero anche bravi e parecchio. Lei, Danielle, è la più giovane, si è studiata il basso per poter creare questo gruppo familiare (anche il padre e la madre sono musicisti)  ed è diventata più che adeguata, direi brava, nel suo strumento, ma soprattutto è in possesso di una gran bella voce sulla scia di quelle bianche che da Bonnie Raitt a Susan Tedeschi e Ana Popovic per citare delle chitarriste/cantanti ma anche Dana Fuchs o Michelle Malone potrebbero rientrare nella categoria, si sono create una reputazione di voci “importanti”. Ispirate dalle grandi voci del passato e la nostra amica cita soprattutto Etta James come fonte di ispirazione, queste vocalist cercano di fondere il meglio di blues, soul e rock e spesso ci riescono.

In questo Wrong Side Of the Blues i Trampled Under Foot (si, è un brano dei Led Zeppelin su Physical Graffiti) lo fanno bene, sicuramente aiutati dal fatto che il fratello Kris che è il batterista e soprattutto Nick che è il chitarrista, e ha vinto l’Albert King Award nell’International Blues Challenge del 2008 come chitarrista più promettente, sono anche loro ottimi musicisti. Se uniamo il fatto che la produzione di questo album è curata da Tony Braunagel, un batterista blues tra i migliori in circolazione che ha saputo catturare al meglio il sound del gruppo (batteria in primis, e questo già dà una carica di vitalità a un disco) che è al secondo album (oltre ad un live e a un EP solo per il download di difficile reperibilità) le premesse per “scoprire” un gruppo interessante ci sono tutte.

Il materiale è tutto originale, con un paio di brani firmati dal babbo Bob. Ci sono un terzetto di altri ospiti, Mike Finnigan che si occupa di organo e piano da par suo in alcuni brani, Johnny Lee Schell alla chitarra e armonie vocali e consigli chitarristici (così dicono loro nelle note) che con Braunagel suona nella Phantom Blues Band.  Oltre a Kim Wilson all’armonica in She’s Long, Tall and Gone che è un bluesaccio torrido cantato da Nick Schnebelen, anche ottimo vocalist in alternanza alla sorella Danielle e non è facile avere gruppi con due cantanti di questo livello. Lei è favolosa in brani come Goodbye una ballata soul gospel blues con l’organo di Finnigan e la chitarra di Nick in grande evidenza. Quelle voci roche e vissute, piene di personalità, che ti regalano grandi emozioni sin dall’iniziale Get it straight che ricorda la migliore Bonnie Raitt con i suoi ritmi mossi e incalzanti.  

Ottimi anche i ritmi alla Bo Diddley di Bad Woman Blues con le voci dei fratelli che si integrano (e canta anche il batterista) e una slide acustica che si adagia su una base ritmica quanto mai variegata (vi dicevo, batterista produttore). Però quando canta lei c’è un cambio di marcia come nella title-track, l’ottima Wrong Side Of The Blues o nelle sinuosità funky di Heart On the Line e un gruppo che sarebbe già buono diventa quasi irresistibile. Ancora ottima The Fool con un incipit quasi Hendrixiano e l’organo di Finnigan che fa il Winwood della situazione e un brano cantato da Nick  che lentamente si trasforma fino a prendere una andatura classica blues nel più puro stile Chicago alla Muddy Waters, bellissimo, veramente bravi questi ragazzi, non conoscevo (ma ci sono tonnellate di gruppi di valore nel sottobosco della scena musicale americana).

Have a Real Good Time ha l’attacco di batteria che è preso di sana pianta da Rock and Roll dei Led Zeppelin e poi diventa appunto un R&R scatenato con il pianino di Finnigan e le voci dei fratelli che si alternano con gusto.

Ma è bello tutto il disco, molto vario, anche se una citazione per lo slow blues It Would Be Nice cantato con passione da Danielle e con un assolo da manuale di Nick mi sentirei di farla. Ottimo e abbondante.    

Bruno Conti

Con Leggero Anticipo 4. Uscite Da Confermare: Bruce Springsteen, Tedeschi-Trucks Band, Warren Haynes

Visto che non ho ancora avuto il tempo per ascoltare bene il nuovo Paul Simon e comunque manca qualche settimana all’uscita (12-04) vado con le previsioni “secolari”, così un po’ alla rinfusa.

Cominciamo col il vecchio Bruce (Springsteen): ma qui si va nel campo delle pie speranze. Pare che che Steven van Zandt in una intervista ad una radio di Philadelphia abbia detto che il suo pard sta lavorando a un progetto solista (ma per il 2012, non eccitatevi) che potrebbe essere un seguito delle Seeger Sessions o un vero e proprio album solo prima di tornare a lavorare con la E Street Band. Su un versante più sicuro (ma difficile da scalare) il 16 aprile per il Record Store Day 2011 uscirà un 10 pollici in vinile di Springsteen: Gotta Get This Feeling/Racing In The Street, questo qui sotto. Buona Ricerca!

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Tedeschi-Trucks Band Revelator in uscita il 7 giugno prossimo per la Sony Masterworks. Questo è il link per il sito http://www.tedeschitrucksband.com/ dove troverete un altro link per iscrivervi alla mailing list e poi vi mandano nella posta un ulteriore link per scaricare gratuitamente un brano tratto dal nuovo album, chiaro?

Tracklist:

1. Come See About Me
2. Don’t Let Me Slide
3. Midnight In Harlem
4. Bound For Glory
5. Simple Things
6. Until You Remember
7. Ball And Chain
8. These Walls
9. Learn How To Love
10. Easy Way Out
11. Love Has Something Else To Say
12. Shelter

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Warren Haynes – Man In Motion – 10-05-2011 Stax/Universal

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Tracklist:

1. Man In Motion
2. River’s Gonna Rise
3. Everyday Will Be Like A Holiday
4. Sick Of My Shadow
5. Your Wildest Dream
6. One A Real Lonely Night
7. Hattiesburg Hustle
8. A Friend To You
9. Take A Bullet
10. Save Me

Musicisti: Ivan Neville, organo e background vocals, Ian McLagan piano, Ruthie Foster backing vocals, George Porter Jr. basso, Ron Holloway sax. Registrato ai Pedernales Studios di Willie Nelson. Video del brano già eseguito nel concerto di Natale…

Qualche bella notiziola, direi che per oggi può bastare.

Bruno Conti

Una Delle Più Affascinanti Voci In Circolazione! Kelley Hunt – Gravity Loves You

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Kelley Hunt – Gravity Loves You – 88 Records

All’incirca un anno fa vi parlavo in termini entusiastici della “scoperta” di questa nuova cantante Kelley Huntkelley+hunt e vi magnificavo le sue doti vocali contenute in due dischi come Mercy e New Shade of Blue paragonandola in termini più che lusinghieri a Susan Tedeschi e Bonnie Raitt, ma anche a Bonnie Bramlett e Maggie Bell, spingendomi financo ad Aretha Franklin.

Orbene, alla resa dei conti di questo nuovo Gravity Loves You non posso che confermare tutto e questo è veramente ammirevole considerando che il nuovo album è tutto farina del suo sacco (nel senso che ha scritto tutti i 12 brani contenuti nel CD, con l’aiuto di tale Caryn Mirriam-Goldberg che ne firma otto con lei). Quindi in questo caso nessuna cover e tutto materiale originale, si è anche autoprodotta utilizzando alcuni ottimi musicisti provenienti dall’area di Nashville, con la presenza dell’organo Hammond B3 di Mark Jordan,l’unico legame con il disco precedente.

La musica è rimasta quella deliziosa amalgama di funky soul, jazz alla Donald Fagen e blues. Le cose sono chiare fin dall’iniziale Too Much History, con il basso a 5 corde di Tim Marks che impone un ritmo funky e il piano elettrico della stessa Hunt e l’organo di Jordan che si contendono con la chitarra dell’ottimo James Pennebaker le linee sonore del brano, Bryan Owings con la sua batteria disegna grooves precisi ed inventivi mentre la nostra amica canta con quella sua voce calda e naturale senza forzature ma ricca di sfumature, come si suole dire una “gran bella voce”, non saprei dire in altro modo. Forse tra le “nuove” voci attualmente in circolazione l’unica che potrei paragonare alla Hunt per phrasing e bravura è quella di Janiva Magness, ma qui, secondo me, a livello vocale, siamo addirittura un gradino sopra, andatevi a sentire (è una esortazione all’acquisto? Sì!) come modula la voce nella bluesata Gravity Loves You che dà il titolo a questo album.

Quando entra anche il gospel nelle corde della sua musica, come nella delicata ballata These are the days non posso fare a meno di pensare nuovamente alla “Queen of soul”, la grande Aretha! Le sue canzoni suonano sempre “familiari” perché ti ricordano un qualcosa che sfugge ma che in fondo è solo buona musica con il meglio di quello che il passato ha saputo offrire rivisto attraverso un nuovo approccio, Music Was The Thread potrebbe essere un esempio di quanto appena detto, uno splendido esempio, gli inglesi direbbero gorgeous!

Deep old love è un’altra di queste canzoni che galleggiano tra soul, funky e vaghi sentori jazz alla Steely Dan o alla Phoebe Snow con questa voce sinuosa che galleggia tra le note con classe sopraffina. Non mancano le ballate deep soul come la stupenda This Love o le escursioni in uno scatenato rock’n’roll con tanto di slap bass come nella divertente I’m Ready. Quando i tempi sterzano verso un rock-soul energico come nell’eccellente The House Of Love Kelley Hunt non si tira certo indietro e sostenuta da un paio di voci femminili porta a casa il risultato ancora una volta. Anche quando i tempi rallentano e si entra nella canzone “adulta” come in When The Deal Came Down pur se meno convincente la sua voce piace sempre. Poi si rientra nel puro errebì godurioso di The Land Of Milk Honey e si tocca perfino il boogie in Shake It Off Right Away. La conclusione, giustamente, è affidata a In The End ( lo dice anche il titolo) un bellissimo brano solo piano e voce, cantato con grande intensità e che conferma tutto quanto affermato fin qui.

Vogliamo fare un appunto? Forse non ci sono brani di punta, ma la qualità è comunque medio-alta. Se non la avete considerata al primo giro siete sempre in tempo a ripensarci, sarete ricompensati da 45 minuti (circa) di ottima musica e da una delle migliori voci in circolazione attualmente. La qualità delle immagini dei video inseriti non è fantastica ma è compensata abbondantemente da quella della musica. Pensate che quando ho scritto l’articolo precedente si trovavano solo un paio di suoi video in YouTube, ora, fortunatamente è spuntano come i funghi!

Bruno Conti

Una Donna “Indipendente” – Michelle Malone – Moanin’ In The Attic

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Michelle Malone Banned – Moanin’ In The Attic – SBS Record

Questa signora è indipendente in tutti i sensi: perché, da anni, si è creata la sua etichetta discografica e perché non fa parte di nessun filone musicale o genere particolare. Nella sua musica confluiscono mille influenze, dal blues al rock classico, al southern rock, agli amati Stones, ma poi viene frullato tutto e il risultato è una delle più eccitanti, e sconosciute, voci femminili in circolazione. Una vera rocker in gonnella che si mangia Sheryl Crow per colazione (e badate bene che a me la Crow, pur con le sue cadute di stile, piace parecchio), compete con Bonnie Raitt e Susan Tedeschi come chitarrista (soprattutto slide ma ha anche una grinta riffaiola degna del miglior Keith Richards) e ha una “gemella virtuale” nella altrettanto poderosa Dana Fuchs che probabilmente (anzi sicuramente) a livello vocale le è superiore ma in quanto a grinta è una bella lotta.

La nostra amica è originaria di Atlanta, Georgia, una delle patrie del southern rock e ha iniziato la sua carriera nel 1988 con l’album New Experience (votato tra i Top 5 dell’anno da, tra tutte le riviste, Playboy), è stata subito “scoperta” da Clive Davis che l’ha messa sotto contratto per la Arista, affidandola alle cure di Lenny Kaye (Patti Smith Band e “inventore” di Nuggetts) che ha prodotto il suo disco con i Drag The River Relentless tra gli osanna della critica e discrete vendite. Risultato: scaricata in un nanosecondo. Da lì ha iniziato il suo pellegrinaggio transitando anche per la Velvel records di Walter Yetnikoff un altro dei grandi della musica “prodotta”.

Per farla breve, come tanti prima e dopo di lei, ha deciso di fondare la propria etichetta e distribuirsi in proprio (croce e delizia degli appassionati, perché i risultati sonori spesso sono decisamente migliori ma trovare i dischi diventa un’impresa): risultato, secondo Wikipedia la sua discografia consta di 14 album, secondo il suo sito http://michellemalone.com/, dove li trovate tutti (meno un paio) sono 12 in studio e 11 dal vivo, mica male per una che gira con una chitarra con la scritta “Indipendent”.

Quindi questo è l’undicesimo dal vivo e, forse, il migliore, registrato l’8 maggio di quest’anno all’Eddie’s Attic di Atlanta (anzi per la precisione a Decatur, ho dato un’occhiata e dalla lista di musicisti che ci hanno suonato mi è venuta voglia di trasferirmi lì!). Particolare non trascurabile quel giorno era il suo compleanno, ma veniamo alle operazioni.

Si parte con un’orgia di slide intitolata Tighten Up The Springs dove la brava Michelle ricorda una sorta di Thorogood in gonnella con un groove boogie scatenato che apre la danze alla grande e poi sfocia nell’eccellente Undertow, uno dei suoi brani migliori, ancora con la slide in evidenza ma anche la chitarra nell’altro canale dello stereo non scherza e comincia a macinare assoli (il sound è molto vintage e ricorda quello dei grandi dischi dal vivo degli anni ’70, Johnny Winter Live, i Vinegar Joe di Elkie Brooks e Robert Palmer per chi li ricorda, una Bonnie Raitt infoiata dagli AC/DC e l’immancabile Janis Joplin).

I musicisti della sua band con tanto di batterista donna (Katie Herron) e con l’eccellente Jonny Daly alla chitarra sanno come costruire un groove ma sono anche capaci di finezze all’interno di un brano, ad esempio Camera un ondeggiante e vagamente funky canzone dove Michelle Malone estrae anche l’armonica d’ordinanza e ci delizia con la sua grinta mista a dolcezza. Flagpole mi ricorda quei brani southern-rock alla Outlaws con un misto di acustico ed elettrico, tra country e rock, con il ritmo che accelera in un crescendo inarrestabile e dove le chitarre prima acustiche e poi elettriche si scatenano ben coadiuvate da un pianino insinuante e tu ti ritrovi con il piedino che segue irretito il tempo sempre più coinvolgente.

Ma la nostra amica è anche balladeer di grande fascino e lo dimostra nel duetto con l’ospite Tim Tucker nella delicata Go easy, un brano di quelli che non si dimenticano, molto bello. Beneath The Devil Moon del 1997 è uno dei dischi migliori della sua discografia (ma ce ne sono di brutti?), quello dove appaiono come ospiti le Indigo Girls e che contiene In The Weeds una bellissima rock ballad qui ripresa in una versione monstre di oltre dieci minuti, dove Michelle Malone e il suo gruppo dimostrano di essere all’altezza della loro fama come uno dei migliori Live Acts in circolazione (un’altra che, soprattutto dal vivo, non scherza un c…o è Grace Potter & The Nocturnals peccato per l’ultimo disco). Il crescendo chitarristico nella parte centrale ti inchioda alla poltrona e se ami il rock puro e duro godi come un riccio.

Miss Mississippi è quasi meglio, introdotto da una Michelle Malone in trip vocale si dipana lentamente come un figlio illegittimo di On The Road Again e di Lagrange degli ZZTop tra sventagliate di chitarra, armoniche impazzite e la sezione ritmica implacabile e la Malone che invoca la presenza di qualche ZZTop tra il pubblico, poi evolve, dopo qualche cazzeggiamento con il pubblico e altre schitarrate in libertà, in una versione micidiale di Roadhouse Blues dei Doors con Tim Tucker che ha aggiunto il suo piano al procedere delle operazioni.

Teen lament se non sapessi che si chiama così perché c’è scritto sulla copertina del disco potrebbe essere una versione al femminile di Honky Tonk Women degli Stones, stesso DNA, probabilmente stessi accordi, ma chi se ne frega, il risultato è fantastico, rock coinvolgente come poche volte capita di sentire e una Malone ormai preda dei suoi istinti di diabolica performer che improvvisa sul nome Tim una improbabile lista di variazioni sul tema, da sentire per credere.

Dopo un altro gagliardo rock che risponde al nome di Yesterday’s Make Up c’è anche tempo per una cavalcata rock-blues vecchio stile che risponde al nome di Restraining Order Blues dove la slide fa la sua riapparizione e per un bis sul tema nell’ottima Rooster 44 prima di concludere le operazioni in una orgia di boogie e rock and roll, Traveling and Unraveling altri dieci minuti di musica ad altissima tensione con i musicisti ancora preda dei fumi del R&R di qualità e chitarre in libertà come nei concerti che si rispettino.

Il brano finale è un sentito omaggio ai più volte citati Rolling Stones, tutti calmi, tranquilli e seduti ad ascoltare una bella versione di Wild Horses.

Per i fans e gli estimatori un disco da non perdere, per chi non conosce un eccellente punto di partenza. Musica Viva e dal vivo.

Bruno Conti