Meglio Tardi Che Mai! Suzanne Vega – An Evening Of New York Songs And Stories

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Suzanne Vega – An Evening Of New York Songs And Stories – Cooking Vinyl CD

Mi accingevo a scrivere questa recensione verso la fine del mese di aprile, quando all’improvviso, per gli effetti del lockdown, il disco, che era annunciato in uscita per il primo maggio, venne rinviato a data da destinarsi. Alla fine è stato pubblicato pochi giorni fa, e visto che si tratta di un bel dischetto dal vivo eccoci a parlarne. Suzanne Vega non è certo nuova ai dischi Live. In una carriera che ormai tocca quest’anno i 35 anni di attività discografica, compreso questo An Evenng Of New York Songs And Stories, i dischi registrati in concerto arrivano a quota sei (e solo nove in studio nello stesso periodo). La cantante newyorchese (anche se nativa di Santa Monica, in California) non è forse una performer straordinaria, celebre per i suoi spettacoli turbolenti, ma ha comunque un suo charme e gusto nelle esibizioni dal vivo, mutuato dai suoi studi giovanili in danza moderna e dalle sue frequentazioni, ad inizio carriera, dei locali del Greenwich Village, dove proprio al “celebre” Cornelia Street Cafe ha mosso i primi passi, celebrati nelle pubblicazioni della rivista e nei dischi della serie Fast Folk, grazie ai quali ottenne un contratto con l’etichetta A&M, che pubblicò il suo omonimo album di esordio nel 1985.

In un periodo in cui perlopiù imperava un tipo di musica tra il bombastico e il danzereccio, si segnalò per una sua diafana ed eterea bellezza, anche se poi il suo stile da folksinger voce e chitarra acustica, venne adornato dalla eccellente e ricercata produzione affidata a Lenny Kaye (ex Patti Smith Group) e al chitarrista Steve Addabbo, entrambi presenti anche nel successivo Solitude Standing. Due dischi di grande successo, il primo vendette circa trecentomila copie sia negli Stati Uniti che in in Inghilterra, il secondo un milione di copie in USA e 5 milioni in tutto il mondo, generando anche due singoli di enorme successo come Marlene On The Wall e Luka. Uno potrebbe pensare che le grandi hit vengano riservate per la conclusione del concerto e invece, a sorpresa, sono poste entrambe in apertura di questo CD dal vivo, estrapolato da due serate registrate al Cafe Carlyle di New York il 12 e il 14 marzo del 2019. Accompagnata da un piccolo gruppo, un trio per la precisione, con Jeff Allen al contrabbasso, Jamie Edwards alle tastiere, più vibrafono, archi sintetici e altri strumenti assortiti, e dal chitarrista Gerry Leonard, che si occupa anche della produzione, Suzanne Vega sciorina 24 perle delle sua produzione, tutte con argomento che verte sulla città di New York (una in effetti è Walk On The Wild del suo amico Lou Reed e alcune tracce sono solo degli intermezzi parlati).

Niente uso di batteria, ma le canzoni hanno comunque una “elettricità” latente come quella presente in una limpida e vibrante Marlene On The Wall, raffinata canzone d’amore degna discendente di quelle della Joni Mitchell meno cerebrale e ricercata, anche se il testo è poetico ed intricato, con la chitarra elettrica di Leonard e il piano di Edwards a fornire un elegante supporto alla vocalità delicata ma sicura di Suzanne. Che poi in Luka affronta un tema a lei molto caro, quello della violenza e dell’abuso sui bambini, che forse stride nell’ambiente molto upper class del Carlyle, locale frequentato da un pubblico probabilmente non uso agli argomenti della canzone, ma che ha comunque una affinità con le tematiche rappresentate dalla celebre concittadina, e poi la canzone ha in ogni caso una melodia deliziosa ed irresistibile, non intaccata dallo scorrere del tempo. Preceduta dal piccolo siparietto in cui chiede al pubblico quante persone vengono da fuori città, ecco arrivare la dolce New York Is A Woman, un brano del 2007 che sembra uno standard della canzone americana, per poi raccontare la travagliata storia d’amore di Frank And Ava, ovvero Sinatra e Gardner, il tutto si svolgeva in un appartamento della 59° Strada, e l’arrangiamento è più teso e movimentato per rappresentare le baruffe che avvenivano tra i due.

Senza fare un elenco di tutte le canzoni presentate nella serata, vorrei ricordare il valzer sognante della deliziosa Gypsy, sempre da Solitude Standing, la dura presa di posizione di The Pornographer’s Dream, confezionata però a tempo di bossa nova per contrasto al testo molto intenso. New York My Destination dall’impianto jazzy e rilassato, tratta dall’ultimo album Lover, Beloved: Songs from an Evening with Carson McCullers del 2016, e che ricorda certe cose di Carole King, l’omaggio a Lou Reed in una adorabile ed affettuosa rilettura di Walk On The Wild Side che fa il paio con la versione di Sweet Jane dei Cowboy Junkies , preceduta da un breve ricordo del suo primo incontro con Lou, come spettatrice a un concerto, e con un bellissimo assolo della chitarra elettrica di Leonard, la quasi angosciante e sospesa Ludlow Street, su un amore finito male, Tom’s Diner, con il celebre vocalizzo che poi è stato utilizzato come base di partenza della versione hip-hop del duo DNA e la conclusiva Thin Man, dove l’intervento di una base ritmica, un giro di basso marcato e una chitarra elettrica in evidenza che interagisce con le tastiere, crea una atmosfera sonora più complessa ed elaborata che non sarebbe dispiaciuta a Donald Fagen.

In definitiva un bel dischetto dal vivo per chi ama le emozioni meno forti e più rarefatte e distillate.

Bruno Conti

Nonostante La Lunga Assenza E’ Ancora Una Songwriter Coi Fiocchi! Kathleen Edwards – Total Freedom

kathleen edwards

Kathleen Edwards – Total Freedom – Dualtone CD

L’album di cui mi accingo a scrivere è una specie di piccolo evento, in quanto si tratta del quinto lavoro di Kathleen Edwards, cantautrice canadese tra le più interessanti ad aver esordito nel nuovo millennio che però era ferma discograficamente da ben otto anni. Dopo tre ottimi dischi pubblicati tra il 2003 ed il 2008 (Failer, Back To Me e Asking For Flowers, tutti molto apprezzati sia dalla critica che dal pubblico) la Edwards si era presa cinque anni di pausa prima di tornare nel 2012 con il valido Voyageur https://discoclub.myblog.it/2012/01/26/una-viaggiatrice-particolare-kathleen-edwards-voyageur/ , ma da allora le notizie che la riguardavano erano uscite con il contagocce. Oltre ad aver aperto una coffee house a Stittsville (sobborgo della natia Ottawa), pare infatti che Kathleen abbia sofferto di una seria forma di depressione e che solo in tempi recenti sia riuscita a venirne fuori: una parte del merito è da attribuire a Maren Morris, la quale ha chiesto alla Edwards di scrivere una canzone per il suo album del 2019 Girl (il brano in questione è Good Woman), spronandola in maniera decisa a riprendere in mano la sua carriera musicale.

Il risultato di questo ritorno è Total Freedom, un album che fin dal primo ascolto si rivela davvero bello e riuscito, e che ci mostra un’autrice che non ha perso lo smalto nonostante la lunga assenza dalle scene. I dieci brani del disco sono perfettamente bilanciati tra folk, rock e pop come di consueto, ma è la vena compositiva della protagonista che fa la differenza, insieme alla sua classe interpretativa che non è peraltro mai stata in discussione. Ballate profonde che si alternano a brani più movimentati, il tutto eseguito con grande feeling ed eleganza: molti hanno paragonato Kathleen a Suzanne Vega, ed il parallelo secondo me calza anche se la Edwards ha comunque un suo stile ed una sua personalità che in questo lavoro la porta anche verso atmosfere quasi californiane. Prendete lo splendido brano d’aperura, cioè la mossa Glenfern, una raffinata ed elegante ballata dal ritmo cadenzato, background pianistico ed un motivo pulito e diretto, quasi come se la Vega si fosse ritrovata in studio con i Fleetwood Mac. L’album è prodotto da Jim Bryson e Ian Fitchuk, che collaborano con la Edwards anche in veste di musicisti (rispettivamente a chitarra e piano il primo ed al basso il secondo) insieme ad un collaudato gruppo che vede come elementi di spicco i chitarristi Blair Hogan e Gord Tough, il batterista Peter Von Althen, lo steel guitarist Aaron Goldstein e, alle backing vocals in un brano, la brava “collega” Courtney Marie Andrews.

Dopo la già citata Glenfern l’album prosegue con Hard On Everyone, caratterizzata da un tempo veloce ed un bel lavoro chitarristico che entra sottopelle, il tutto nobilitato dalla voce limpida di Kathleen che sciorina un’altra melodia discorsiva e decisamente gradevole nonostante una leggera malinconia di fondo; la gentile Birds On A Feeder è una squisita ballata di stampo acustico con al centro la voce cristallina della Edwards ed un accompagnamento scarno ma di classe, mentre Simple Math è uno slow elettroacustico dal tono crepuscolare e dotato di una linea melodica purissima, eseguito anch’esso con notevole finezza. Il ritmo torna a salire nell’orecchiabile Options Opens, primo singolo dell’album che può contare su un refrain delizioso ed una strumentazione perfetta in cui le chitarre dicono la loro con misura, un pezzo in aperto contrasto con la seguente Feelings Fade, folk song dall’atmosfera rarefatta ma con un motivo che non manca di provocare qualche brivido grazie anche ad una leggera orchestrazione che aggiunge altro pathos.

Fools Ride è intimista, con gli strumenti che a poco a poco fanno crescere l’intensità lasciando però sotto i riflettori la voce di Kathleen, Ashes To Ashes è un altro incantevole bozzetto per voce, chitarra acustica e poco altro, la breve Who Rescued Who è invece una piacevole e solare pop song ancora “veghiana”, che ci porta alla conclusiva Take It With You When You Go, toccante e bellissima ballatona pianistica che mette la parola fine con grazia e feeling ad un disco che conferma la bravura di Kathleen Edwards e la sua voglia ancora intatta di fare ottima musica.

Marco Verdi

Sempre A Proposito Di Voci Femminili Intriganti. Haley Heynderickx – I Need To Start A Garden

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Haley Heynderickx – I Need To Start A Garden – Mama Bird Recording Co.

Ho sempre avuto una particolare predilezione per le voci femminili: siano quelle poderose del rock, o quelle intense e fenomenali delle dive del soul, ma anche in ambito folk e pop-rock,  dalla grande Joni Mitchell a Laura Nyro, Carole King, Sandy Denny o Joan Armatrading,  ma pure gente dalla vita e dalla carriera sfortunata, come Judee Sill o Karen Dalton, Carolyn Hester. Nelle generazioni successive mi hanno affascinato le canadesi Jane Siberry e Mary Margaret O’Hara, per cui quando ho letto paragoni con Haley Heynderickx, rispetto alla O’Hara (ma anche con Angel Olsen, tra le contemporanee e Vashti Bunyan, che probabilmente Haley conosce, essendo della stessa generazione, le altre non so), mi sono detto che era il caso di estrarre il manuale Guido Angeli/San Tommaso e provare, per eventualmente credere.

Dopo avervi stordito di nomi, potrei aggiungere anche  una Suzanne Vega più sognante ed umbratile, che d’acchito mi ricorda nella prima canzone, la breve e scarna No Face, solo la voce e la chitarra acustica arpeggiata della filippino-americana Heynderickx (inserita nella scena locale di Portland, una delle più vivaci negli States): testi surreali e poetici, come nella particolare The Bug Collector, che parla di visioni di strani insetti che sono metafore per persone e situazioni della vita reale e non immaginata, seppur vividamente dall’autrice, e qui la musica si fa più complessa, il fingerpicking è più intricato, può ricordare anche la prima Laura Marling (non l’avevamo ancora citata?), poi entra il contrabbasso di Tim Sweeney a scandire il tempo, ci sono i tocchi sonori del produttore Zak Kimball, un trombone con la sordina suonato da Denzell Mendoza, le percussioni di Phillip Rogers, che saranno poi i musicisti presenti anche negli altri sei brani di questo album, solo circa 30 minuti di musica, ma assemblati con certosina pazienza nei Nomah Studio di Kimball, grazie ad un autofinanziamento che ha portato Haley quasi alla bancarotta.

Ma il disco c’è, è bello, comincia a delinearsi, è alt-folk se volete chiamarlo così, ma non solo: Jo,  parte ancora soffusa,  una elettrica accarezzata e la voce della Heynderickx , che comincia ad assumere tonalità quasi leggiadre, grazie al suo vibrato fragile e  forte al contempo, poi entrano il basso e la batteria, la canzone si fa affascinante, ma quando uno sta per dire – toh,  Mary Margaret O’Hara – è già finita, bella però. E Worth It, il brano più lungo con i suoi quasi otto minuti, è ancora più bella, partenza con la solita chitarra elettrica arpeggiata, ma la voce comincia ad essere ancora più ricercata e appassionata, con vocalizzi quasi spericolati, mentre la sezione ritmica vira a tratti verso un rock intenso e i continui cambi di tempo tengono avvinto l’ascoltatore alle derive folk-rock del brano, dove le acrobazie vocali che hanno portato ai paragoni con la O’Hara assumono un senso, grazie anche alla seconda voce della bassista Lily Breshears che rende l’insieme ancora più “spaziale” https://www.youtube.com/watch?v=jnJURSfVoMg . Fosse tutto così l’album sarebbe un capolavoro, ma il disco grida forte “talento al lavoro”, come conferma l’avvolgente ed affascinante Show You A Body, dove il piano della Breshears aggiunge impronte  jazz ad una ballata notturna e complessa, fin troppo concisa nella sua durata, tutto è studiato e realizzato con certosina abilità.

Molto bella anche Untitled God Song con il suo strano approccio con una divinità al femminile e lo stile musicale che di nuovo incorpora l’uso del trombone, e una voluttuosa slide tangenziale nel suo soffuso e delicato folk-rock, dove la voce non domina ma accompagna gli strumenti, e in Oom Sha La la, il brano che contiene il verso “I Need To Start A Garden” che dà il titolo all’album, si incrocia un tema musicale che ricorda a tratti i Velvet Underground e un pigro pop-doo-wop, per  accelerare in un finale in cui la voce assume tonalità quasi isteriche.  A chiudere il tutto di nuovo il delicato folk acustico della cristallina Drinking Song dove si apprezza di nuovo la vocalità inconsueta di Haley Heynderickx, che non sarà Mary Margaret O’Hara ma sicuramente è una delle nuovi voci più interessanti della scena alternativa (e non) e merita di essere conosciuta con questo bel disco.

Bruno Conti

Una Sorta Di Novella Joni Mitchell 2.0? Weather Station – Weather Station

weather station weather station

Weather Station – Weather Station – Paradise Of Bachelors

I Weather Station sono una “band” di Toronto, fondata dalla brava cantautrice canadese Tamara Lindeman, band che nel corso degli anni ha subito vari cambi di formazione, fino ad arrivare a questa ultima “line-up”: un trio composto oltre che da Tamara, chitarra, banjo e voce, da Ben Whiteley al basso (Basia Bulat), e Don Kerr alla batteria, con il contributo di musicisti del valore di Ben Boye alle tastiere (Ryley Walker), il chitarrista Nathan Salsburg, e dei colleghi cantautori Daniel Martin Moore, e Alfie Jurvanen in arte Bahamas, oltre all’intrigante musicalità di un quartetto d’archi.  L’album di debutto risale al teatrale The Line (09), a cui fanno seguito il più maturo ed emotivo All Of It Was Mine, un lungo EP What I Am Going To Do With Everything I Know (14), con sonorità e atmosfere più distese, per poi trasferirsi nella bella Parigi per registrare Loyally (15), il loro disco più intenso e ambizioso, prima di arrivare a questo lavoro omonimo, registrato nuovamente in patria negli studi Hotel2Tango di Montreal, disco che assembla undici brani in forma letteraria e poetica, su un bel tessuto musicale di nuovo molto ambizioso e in parte anche“cinematico”.

Le “previsioni meteorologiche” di Tamara e dei suoi aiutanti iniziano con il folk elettrico di Free https://www.youtube.com/watch?v=4H38qeiD70U , a cui fanno seguito la solare armonia di una “agreste” Thirty, e poi una sontuosa ballata orchestrale (quasi barocca) come You And I (On The Other Side Of The World), per poi cambiare in parte ritmo con una nervosa Kept It All To Myself, con un bel lavoro della sezione ritmica e delle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=liDW1ZIrP6g . Non c’è spazio per un calo di tensione in questo lavoro, e la dimostrazione è nell’incedere tambureggiante della seguente Impossible, passando poi al sussurrato “talking blues” di Power, cantata con soave grazia da Tamara, arrivando quasi a rasentare la psichedelia con l’intrigante Complicit https://www.youtube.com/watch?v=T7FcWBZTZlM , e sbalordirci con il moderno valzer di Black Flies, percorso dalla dolci spire di un flauto. Le previsioni ormai volgono al meglio, e lo dimostrano la pianistica, tenue e lievemente “jazzata” Don’t Know What To Say. in cui sembra di sentire l’eleganza sonora di Suzanne Vega, i “gioiosi” arpeggi di ampio respiro di In An Hour, e chiudere alfine le previsioni meteo con il piano e i soavi archi di una “mitchelliana” The Most Dangerous Thing About, che non fa che confermare la classe e la bravura di questa cantautrice di Toronto (e la sua ragione sociale The Weather Station).

Ho letto su varie riviste di settore che Tamara Lindeman viene accostata, di volta in volta, per affinità musicali e vocali a cantautrici quali Linda Perhacs, Suzanne Vega, Aimee Mann, ma, non c’erano dubbi a proposito, soprattutto alla grande Joni Mitchell (ed è quello che pensa anche chi scrive, con i dovuti distinguo sulla classe immane della Mitchell), e anche se per ora il nome di questa “signorina” non è troppo conosciuto dalle nostre parti, presumo che si sentirà parlare parecchio di lei nei prossimi anni, in quanto questo ultimo lavoro non è un semplice album di mere canzoni, ma una narrazione letteraria che si fonde con la forza comunicativa della sua musica. Devo ammettere che non conoscevo bene la sua musica, ma alla fine di questo percorso recensorio e dell’ascolto anche dei suoi primi dischi, mi sbilancio a dire che siamo di fronte ad uno dei talenti più cristallini del nuovo cantautorato femminile americano (canadese) in circolazione.

Tino Montanari

Doppio Omaggio Ad Uno Dei Più Grandi Songwriters! Parte 1: Una Serata A New York (Con Lou Reed). Kris Kristofferson & Lou Reed – The Bottom Line Archive: In Their Own Words With Vin Scelsa

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Kris Kristofferson & Lou Reed – The Bottom Line Archive: In Their Own Words With Vin Scelsa – BFD/RED 2CD

Non è mai fuori luogo parlare di Kris Kristofferson, uno dei maggiori cantautori di sempre, e quindi vorrei farlo approfittando di due uscite recenti che lo riguardano: oggi è la volta di un doppio dal vivo molto particolare, mentre in un post separato tratterò del bellissimo concerto-tributo a lui dedicato tenutosi lo scorso anno a Nashville. Come probabilmente saprete, il Bottom Line è stato uno dei più leggendari teatri da concerto degli Stati Uniti: aperto nel 1974 nel cuore del Greenwich Village a New York e (purtroppo) chiuso trent’anni dopo, ha visto suonare al suo interno la crema della musica mondiale; da qualche anno è iniziata la pubblicazione di concerti presi dagli archivi della storica location, con album che hanno riguardato, tra gli altri, Willie Nile, Jack Bruce, Pete Seeger con Roger McGuinn, Ralph Stanley e Doc Watson. L’ultima uscita è un doppio CD molto interessante, che riguarda una serata che vede protagonisti due maestri assoluti come, appunto, Kris Kristofferson ed il grande Lou Reed, registrata nel Febbraio del 1994. Lo show fa parte della serie di spettacoli che occasionalmente si tenevano al Bottom Line ed intitolati In Their Own Words, durante i quali gli ospiti suonavano alcuni dei loro classici e rispondevano alle domande di Vin Scelsa, famosissimo conduttore radiofonico americano.

E questo episodio che riguarda Kris & Lou è, come ho già detto, decisamente interessante: i due ospiti sono in ottima forma, ed accettano di buon grado di rispondere alle domande di Scelsa, spesso anche con pungente ironia (cosa che non manca di divertire il pubblico) ma comunque con grande disponibilità, cosa normale per Kristofferson ma niente affatto scontata per Reed, che è sempre stato un vero tormento per giornalisti ed intervistatori in genere (ed anche in quella serata ogni tanto risponde in maniera laconica e di tanto in tanto tira fuori le unghie, come quando alla domanda “Qual è il tuo incubo peggiore?” replica “Dover rispondere a domande come questa”). Le domande di Scelsa vertono su argomenti di vario tipo (a seconda del destinatario: il songwriting, i Velvet Underground e Warhol, il mondo di Nashville negli anni sessanta, l’infanzia, New York, ecc.) ed i dialoghi sono piacevoli e mai pesanti all’ascolto. Ma la parte del leone la fa naturalmente la musica: entrambi gli artisti erano di casa al Bottom Line, in quanto Kris ci ha suonato in tutto 42 volte in carriera e Lou 54 (registrandoci anche il famoso live Take No Prisoners), e nella serata alternano performance di classici e qualche brano minore in versione stripped-down, con Kristofferson alla chitarra acustica e Reed all’elettrica (non ci sono duetti, ma tutti e due suonano anche nelle canzoni dell’altro) e con la partecipazione straordinaria alle armonie vocali di Victoria Williams, con la sua tipica voce un po’ da cartone animato, e la più sofisticata Suzanne Vega.

Lou Reed alterna brani famosi a qualche chicca (e stranamente non suona nulla da Magic And Loss, il suo ultimo album all’epoca), iniziando da Betrayed, una bellissima canzone tratta da Legendary Hearts (disco dal quale viene eseguita anche l’intensa title track), suonata e cantata in maniera toccante. Poi ci sono due pezzi dallo splendido New York, la coinvolgente Romeo Had Juliet e la potente Strawman (Scelsa aveva richiesto Dirty Boulevard, ma Lou preferisce assecondare il desiderio di Kristofferson), la rara Why Can’t I Be Good, tratta dalla colonna sonora di Faraway, So Close di Wim Wenders (una tipica rock ballad delle sue) e la superclassica Sweet Jane, durante la quale Kris tenta di infilare un assolo di armonica ma Lou lo stoppa subito al grido di “No harmonica, Kris!”, suscitando le risate del pubblico ed anche dello stesso cantautore texano. Ed ecco proprio Kristofferson, che non manca di suonare quelli che sono forse i suoi tre evergreen assoluti, Sunday Morning Coming Down (in medley con la splendida The Pilgrim), Help Me Make It Through The Night e la strepitosa Me And Bobby McGee; ci sono però anche classici minori ma di altissimo profilo come Shipwrecked, Sam’s Song (dedicata a Sam Peckinpah), To Beat The Devil e Burden Of Freedom. Nel finale, Scelsa chiede ai due di eseguire una cover a testa di un brano che amano: Kris sceglie Bird On A Wire di Leonard Cohen (la cui prima frase dice di volere come epitaffio sulla sua tomba) e Reed stupisce tutti con una stupenda versione “alla Lou” di Tracks Of My Tears di Smokey Robinson. Un (doppio) dischetto forse non indispensabile, ma di sicuro estremamente scorrevole e piacevole.

Marco Verdi

*NDB Video o video/audio del concerto tenuto insieme non ce ne sono, per cui ho inserito due concerti del 1994: Lou Reed in solitaria per il 1° maggio a Roma e Kris Kristofferson al Farm Aid. Il CD doppio ve lo comprate!

Quasi quasi è meglio la moglie del marito! Ellie Holcomb – Red Sea Road

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Ellie Holcomb – Red Sea Road – Full Heart CD

Ellie Holcomb, nata Elizabeth Bannister, è la moglie di Drew Holcomb, cantautore rock già autore di diversi album a capo dei suoi Neighbors, l’ultimo dei quali, Medicine (2015), è senza dubbio il più bello. (*NDB Ora ne è uscito un altro nuovo http://discoclub.myblog.it/2017/03/30/saluti-da-nashville-il-meglio-nel-genere-americana-drew-holcomb-the-neighbors-souvenir/ ). Ma Ellie non vive nell’ombra del marito, né ha bisogno del suo aiuto per fare dischi, in quanto è un’ottima cantautrice in her own right come direbbero in America, e aveva già dimostrato di valere con i due EP pubblicati ad inizio carriera e soprattutto con il debut album As Sure As The Sun, uscito tre anni orsono. Quelle come la Holcomb negli States sono definite Contemporary Christian Artists, cioè per le quali la religione e le tematiche cristiane rivestono un’importanza fondamentale, sia a livello testuale che musicale: nel caso di Ellie l’argomento religioso viene trattato più che altro nelle liriche, in quanto le sue canzoni non recano alcuna traccia di musica gospel, ma sono bensì caratterizzate da un uso prominente di chitarre e pianoforte, che costruiscono intorno alla voce bella e sensuale della bionda cantante il perfetto alveo per valorizzarle al meglio. Se As Sure As The Sun aveva fatto rizzare le orecchie a più di un critico, questo nuovo Red Sea Road è ancora meglio, in quanto ci presenta tredici brani decisamente belli, profondi, ispirati, con una strumentazione classica ed un uso molto parco ed intelligente di suoni più moderni, il tutto prodotto con mano sicura da Brown Bannister, che oltre ad essere il padre della ragazza è anche un esperto ed acclamato producer (ha lavorato, tra gli altri, con Amy Grant e CeCe Winans).

Tra i musicisti meritano una segnalazione senz’altro Ben Shive e Nathan Dugger, rispettivamente alle tastiere e chitarre, che si sobbarcano buona parte del merito della riuscita del disco, grazie al loro accompagnamento fluido e classico, che rende le ballate di Ellie, già belle ed intense per conto loro, quasi perfette (il marito Drew invece compare poco, solo nei backing vocalist in un paio di pezzi ed alla chitarra acustica nel brano finale). Una vera sorpresa dunque, un CD senza un solo momento sottotono e con diverse canzoni splendide, raffinate, ma anche decisamente coinvolgenti ed emozionanti. Già il brano d’apertura, Find You Here, fa vedere di che pasta è fatta Ellie: una bella ballad, distesa e rilassata, caratterizzata da un ottimo motivo e da un sapiente impasto di chitarre e piano, un fulgido esempio di come si possano costruire belle canzoni con semplicità. He Will è ancora meglio dal punto di vista melodico, con un notevole refrain ed un’affascinante atmosfera eterea, oltre ad un uso per nulla invasivo dell’elettronica: splendido poi il crescendo finale; la title track è limpida, scorrevole, di nuovo con una melodia di prim’ordine ed una strumentazione perfettamente cucita intorno alla voce espressiva della Holcomb: un bell’inizio, anche sorprendente, e non è che il resto sia meno valido, a partire dalla piacevolissima You Are Loved, il classico brano che se ascoltato di prima mattina mette di buon umore per tutto il resto della giornata.

La pimpante Fighting Words ha una base folk ed una ritmica pressante (la si può paragonare allo stile dei Lumineers), ed il ritornello è perfetto per il singalong, I Will Never Be The Same è più riflessiva, ma a poco a poco il motivo corale avvolge l’ascoltatore in una gradevole spirale sonora, mentre Wonderfully Made è lenta, profonda, meditata: l’inizio è per voce e chitarra, poi entra un violoncello e senza accorgercene ci ritroviamo coinvolti in un altro crescendo sonoro niente male. La fresca We’ve Got This Hope è quasi bucolica, vicina alle cose più intime di Suzanne Vega, You Love Me Best è pianistica e struggente, con una delle melodie più intense e toccanti del CD, un brano davvero splendido, mentre la breve God Of All Comfort è la più folk del lotto, solo voce, chitarra ed una leggera tastiera, ma non per questo è meno ricca di pathos. Notevole anche Rescue, che oltre ad un altro refrain bellissimo è costruita intorno ad un affascinante tappeto di chitarre (ben sei, di cui cinque acustiche); l’album si chiude con la vibrante Living Water, con un altro delizioso motivo, e con la tenue e delicata Man Of Sorrows. Gran disco: se non siamo ai livelli del marito ci manca veramente poco.

Marco Verdi

Le CSN In Gonnella Degli Anni 2000? Forse, Ma Non Solo: Case/Lang/Veirs

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Case/Lang/Veirs – Case/Lag/Veirs – Anti/Epitaph

Quando alcuni mesi fa (ma ne parlavano da tempo tra loro, e nel 2013 su Warp And Theft della Veirs era già successo)) Neko Case, k.d. lang Laura Veirs, in stretto ordine alfabetico), hanno deciso di unire le loro forze per registrare un album insieme, la prima obiezione che era stata fatta a questo progetto era quella dell’equilibrio da raggiungere tra i tre diversi talenti impegnati in questa operazione. Va detto subito che mi pare ci siano riuscite, in quanto le tre cantanti hanno saputo realizzare comunque una serie di canzoni dove le loro voci si amalgamano alla perfezione, in uno stile che, come ricordo nel titolo del Post, può essere considerato una sorta di versione 2.0  e femminile dei gloriosi intrecci vocali dei Crosby Stills Nash dei tempi d’oro: ovvero, tutte e tre a turno mettono a disposizione le proprie canzoni e si alternano alla guida dei vari brani, ma poi armonizzano in modo splendido, praticamente in tutte le canzoni contenute in questo disco, prodotto in modo misurato e brillante dal marito di Laura Veirs, Tucker Martine, che ha registrato l’album nei propri studi casalinghi di Portland, Oregon, utilizzando anche una sezione archi e dei fiati, oltre ad una serie di musicisti non celeberrimi (probabilmente il più noto dei quali è Glenn Kotche, il batterista dei Wilco) ma assai efficaci nel ricavare il meglio dal materiale proposto dalle tre autrici.

Non tutti i 14 brani sono forse dei capolavori, ma l’album si ascolta con piacere e pur evidenziando l’indie-pop raffinato di Neko Case, il folk intellettuale e brillante di Laura Veirs (un po’ alla Suzanne Vega) e il jazzy pop sognante e brillante a livello vocale di k.d. lang, a tratti sorprende per le citazioni (certo non nuove, ma sempre gradite) di Best Kept Secret, un rock solare e californiano, mosso e di impronta rock, direi quasi alla Bangles, ed è inteso come un complimento, con le voci, guidate da Neko Case, che fluttuano con estrema godibilità sul tappeto di archi e fiati di stampo beatlesiano realizzato da Martine, mentre chitarre e tastiere e sezione ritmica confezionano un delizioso tourbillon di frizzante pop, nella accezione più brillante e nobile del termine. In alcuni brani, come nell’iniziale Atomic Number, l’intreccio delle voci rasenta la perfezione assoluta, con un’aria malinconica ma serena che esce dalle note di questa splendida canzone. O nella magnifica Song For Judee,dedicata ad una delle più geniali, brillanti e sfortunate cantautrici dell’epopea californiana, quella Judee Sill che fu grande almeno come le sue contemporanee Joni Mitchell, Laura Nyro Carole King, e in questo brano gli agganci con il country-pop west-coastiano di CSN ci sta tutto, tra viole sognanti, pianoforti e una batteria delicata che aggiungono tratti quasi barocchi a questo brano sempre malinconico, ma pervaso comunque da questa aurea serenità senza tempo.

I brani più riconoscibili sono indubbiamente quelli di k.d. lang., Blue Fires, Honey And Smoke 1.000 Miles Away ci rimandano a quell’allure tra jazz e pop dei migliori brani di Ingenue, il suo disco più conosciuto, impreziositi dalle armonie delle amiche Case e Veirs. Ma è nei momenti corali che le tre eccellono, in Delirium sembra di ascoltare quasi dei Mamas And Papas trasportati per incanto ai giorni nostri (senza Papas, solo Mamas) o qualche girl group d’antan che ci delizia con questo pop raffinato, dove una “scivolata” di organo Farfisa o un colpo di tamburello sono posizionati con incredibile precisione tra gli svolazzi vocali. Green Of June, fonde il folk-rock al pop più complesso, sempre tra archi, marimbe, vibrafoni, tastiere e chitarre acustiche, mentre le voci richiamano gruppi come  Renaissance, Fairport Convention o i californiani It’s A Beautiful Day e i Joy Of Cooking di Terry Garthwaite Tony Brown. Anche Behind The Armory si muove in quello spettro sonoro tra la Annie Haslam più folk e qualche tocco di Suzanne Vega Laura Marling, meno intellettuali e più “popolari”.

Supermoon potrebbe uscire proprio dal primo album della Vega, anche se le voce di Laura Veirs è meno monocorde e gli intrecci armonici e l’uso degli archi aggiungono un tocco di “dream folk”. Però è quando le voci si sommano, come nella corale I Want To Be Here, che le tre ragazze ricordano gli intrecci vorticosi dei CSN citati all’inizio, in versione femminile e con un’altra prospettiva sonora, ma l’idea di base è quella. Niente male pure Down o la sognante e morbida Why Do We Fight, dominata dalla splendida voce della canadese k.d. lang, con le altre che le fanno da damigelle d’onore, per poi affidare la conclusione ad un altro dei pezzi forti di questo album, una Georgia Stars dove la Case (o è la Veirs?) rievoca di nuovo questa specie di folk futuribile, discendente lontano di quello cerebrale della Mitchell, figlio di quello indie alternative della Vega e sempre graziato dai brillanti florilegi di voci e strumenti che interagiscono in modo perfettamente calibrato. Forse, anzi sicuramente, si tratta di musica già sentita, ma confezionata così come non la si ascoltava da tempo, quindi merita la vostra attenzione.

Bruno Conti

Quanto A Talento Anche Qui Non Si Scherza, “L’Album Americano” Di Laura Marling – Short Movie

laura marling short move

Laura Marling – Short Movie – Ribbon Music/Caroline/VIrgin/Universal

Laura Marling ha compiuto 25 anni il 1° febbraio scorso, ma in cinque anni di carriera ha già pubblicato cinque album; il primo Alas, I Cannot Swim, uscito in concomitanza del suo 18esimo compleanno. Ed è uno dei rari casi, in presenza di musica di qualità, in cui il successo commerciale e quello di critica sono sempre andati a braccetto. Mi è capitato alcune volte di parlare dei dischi della Marling sul Blog e non ho potuto giustamente esimermi dal magnificarne la bellezza, e anche per questo Short Movie non posso che confermare: siamo di fronte ad un talento in continuo divenire ed il nuovo album è assolutamente da gustare senza remore di alcun tipo. Nel titolo del Post parlo di “album americano”,  solo in quanto lo stesso è stato concepito ed influenzato dalla permanenza di Laura sull’altro lato dell’oceano, California e New York, soprattutto la prima, i luoghi dove ha vissuto per un paio di anni, anche se nel frattempo, alla fine del 2014, è tornata a vivere a Londra. Proprio a Londra era stato comunque completato e registrato il disco, con l’aiuto dei produttori Dan Cox Matt Ingram, quest’ultimo anche batterista e percussionista all’interno dell’album; il vecchio amico Tom Hobden dei Noah And The Whale (dove Laura aveva militato tra il 2006 e il 2008, fino alla fine della sua relazione amorosa con Charlie Fink), al violino e archi, Nick Pini (che nella presentazione del CD avevo erroneamente chiamato Pinki) al basso e la collaboratrice storica Ruth De Turberville al cello, completano il cast dei musicisti utlizzati nel disco. La stessa Laura Marling si è occupata delle chitarre, acustiche ed elettriche.

E qui sta la sorpresa nel sound del nuovo disco: il babbo di Laura le ha regalato una Gibson ES 335, e come lei stessa ha detto in varie interviste questo fatto ha inlluenzato profondamente il sound delle canzoni, tanto che in fase di presentazione aveva parlato addirittura (spaventandomi non poco) di album “elettronico”, forse anche per l’uso dei Pro-tools, utilizzati dagli assistenti al mixaggio. Per fortuna gli ingredienti tecnici e strumentali, per quanto importanti, non hanno inficiato la qualità dei brani, come al solito molto elevata e anche se possiamo parlare di un suono più elettrico, a tratti, lo stile della Marling rimane quel folk classico con innesti rock e la vicinanza ai nomi classici del cantautorato, Joni Mitchell in primis, ma anche Suzanne Vega, e gli alfieri del nuovo folk-pop, oltre ai citati Noah And The Whale, Mumford and Sons, Johnny Flynn, spesso suoi compagni di avventura, senza dimenticare quelle influenze di Pentangle (quindi Renbourn e Jansch, ma anche Donovan e Incredible String Band) Fairport Convention, Sandy Denny, Linda Thompson, e dischi classici del rock britannico, come Led Zeppelin III o i Pink Floyd più bucolici. Ovviamente per molti di questi nomi si può che parlare di influenze indirette, magari la nostra amica manco li conosce o li frequenta, ma si “respirano” nel panorama inglese e nei suoi dischi, forse incosciamente https://www.youtube.com/watch?v=mUnZybH1nTE .

Questo “lavoro” sul timbro della voce conferisce a tratti un’aura sognante alle canzoni, come nell’iniziale Warrior, percorsa anche da effetti sonori e percussioni varie che arricchiscono il tessuto del brano, per il resto sorretto solo dall’arpeggio della chitarra acustica, ma l’eco, la voce che si avvicina e si allontana danno un tocco di magia che la rende più affascinante, inizio intrigante. In False Hope appare la prima chitarra elettrica, il suono si fa decisamente più rock, un riff “sporco” e ripetuto che prelude all’ingresso della batteria, ma sempre con effetti e tocchi geniali che rendono più incisivo il risultato sonico, che qualcuno ha paragonato alle cavalcate di PJ Harvey,  eroina del rock alternativo britannico, altri ci hanno visto echi di Patti Smith e dei Velvet Underground, comunque lo si veda brano eccellente, canzone ispirata dall’incontro ravvicinato con l’uragano Sandy a New York, e che nei primi reportage sul disco era stata presentata erroneamente come Small Poke (mi ero fidato anch’io di quanto letto, ciccando di brutto). I Feel Your Love, una canzone su un amore contrastato almeno a livello cerebrale, vive sugli spunti della chitarra acustica fluida e vivace della Marling, e si colloca musicalmente a metà strada tra la divina Joni e Suzanne Vega, con il lavoro del cello e degli archi che nebulizzano il suono. Walk Alone con la sua chitarra elettrica gentilmente pizzicata profuma di California e della gloria mai passata della West Coast più geniale, con Laura che cerca anche degli arditi falsetti che ricordano sempre quella signora di cui sopra, mentre il solito cello provvede a rendere più corposo il tutto. In Strange Laura Marling assume una tonalità vocale sardonica, maliziosa, quasi “perfida”, nel suo fustigare questo uomo sposato che ama la protagonista della canzone, ma diventa a sua volta il protagonista negativo del brano, che musicalmente, tra percussioni e chitarre acustiche, si situa in quella nicchia che sta tra i Led Zeppelin e i cantautori acustici dei primi anni ’70. Don’t Let It Bring You Down racconta della sua permanenza californiana a Sliver Lake, il primo luogo da poter chiamare casa, dopo sei anni vissuti girovagando, il pezzo sembra, anche vocalmente, una canzone dei primi Pretenders di Chrissie Hynde, se avessero voluto dedicarsi al folk-rock, e prende il meglio di entrambi i mondi, l’eleganza del folk e la briosità del pop.

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Easy contiene un verso tra i più visionari del disco “How did I get lost, looking for God on Santa Cruz? Where you go to lose your mind.  Well, I went too far this time” e musicalmente naviga ancora i mari della folk music più raffinata, con influenze quasi orientaleggianti nel cantato onirico e nel fingerpicking della chitarra. Gurdjieff Daughter’s cerca di raggiungere la “quarta via” proposta dal mistico e filosofo armeno, ma musicalmente sembra quasi un brano dei primi Dire Straits, un bellissimo pezzo elettrico cantato in piena souplesse dalla Marling, che si gode questo tuffo in una canzone costruita secondo la migliore tradizione della musica pop e rock, fin nel tintinnare delizioso delle chitarre elettriche. E anche Divine, che ha quasi gli stessi accordi del brano precedente, in versione acustica, con armonie vocali appena accennate e le solite sparse coloriture del gruppo di musicisti presente nel disco, si ascolta con grande piacere, mentre How Can I, è Joni Mitchell allo stato puro, tra Blue e Hejira, con le sue percussioni dal colpo secco, il borbottio del contrabbasso, le chitarre acustiche nervose e piccoli accenni di elettrica, forse il centrepiece dell’intero album, breve ma bellissima. Howl At The Moon è una sorta di blues elettrico, leggermente psichedelico, con la chitarra elettrica che disegna una traiettoria circolare quasi onirica e il cantato molto rarefatto, volutamente minimale, che moltiplica il fascino austero della canzone. Short Movie, la canzone che dà il titolo a questa raccolta, è uno dei brani più “strani” del disco, con degli archi dal suono leggermente dissonante, una sezione ritmica incalzante, inserti sonori che illustrano questo ipotetico “film breve” che raggiunge il suo climax nel crescendo finale https://www.youtube.com/watch?v=DdCdT_dcmUI . Si conclude con Worship Me, una ode quasi mistica a Dio, condotta nella prima parte solo da una chitarra elettrica, che poi viene avvolta dalle volute malinconiche della sezione archi, per questa mini sinfonia concertante, che illustra ancora una volta la costante crescita di questa magnifica cantautrice.

Esce domani.

Bruno Conti

Dal Canada “Un’Altra Figlioccia” Di Joni Mitchell? Jennifer Castle – Pink City

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Jennifer Castle – Pink City – No Quarter Records

C’è un gran movimento nell’area femminile della canzone d’autore nordamericana, soprattutto nel circuito indipendente, che purtroppo assicura una visibilità minore, in parte bilanciata dalle informazioni che si trovano su Internet, e quindi in questi ultimi anni non è stato infrequente incontrare ed apprezzare nuovi talenti femminili, apparsi quasi improvvisamente alla ribalta musicale. Questo è sicuramente il caso di Jennifer Castle (da non confondere con l’omonima scrittrice), “mitchelliana” fino al midollo, e palese dimostrazione che si può comporre e interpretare buona musica, anche riferendosi a modelli di artisti più importanti https://www.youtube.com/watch?v=Ea9umYpf38E . La signorina è canadese, precisamente di Toronto, nella regione dell’Ontario, e ha già pubblicato due album in passato con il nome Castlemusic Live At The Music Gallery (06) e You Can’t Take Anyone (08), prima di firmare il terzo album con il proprio nome, dal titolo Castlemusic (11), forse in questo ambito con poca fantasia https://www.youtube.com/watch?v=Soa6JDRdTHI . E’ stata anche collaboratrice nei dischi di Doug Paisley, con cui condivide l’etichetta discografica e questa è ulteriore nota di merito.

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Per questo Pink City Jennifer si avvale di un gruppo di veterani musicisti di Toronto (di impronta indie-rock e jazz), tra i quali Ryan Driver pianoforte e flauto, Mike Smith al basso, Paul Mortimer alla chitarra, Jonathan Adjemian alle tastiere, Brodie West al sassofono e come ospite la brava cantautrice Kath Bloom all’armonica, il tutto “miscelato” con gli arrangiamenti di archi di Owen Pallett.

La tracce iniziali, Truth In The Freshest Fruit e Working For The Man, mettono appunto in evidenza gli arrangiamenti d’archi di Pallett (che sono presenti in tutto il disco), mentre la seguente Sparta è cadenzata dal flauto dalle linee melodiche di Ryan Driver, passando ad una ballata pianistica come Nature e per la struggente malinconia di Downriver, a cui contribuisce l’armonica della folk-singer Kath Bloom e l’interpretazione assai “mitchelliana” di Jennifer. Echi della grande Buffy Sainte-Marie si riscontrano nella bellissima Sailing Away (il brano più bello del lavoro), il sussurrato piano e voce di Like A Gun, le note di una chitarra acustica in How Or Why (che sembrano uscire dai solchi dei dischi di Suzanne Vega), le atmosfere anni ’80 (che ricordano la sempreverde Kate Bush) in Broken Vase e per finire in bellezza. le note conclusive della title track Pink City, marchiata e guidata dal sassofono dolente di Brodie West.

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Pink City è una raccolta di riflessioni intime messe in musica dalla Castle, una fusione ben riuscita della prima Joni Mitchell e il modo desolante di interpretare le canzoni (se non la voce) di Paula Frazer dei Tarnation, ma Jennifer ha forse qualcosa in più rispetto alla media, un talento di primo piano (se volete mi gioco la reputazione, tanto non costa niente), per un lavoro di grande fascino con un suono adulto e professionale, che merita molta più attenzione di tante esaltate nuove “stars” (non per nulla anche la rivista inglese Uncut ha parlato molto bene della Castle) https://www.youtube.com/watch?v=Pv0XcFwyVas .

Come da tradizione, in questo “blog” ci piace andare alla ricerca di talenti sinceri e genuini (ce ne sono molti per le “strade” americane e canadesi), ma se per caso la penserete come noi, troverete una nuova amica da gustare musicalmente https://www.youtube.com/watch?v=CjzIKCxcdBg , nel vostro sempre più prezioso tempo libero.

Tino Montanari

E’ Solo Pop (Dalla Svezia) Ma Ci Piace! Sophie Zelmani – Going Home

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Sophie Zelmani – Going Home – Oh Dear Recordings

Dalle nostre parti, purtroppo, Sophie Zelmani non ha mai goduto della giusta attenzione, ed è un peccato, perché, per il sottoscritto, trattasi senza dubbio di una delle cantautrici più personali e brave tra quelle uscite negli ultimi venti anni, sempre sostenuta da una ispirazione verso un tipo di pop-rock, in chiave elettrica, che è raro ritrovare persino in molte colleghe più blasonate americane. La dolce Sophie, ottenuta la sua prima chitarra all’età di 14 anni (in regalo dal padre), ha imparato a scrivere canzoni, e quasi dieci anni dopo, con nessun “background” musicale alle spalle, e senza mai esibirsi in pubblico, è salita in cima alle classifiche musicali svedesi con il suo album di debutto omonimo, Sophie Zelmani (95,) distribuito dalla Sony Music (che la portò a vincere due Grammy in patria), bissando il successo con il seguente Precious Burden (98). Dopo due album notevoli (per chi scrive) Time To Kill (99) e Sing And Dance (02,) dischi sofferti e oscuri, esce il suo disco più pop, Love Affair (03), e a seguire una raccolta riassuntiva A Decade Of Dreams (05), arriva, sempre il vostro fedele scrivente, un lavoro  perfetto come Memory Loves You, composto da piccole gemme di folk-rock, a cui faranno seguito negli ultimi anni titoli coneThe Ocean And Me (08), I’m The Rain (10), Soul (12), fino ad arrivare (in attesa del nuovo disco in uscita probabilmente entro l’autunno) a questo Going Home, che comprende nuove registrazioni di brani tratti dai suoi album precedenti (e come bonus una canzone inedita, Aftermath).

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La prima cosa che colpisce della Zelmani è il modo cantare, quasi sottovoce, come si può apprezzare dal trittico iniziale, con la sognante Dreamer https://www.youtube.com/watch?v=OMhgdZiuGbg , Going Home e  I Can’t Change, rivisitate con soffuse note di pianoforte, chitarra e tromba, mentre le seguenti To Know You https://www.youtube.com/watch?v=uoKhtrI9jg8 e Wait For Cry, estratte dall’album “perfetto”, sprigionano tutta la loro adamantina bellezza, che si manifesta vieppiù, in modo lieve, nell’unico inedito Aftermath. Got To Stop https://www.youtube.com/watch?v=QV5SjoM7nHk , Love On My Mind, Gone With The Madness, sono le canzoni più riuscite della raccolta, mentre altrettanto riuscite paiono Maja’s Song e Happier Man, dall’andamento folk, andando a chiudere con le ballate (che sono una presenza dominante della raccolta), con la chitarristica Oh Dear https://www.youtube.com/watch?v=kqVIy2n6mGM , e soprattutto con la traccia che chiude l’album, la pianistica I’ll Remember You, quasi una confessione in musica.

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La musica di Sophie Zelmani è fatta di semplicità, di pause alternate alle note (un po’ come fa Suzanne Vega sull’altro lato del mondo), un impasto sonoro capace di trasmettere una immediata confidenza, che dà  al lavoro che il piacere della sorpresa, un piccolo regalo per chi ama la musica e la poesia delle piccole cose, che poi sono sempre le più grandi. Se si prova a chiudere gli occhi, ascoltando le canzoni di Sophie, potreste correre il rischio di innamorarvi. Per parafrasare i Glimmer Twins, “è solo pop (and folk), ma mi piace”!

Tino Montanari