Alvin Lee: 1944-2013. “Il Chitarrista Più Veloce Del Mondo”!

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Quando la sera del 17 agosto 1969, poco dopo le 20, nella terza serata del Festival di Woodstock, Alvin Lee sale sul palco per la sua esibizione con i Ten Years After, non immagina due cose: che sarà una “serata di merda” e che, in seguito, cambierà completamente il corso della sua carriera. A causa della fortissima umidità della serata gli strumenti, ed in particolare la chitarra del leader, avranno una miriade di problemi, andando di continuo fuori accordatura, costringendoli a frequenti pause durante il loro set, come se non bastasse anche la troupe che riprendeva l’evento, per i medesimi problemi, riuscirà a riprendere solo il brano finale dell’esibizione, il bis, I’m Going Home. Ma in quella serata era comunque presente all’incirca mezzo milione di persone e quando l’anno successivo appare il film, la scena in cui lo schermo si divide prima in due e poi in tre parti ed appare un biondo chitarrista inglese con una Gibson rossa fiammante che attacca a velocità supersonica il riff di I’m Going Home, fa sì che nell’immaginario collettivo dell’epoca nasca la leggenda del “chitarrista più veloce del mondo”. Probabilmente, anzi sicuramente, non era vero, ma a quei tempi chitarristi più tecnici come John Mclaughlin, Larry Coryell, Ollie Halsall e molti altri, che basavano la loro “velocità” sulla costruzione di scale musicali mutuate dal jazz e non sui riff del rock and roll, erano noti solo a pochi aficionados e quindi anche sulla scia del triplo album che uscì l’anno successivo molte “leggende” del rock nacquero in quella occasione. Lo spastico dondolio di Joe Cocker, l’incazzoso Pete Townsend che distrugge la sua chitarra durante l’esibizione degli Who (già “provato” a Monterey un paio di anni prima), il vaffanculo collettivo di Country Joe McDonald, l’assolo di batteria di Michael Shrieve durante l’esibizione dei Santana, la trance quasi mistica di Richie Havens mentre canta Freedom, il bombardamento al napalm della chitarra di Jimi Hendrix durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano, si dividono con l’inno al rock and roll e al blues dei Ten Years After di Alvin Lee il titolo di momenti indimenticabili del film e del disco, anche se ovviamente c’era tantissima altra buona musica, meno legata ad un particolare effetto audiovisivo!

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Lee nasceva Graham Alvin Barnes il 19 Dicembre 1944, durante le ultime propaggini della IIa Guerra Mondiale, a Nottingham, per noi italiani, la patria dello sceriffo di Robin Hood. Già nel corso della sua giovinezza, con l’amico Leo Lyons, sviluppa un amore per il jazz e il blues (che rimarrà una costante nella sua carriera, soprattutto nella parte iniziale) ma è l’incontro con il R&R a dargli la spinta a diventare un musicista. Il suo primo gruppo sono i Jaybirds, che passano dallo Star Club di Amburgo un paio di anni dopo i Beatles, nel 1962. Ma è quando approdano a Londra, verso la metà anni ’60, che persa prima la s e poi mutato il nome in Blues Yard, finalmente, nel 1966, arrivano alla ragione sociale definitiva di Ten Years After (esattamente dieci anni dopo “l’avvento” di Elvis Presley, da cui il nome) e ai concerti al Marquee che li porteranno a firmare un contratto con la Decca/Deram e alla pubblicazione dei primi dischi.

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I primi tre dischi, l’omonimo Ten Years After ***, il live Undead ***1/2 e Stonedhenge ***1/2, tutti ristampati in CD con varie bonus, sono quelli che li aiutano a costruirsi una certa fama nel periodo del British Blues Revival di quegli anni, in embrione ci sono moltissimi dei brani che costituiranno il corpo delle loro esibizioni dal vivo dell’epoca e successive, compresa quella di Woodstock. Usciti nel 1967, 1968 e 1969 ci presentano un gruppo, e soprattutto, il loro leader, Alvin Lee, ancora impegnati in uno stile asciutto e influenzato sia dal blues quanto dal jazz, dallo swing e dalle big bands alla Woody Herman, altro grande amore musicale di Alvin. Nel primo album ci sono già le prime versioni di I Can’t Keep From Cryng, Sometimes, la canzone di Al Kooper, scritta per i Blues Project, che costituirà poi il canovaccio per il lunghissimo brano dal vivo, eseguito anche a Woodstock, dove i TYA citavano praticamente tutta la storia del rock, del blues e dei grandi chitarristi passati e presenti, con un medley di dimensione spesso pantagrueliche. C’è anche Help Me, lo slow blues di Sonny Boy Williamson, che è tuttora uno dei cavalli di battaglia in concerto di Van Morrison.

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In Undead si trova la prima versione di I’m Going Home, dal vivo al Klooks Kleeks di Londra nel maggio del 1968, è una ancora una versione “breve”, poco più di 6 minuti, più jazzata e legata a boogie, blues e swing, ma il brano di Al Kooper citato poc’anzi è già nel suo formato monstre da oltre 17 minuti (nelle bonus del CD, all’epoca non lo si conosceva ancora) con la Extension On One Chord che era la lunga parte centrale dedicata all’improvvisazione. Il gruppo esegue Woodchoppers’s Ball di Woody Herman e Summertime, ma anche Rock Your Mama, Spoonful e Standing At The Crossroads che già segnalano la prossima svolta verso il rock-(blues). L’anno successivo esce Stonedhenge che già dal titolo ci parla di questo incrocio tra cerchi magici e strane cose “fumate”: è un disco particolare, quasi psichedelico, leggermente sperimentale ed improvvisato, ma contiene un paio di classici Hear Me Calling e Speed Kills, oltre alla lunga Boogie On (oltre 14 minuti), sempre tra le bonus, che riportano anche la versione del singolo, abbreviata, di I’m Going Home.

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A_Space_in_Time.jpg220px-Rock_&_Roll_Music_to_the_World.jpgPositive_Vibrations.jpg

 La successiva fase è quella che potremmo definire dei Chrysalis Years 1969-1972, Think About The Years è il titolo di una bella antologia tripla uscita in CD nel 2010, con inediti e rarities, che copre questo periodo, che si può definire il migliore per i dischi di studio, anche se all’epoca i dischi uscirono ancora per la Deram e il solo A Space in Time, negli USA uscì per la Columbia. Occorre precisare che nessuno dei dischi dei Ten Years After si può definire memorabile, ci sono tre o quattro brani molto buoni e il resto meno, ma se ne dovessimo scegliere due o tre, i migliori vengono da questo periodo. Ssssh.***1/2uscito ancora nel 1969,  nello stesso mese di Woodstock,  in poco più di 37 minuti presenta la svolta rock-blues chitarristica che avrebbe fatto la fortuna del gruppo: Good Morning Little Schoolgirl, eseguita anche al Festival, era una feroce rivisitazione di un classico, sempre dal repertorio di Sonny Boy Williamson, Bad Scene, Two Time Mama e I Woke Up This Morning sono tra le migliori del loro repertorio e Stoned Woman è un altro inno allo “sballo”, figlia del periodo.

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Anche il successivo Cricklewood Green***1/2 è tra i migliori in assoluto della discografia e contiene Love Like A Woman, il veicolo per uno dei migliori assolo della carriera di Alvin Lee, oltre ad una serie di brani solidi e vibranti, mentre Watt*** è un mezzo passo falso, uscito come il precedente nel 1970, perché in quegli anni se ne pubblicavano almeno due per anno, risentito oggi è comunque meglio di come lo ricordavo, My Baby Left Me, She Lies In The Morning e un altro R&R primo amore, Sweet Little Sixteen dal vivo, fanno la loro porca figura. A Space In Time***1/2 del 1971,  è l’album della svolta pop-rock, alla ricerca del mercato americano, I’d Love To Change The World è un ottimo singolo elettroacustico, che sarà il loro maggior successo, e anche gli altri brani introducono questo suono delle chitarre acustiche, probabilmente influenzato dal sound dei Led Zeppelin di quell’anno, che mescolava il rock a momenti più intimisti.

 

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Da qui in avanti, peraltro solo per due album, Rock And Roll Music To The World del ’72 e Positive Vibrations del 1974, inizia la china discendente prima dello scioglimento nello stesso anno, inframmezzata da sempre eccellenti esibizioni live (anche al Palalido di Milano, mi pare nella primavera del ’71, io c’ero e lo ricordo, apriva la Mick Abrahams Band, ma qualche pirla mi aveva ciulato il posto numerato sul parterre per cui è una memoria agrodolce). In ogni caso il doppio Recorded Live ***1/2, uscito nel 1973 e Recorded Live At Fillmore East 1970****, pubblicato postumo nel 2001 su CD, sono assolutamente da avere, come l’ottimo disco solo country-rock-blues-gospel On The Road To Freedom***1/2 in coppia con Mylon LeFevre, pubblicato nel 1973 e bissato nel 2012 con Still On The Road to Freedom, l’ultimo disco bello della sua discografia, dopo una lunga serie di album, anche piacevoli, compresa qualche reunion, guidati soprattutto dal mestiere.

 

Ed ora, il 6 marzo del 2013 ci ha raggiunto la notizia della sua morte, per le complicazioni dopo una operazione di routine (si dice così) che solo da poco si è scoperto essere avvenuta in Spagna. Possiamo solo dirgli grazie di tutto e Rest In Peace.

Bruno Conti

Un “Piccolo Classico”! Nine Below Zero – Live At The Marquee

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Nine Below Zero – Live At The Marquee – Fontana/Universal CD+DVD 23-10-2012

Torna in circolazione, in edizione rimasterizzata e potenziata, uno dei “piccoli classici” di culto del rock britannico dello scorso secolo. Un album, Live At The Marquee, registrato nello storico locale di Londra nel giugno del 1980 e pubblicato, a distanza di pochi mesi, nello stesso anno. Un esordio folgorante e un’idea brillantissima, quella di iniziare direttamente una carriera discografica, con un album registrato dal vivo, che fosse testimonianza dell’incredibile carica che emanava dai live shows del quartetto, come vogliamo definirlo, Blues? Ci aggiungiamo pub rock, l’energia del punk migliore, boogie e rock’n’roll, ampie spruzzate di soul e r&b, persino un pizzico di beat, il tutto condito dalla classe della frontline della band: Dennis Greaves, chitarrista dalla tecnica notevole ma anche dalla pennata pesante e con il riff facile, e Mark Feltham, armonicista potente e dallo stile coinvolgente, entrambi impegnati pure come cantanti e trascinatori di un pubblico molto eterogeneo, che vedeva tra le proprie fila non solo esteti del blues, ma anche punkettari, estimatori della NWOBHM (New Wave Of British Heavy Metal), nonché “nostalgici” del pub rock dei grandi Dr.Feelgood, forse il gruppo più speculare rispetto ai Nine Below Zero.

Tutti felici e contenti, impegnati a cantare con il gruppo a squarciagola, brani come Homework di Otis Rush o Ridin’ On The L&N, una canzone scritta da Lionel Hampton, ma conosciuta ai più per la versione dei Bluesbreakers di Mayall, apparsa su Hard Road. Non proprio dei singalongs, al limite brani che uno si può aspettare di sentire in qualche fumoso locale di Chicago. Ma i NBZ li fanno loro con delle versioni tiratissime e strabordanti, dove la chitarra di Greaves e l’armonica di Feltham sparano veloci e stringati solo e la sezione ritmica pompa ritmi che fanno muovere il piedino e anche tutto il resto del corpo. Ma Dennis Greaves è capace di estrarre dal cilindro una versione di I Can’t Quit You Baby di Willie Dixon, che per eloquenza chitarristica e tiro non ha nulla da invidiare alla versione dei Led Zeppelin.  O tutto il gruppo è capace di scatenarsi e scatenare il pubblico in un uno-due soul/errebì da casa Motown con I Can’t Help Myself  e Can I Get A Witness. Ma che la temperatura non sia “Nove Gradi Sottozero” si intuisce fin dall’iniziale rilettura di un classico come Tore Down, un classico di Freddie King anche nel repertorio di Clapton, ma che qui viaggia a velocità supersonica e ricorda tra tanti, a chi scrive, quelle cavalcate tra boogie, blues e R&R dei Ten Years After più arrapati dal vivo, qualcuno ha detto “Hau, hau, hau”?

Anche Straighten Her Out, scritta dai componenti del gruppo, non ha nulla da invidiare ai brani più tirati dei Dr.Feelgood, o anche a un Thorogood o un Johnny Winter d’annata, lo spirito è quello. Dopo le delizie citate prima, il gruppo ci regala delle versioni al fulmicotone di Hootchie Cootchie Coo di Hank Ballard e una deragliante Woolly Bully, proprio quella di Sam The Sham & The Pharaos, con armonica e chitarra a sostituire il Farfisa dell’originale. Stop Your Naggin’, sempre più frenetica, tanto da far sembrare la parte centrale di I’m Going Home, un brano al ralenti, è un originale di Greaves. Una versione sontuosa di Got My Mojo Working che avrebbe reso orgoglioso il suo titolare Muddy Waters, ma anche i suoi discepoli Animals, Stones, Them e Pretty Things, nei primi anni di carriera, precede una Pack Fair And Square che sembra presa di sana pianta da Johnny Winter And Live, rock’n’rollin’ blues alla ennesima potenza, mentre Watch Yourself è Chicago Blues Elettrico di gran classe.  Conclude il concerto uno strumentale tra boogie e swing, Swing Job appunto, dove tutti i componenti del gruppo danno il meglio di sé.

E questo è solo il disco originale; ora, nella versione espansa, ci sono anche gli Encores, altri 7 brani fenomenali. Una Rocket 88 da multa per eccesso di velocità nel Blues, (Just) A Little Bit, un R&B roccato con la chitarra di Greaves e l’armonica di Feltham (che ricorda un poco il sound di John Popper dei Blues Traveler), Twenty Yards Behind  è pub rock misto a ska accelerato e punkizzato, grandissima versione, super classica, di Stormy Monday, a sancire le loro credenziali Blues. Un altro estratto da Johhny Winter And Live è il R&R iper vitaminizzato di Is That You mentre chiudono Keep On Knockin’ in una versione violentissima come neppure gli MC5 dei tempi d’oro e una Madison Blues con bottleneck d’ordinanza e un tiro musicale che ricorda ancora le annate migliori di Thorogood e Winter. I Nine Below Zero non si sono mai più ripetuti a questi livelli, ma questo Live At the Marquee basta e avanza per ricordarli con piacere tra gli outsiders di lusso. Il DVD contiene filmati d’epoca girati a 16 mm, da una vecchia VHs trasmessa dalla Rai ai tempi e altre chicche. L’imperativo è comprare!         

Bruno Conti      

Quasi “Forty Years After”! Alvin Lee – Still On The Road To Freedom

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Alvin Lee – Still On The Road To Freedom – Repertoire

Se avesse lasciato passare ancora un anno avremmo potuto parlare di “Forty Years After” (scusate, ma non ho resistito), tanti quanti ne sono passati dall’uscita del suo primo disco da solista, On The Road To Freedom, pubblicato nel novembre 1973. Ma anche lui non ha resistito e quando l’ispirazione lo ha raggiunto ha deciso di dare alle stampe questa sorta di seguito, Still On The Road On Freedom, sul quale peraltro aveva iniziato a lavorare dal 2008. I Ten Years After (almeno quelli nella versione con Alvin Lee, ne circola una con tale Joe Gooch che è una pallida imitazione dell’originale) si sono sciolti tra il 1973-1974 e per tutti, oltre ad essere stati una delle più grandi formazioni del rock-blues britannico, sono “quelli” di Woodstock, con il chitarrista più veloce del mondo, lo schermo che si apre in tre parti e Alvin Lee che intona I’m Going Home fanno parte dell’iconografia della musica rock.

Ma Lee non ha retto per molti anni la parte e appunto nel 1973 ha deciso di abbandonare quel mondo di tournée interminabili, dischi a getto continuo e stress ad alta densità per dedicarsi ad uno stile più morigerato, quasi roots, con il suo primo album solista. E a quel disco hanno collaborato in modo fattivo George Harrison (sotto lo pseudonimo Hari Georgeson, allora usava) che oltre a suonare nel disco aveva composto anche un brano, Steve Winwood, Ron Wood, Jim Capaldi, Mick Fleetwood, il tastierista Tim Hinkley, che suona anche nel nuovo album, oltre naturalmente a Mylon LeFevre, musicista sconosciuto ai più, ma che prima e dopo ha inciso una valanga di materiale gospel. Risentito oggi, il disco rimane l’ultima prova di valore di Alvin Lee, che da allora non ha più saputo produrre qualcosa degno della sua fama, brani dignitosi e anche ottimi sparsi qui e là ma nulla di significativo. Tra l’altro, vista la provenienza di LeFevre, l’album viene spesso catalogato come gospel, ma in fondo era un disco solista di Alvin Lee con il background dei TYA rivisto attraverso un background più “pastorale”, comunque un ascolto o due li vale!

Quando ho ascoltato per la prima volta il nuovo album ed in particolare la prima traccia, la title-track, mi sono detto, cazzarola ma allora è ancora capace di fare della bella musica! Perché in effetti Still On The Road To Freedom è un signor brano, con l’allure delle migliori composizioni dei Ten Years After, con il suono della chitarra di Lee, che è solo suo ed inconfondibile, come pure la voce, li riconosci dalla prima nota, anche un bel arrangiamento, un testo dignitoso e una resa complessiva che ti resta in testa, ti fa venire voglia di riascoltarlo più volte. E pure il secondo brano, Listen To Your Radio Station, introdotto dal sound di percussioni africane e con un drum loop campionato dello scomparso Ian Wallace, si ascolta con piacere, con la voce filtrata di Lee e la chitarra che disegna linee rapide e pungenti, un’altra canzone di buon spessore. Ma tutto il disco viaggia su livelli dignitosi, non come il primo brano, ma canzoni oneste, un rock di stampo americano, come nell’eccellente Midnight Creeper dove l’organo di Tim Hinkley e la chitarra di Lee si scambiano riff con l’abbandono dei vecchi tempi. Non manca l’omaggio al blues delle origini con Save My Stuff, ma non è quello duro e tirato del suo gruppo, ma molto morbido e raffinato, un country-blues e per l’occasione Alvin rispolvera anche la sua armonica e la chitarra acustica.

I’m A Lucky Man è un R&R/rockabilly scatenato, e chi ricorda la parte centrale del medley di I’m Going Home può capire, ma se aggiungiamo che il nome Ten Years After nel 1966, nasceva in quanto il gruppo ricordava il decimo anniversario della “venuta” di Elvis, tutto si fa ancora più chiaro. Non tutto funziona alla perfezione, Walk On, Wak Tall sembra una parodia non riuscita dell’Elvis country, Blues Got Me So Bad è un blues acustico che ci fa rimpiangere le atmosfere infuocate delle cavalcate elettriche del gruppo di Lee e sembra un brano tra mille, potrebbe essere chiunque anche se la voce lo tradisce. Song Of The Red Rock Mountain è più interessante, uno strumentale acustico con influenze messicane si colloca a cavallo tra Morricone e i Calexico. Piacevole anche Nice & easy che potrebbe essere una traccia perduta di JJ Cale, molto laidback, Back in ’69, sia a livello musicale, molto TYA, che come testo, è un “ricordo” dei bei tempi che furono, e funziona, come l’ottima jam strumentale di Down Like Rock che potrebbe ricordare i duetti strumentali a base di chitarra e organo di Booker T e Steve Cropper con gli altri MG’s. Rimane il breve funky-rock di Rock You e il “seguito”, Love Like A Man 2, che non è il remake della vecchia canzone ma un brano nuovo ispirato, secondo quanto ha detto lo stesso Alvin Lee, da Chuck Berry e da I Hear You Knocking di Smiley Lewis, e se lo dice lui dobbiamo credergli, lo saprà bene! Comunque la chitarra, a sprazzi, ruggisce ancora e conferma la buona qualità di questo ritorno, sono passati quasi 40 anni e il disco è quasi bello!

Bruno Conti