L’Angolo Del Jazz. Parte Prima: Thelonious Monk – Palo Alto

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Thelonious Monk – Palo Alto – Impulse/Universal CD

Oggi inauguriamo una mini-rubrica di tre post che hanno in comune la trattazione di altrettanti album a sfondo jazz usciti di recente, due inerenti a concerti inediti del passato ed un disco in studio nuovo di zecca. Entro due mesi saremo chiamati ad esprimere le nostre preferenze musicali per questo strano 2020, e se esistesse una categoria “miglior album dal vivo che documenta un concerto storico del passato che si credeva perduto”, il CD di cui mi accingo a parlare potrebbe aspirare tranquillamente al primo posto (ma anche il prossimo di cui scriverò non scherza). Nel 1968 Thelonious Monk, uno dei più grandi ed influenti pianisti jazz di sempre, era ad un punto morto della carriera: ai ferri corti con la Columbia per la quale incideva all’epoca, Monk era pieno di debiti (pare anche con la stessa etichetta discografica) e doveva pure dei soldi alla temibile IRS per tasse arretrate non pagate. Da un’altra parte dell’America Danny Scher, studente alla Palo Alto High School in California e grande appassionato di jazz dall’età di dieci anni, avendo saputo che Monk aveva avuto un ingaggio di due settimane per esibirsi a San Francisco, decise di cogliere la palla al balzo e provare a realizzare il suo sogno: portare il grande musicista a suonare nella scuola da lui frequentata per un concerto benefico.

Erano altri tempi, e Scher (al quale non faceva difetto la tenacia) riuscì a mettersi in contatto con il manager di Monk, il quale convinse il suo assistito a prendere parte allo show anche per un ingaggio ridotto rispetto al solito, sfruttando sicuramente il bisogno di soldi da parte dell’artista. Un altro potenziale problema erano le grandi tensioni politiche e razziali presenti all’epoca in America, che avevano portato ai recenti omicidi di Martin Luther King e Robert Kennedy: la Palo Alto High School era un istituto antico ed esclusivo frequentato in maggioranza da studenti bianchi , e chiamare ad esibirsi un artista di colore non sembrava un’idea brillante dal punto di vista della sicurezza, ma per fortuna tutto si svolse nella più assoluta tranquillità. Così il pomeriggio del 27 ottobre del 1968 si scrisse una pagina di leggenda del jazz, con Monk che si esibì davanti ad un’aula magna gremitissima a capo di un formidabile quartetto che vedeva oltre a lui Charlie Rouse al sax tenore, Larry Gales al basso e Ben Riley alla batteria, un trio di musicisti che è stato anche quello con il quale Monk ha collaborato più a lungo in carriera. Nonostante qualche scetticismo sul suo stato di forma, Monk fornì una prestazione leggendaria, uno show incredibile di soli 47 minuti ma di un’intensità clamorosa, uno di quei rari momenti nei quali l’ispirazione sembra quasi potersi toccare con mano.

L’altro miracolo è il fatto che il concerto fosse stato registrato (pare dal custode della scuola, appassionato di tecnologia) e che sia sopravvissuto fino ad oggi, in più con una qualità di incisione da paura, che ritroviamo oggi in questo CD curato dallo stesso Scher ed intitolato appunto Palo Alto: in certi momenti vi sembrerà di avere il quartetto nel vostro salotto. Spesso Monk è stato accusato di essere troppo cerebrale e poco immediato, difficile non solo di carattere (pare che fosse uno che parlava pochissimo) ma anche per il suo improvvisare melodie complesse e dissonanti, ma qui a Palo Alto sembra quasi voler compiacere il pubblico offrendo una performance assolutamente godibile dalla prima all’ultima nota. Sei brani in tutto, che partono con Ruby, My Dear, una soffusa jazz ballad che inizialmente vede il nostro fare da sideman per Rouse, mentre la sezione ritmica accarezza in sottofondo: la sala è subito inondata da sonorità calde ed il pubblico ascolta in rigoroso silenzio. Al quarto minuto Monk si prende il centro della scena con una serie di fraseggi sublimi, fino a quando il sax riprende in mano il pezzo e lo porta fino allo scadere. Lo show entra subito nel vivo con i 13 fantastici minuti di Well, You Needn’t, un brano pimpante e ritmicamente ricco, durante il quale gli interventi strumentali si susseguono senza soluzione di continuità: il sax parte ancora da protagonista, basso e batteria non perdono un colpo (verso la fine c’è anche un lungo assolo di Gales con l’utilizzo dell’archetto) e Monk fa viaggiare le dita sulla tastiera alla sua maniera.

L’intesa del quartetto è superlativa ed il brano si ascolta tutto d’un fiato nonostante la lunghezza. Don’t Blame Me è uno standard degli anni 30 reso popolare nel 1948 da Nat King Cole, un lento raffinatissimo che vede il nostro esibirsi in totale solitudine, una performance formidabile che potrebbe scoraggiare chiunque volesse imparare a suonare il piano. E veniamo al momento centrale dello spettacolo, cioè una eccezionale ripresa del classico Blue Monk, una delle signature songs del nostro, 14 minuti strepitosi e fruibili al tempo stesso, in cui i quattro improvvisano alla grande senza però mai perdere il filo della melodia: da applausi la prestazione di Rouse, grande protagonista della serata quasi alla pari del suo leader. Da qui in poi il concerto è in discesa: ascoltiamo ancora una vibrante Epistrophy, il cui il piedino del sottoscritto si muove autonomamente, ed una soave I Love You Sweetheart Of All My Dreams, appena due minuti ancora per piano solo, suonato in punta di dita. Un concerto assolutamente imperdibile quindi, anche se siete tra quelli che comprano un disco di jazz all’anno.

Marco Verdi

Di Cover In Cover! Peter Mulvey – The Good Stuff

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Peter Mulvey – The Good Stuff – Signature Sound Records – 2012

Peter Mulvey da Milwaukee, Wisconsin, già autore di dischi promettenti nel passato, continua a fare ciò che ha sempre amato, il “busker” da subway, ricordando le ore passate nei sottopassaggi di Dublino o in quelli americani. I cantanti delle metropolitane prevalentemente eseguono “covers”, e cosi Peter (nel mio immaginario) si siede su una panchina ed esegue le canzoni predilette dei suoi “eroi” musicali, che sono un po’ anche i nostri (Leonard Cohen, Willie Nelson, Tom Waits, Joe Henry).  Mulvey, si era già cimentato in un esperimento simile con Ten Thousand Mornings (2002), registrato proprio in una stazione della metropolitana di Boston, e in quel lavoro aveva pescato da Elvis Costello, Randy Newman, Paul Simon, Bob Dylan, e anche in misura minore in Redbird (2003), con la complicità dei compagni di tour Jeffrey Foucault e Kris Delmhorst. Questo lavoro, The Good Stuff, è una raccolta più tradizionale di brani swing e ballate, dai risultati altalenanti, un disco che pur non essendo complesso, risulta non di facile lettura, specialmente nella rilettura di canzoni di autori standard come Duke Ellington e Thelonious Monk e contemporanei, come Melvern Taylor e Jolie Holland.

Peter. accompagnato da validi musicisti tra i quali il fido David Goodrich alle chitarre, Jason Smith alla batteria, Paul Kochanski al basso  e Randy Sabien al violino e piano, trasforma i pezzi dei suoi favoriti, li modella e li plasma secondo un sentimento puro e convinto, e la bella versione di Everybody Knows che inizia con una risata liberatoria, offre una scanzonata lettura del Cohen più creativo. La scelta delle canzoni da menzionare prosegue con I Don’t Know Why But I Do, un classico trascurato di Bobby Charles, con in evidenza il violino di Randy Sabien, la deliziosa Sugar , una rumba cantata in versione Paolo Conte, e la splendida Richard Pryor Addresses A Tearful Nation , pescata dal canzoniere del grande Joe Henry e precisamente dall’album Scar. Nella selezione sono presenti anche due brani strumentali, una Egg Radio di Bill Frisell in cui eccelle David Goodrich, e una dolce versione in chiave jazz, Ruby, My Dear di Thelonious Monk. Nella stessa occasione Peter Mulvey fa uscire anche un EP complementare con altri 6 brani registrati nelle stesse sessioni e con gli stessi musicisti, dal titolo di Chaser.

Peter Mulvey in questo The Good Stuff, dimostra quanto possa valere un lavoro di “covers” fatto con personalità, rispetto a composizioni non sempre di pari livello, ma si dimostra artista creativo e originale, dalle grandi possibilità, che mi auguro vengano dimostrate prossimamente con brani usciti dalla sua penna.

Tino Montanari