Una Commovente E Bellissima Testimonianza Postuma Di Un Grande Outsider. Jimmy LaFave – Peace Town

jimmy lafave peace town

Jimmy LaFave – Peace Town – Music Road 2CD

Il 2017 musicale, dal punto di vista dei necrologi, verrà ricordato come l’anno della scomparsa di due grandissimi, Gregg Allman e Tom Petty, ma non sarebbe giusto dimenticarsi di Jimmy LaFave, musicista texano ma con radici in Oklahoma, scomparso a soli 61 anni per un sarcoma incurabile https://discoclub.myblog.it/2017/05/23/la-tregua-e-finita-a-soli-61-anni-se-ne-e-andato-anche-jimmy-lafave/ . LaFave non era famoso, non era una star, ma era oggetto di un culto notevole in Texas ed anche fuori, dato che nella sua vita artistica raramente aveva sbagliato un disco, ed anche nei lavori meno brillanti c’era sempre qualche canzone che emergeva. Era anche un personaggio di una modestia ed umiltà notevole: anni fa andai a sentirlo a Sesto Calende, nella sala consiliare, ed il suo ingresso avvenne dal portone principale, lo stesso dal quale era entrato il pubblico, con il nostro e la sua band che man mano che avanzavano chiedevano permesso alla gente per poter raggiungere il palco! Il suo ultimo lavoro, The Night Tribe (2015) era splendido, uno dei migliori di una carriera quasi quarantennale (ma la visibilità su scala più larga è arrivata solo nei primi anni novanta), un disco di ballate notturne e pianistiche, eseguite con la consueta classe e cantate in maniera perfetta dal nostro, con la sua caratteristica voce dolce e roca allo stesso tempo (una voce che ricorda vagamente quella di Steve Forbert, ma in meglio) https://discoclub.myblog.it/2015/05/18/sempre-buona-musica-dalle-parti-austin-jimmy-lafave-the-night-tribe/ .

Qualche mese prima di lasciarci, Jimmy è entrato in studio ad Austin con un selezionato gruppo di musicisti (tra i quali segnalerei il bravissimo pianista ed organista Stefano Intelisano, oltre alle chitarre di John Inmon e del figlio Jesse LaFave, del violino di Warren Hood e della sezione ritmica formata da Glenn Schuetz, basso, e Bobby Kallus, batteria), ed in soli tre giorni ha registrato addirittura un centinaio di canzoni, tra cover e brani originali, e Peace Town è il fulgido risultato di quella session, un doppio album davvero bello ed emozionante, in cui Jimmy, che probabilmente già sapeva di essere condannato, ha deciso di prendere commiato facendo quello che sapeva fare meglio: grande musica, suonata e cantata più che mai con il cuore in mano (un po’ come aveva fatto Warren Zevon una quindicina di anni fa) Peace Town è dunque uno dei lavori più riusciti di Jimmy, non inferiore a The Night Tribe, e che alterna in maniera disinvolta ballate e brani più mossi, un testamento musicale emozionante che potrebbe anche avere un seguito, data la grande mole di canzoni incise in quei tre giorni. I brani originali scritti da Jimmy non sono poi molti, solo quattro, a partire da Minstrel Boy Holwling At The Moon, una ballatona fluida e distesa, anzi direi rilassata, strumentata con classe, per proseguire con la lenta ed intensa A Thousand By My Side, uno strumentale evocativo con il violino che sostituisce la voce solista, il puro blues texano Ramblin’ Sky, non un genere abituale per Jimmy ma che viene affrontato con disinvoltura, e la potente Untitled, altro strumentale che è più una backing track, un brano che poteva diventare una grande rock song alla Tom Petty.

Ci sono anche tre collaborazioni molto particolari, cioè tre testi inediti di Woody Guthrie ai quali Jimmy ha aggiunto la musica (come fecero Billy Bragg coi Wilco): Peace Town, uno slow elettroacustico cadenzato e dallo spiccato gusto melodico, la bluesata Salvation Train (titolo molto alla Guthrie), elettrica, coinvolgente e con elementi southern, e Sideline Woman, grintoso folk-blues di grande presa, cantato come sempre in maniera impeccabile dal nostro. Il resto dell’album sono cover, un genere nel quale LaFave si è sempre distinto con brillantezza, a partire dall’iniziale e splendida Let My Love Open The Door (un pezzo del Pete Townshend solista), forse il capolavoro del disco, una canzone che nelle mani di Jimmy diventa una solare rock ballad di stampo californiano, che ci porta quasi nei territori occupati dai Fleetwood Mac: una vera delizia. Help Me Through The Day, di Leon Russell, è lentissima, pianistica e struggente, quasi jazzata (Madeline Peyroux potrebbe farla in questo modo), anche se poi entra anche la strumentazione “classica”, mentre la trascinante I May Be Used (But I Ain’t Used Up), di Bob McDill, è puro rock’n’roll texano; il primo CD si chiude con il country-rock travolgente di My Oklahoma Home, brano popolare inciso anche da Springsteen nelle Seeger Sessions, e con il folk cantautorale di Already Gone (Butch Hancock), più di sette minuti di puro Texas.

Le cover proseguono sul secondo dischetto con una sontuosa It Makes No Difference, una delle più belle canzoni di The Band, che Jimmy riesce a far sua con una interpretazione da manuale, la lenta e cupa Don’t Go To Strangers, che è di J.J. Cale ma qui sembra più un brano di Townes Van Zandt, la meno nota When The Thought Of You Catches Up With Me, un pezzo del countryman David Ball che però sembra uscito dalla penna di Jimmy, il famoso rock’n’roll di Chuck Berry Promised Land, che il nostro esegue in scioltezza, per chiudere con la toccante Goodbye Amsterdam di Tim Easton, che non può non far scendere una lacrima a chi ascolta, splendida anche questa. Ma in ogni disco di LaFave che si rispetti non possono mancare brani di Bob Dylan, e qui ne abbiamo tre: se What Good Am I e You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go sono due pezzi minori del songbook del grande Bob (ma sono comunque resi in maniera elegante, con una strumentazione parca), My Back Pages è uno dei capolavori assoluti del Premio Nobel, e Jimmy la rifà che è una meraviglia, rallentandola ad arte e mettendo la splendida melodia al centro di sonorità calde e piene d’anima, e trasformandola in una commovente ballata il cui testo, sapendo la fine alla quale il nostro stava andando incontro, dà i brividi.

Addio Jimmy, insegna pure agli angeli come canta un vero texano.

Marco Verdi

Finalmente Fuori Dall’Anonimato! Tim Easton – American Fork

tim easton american fork

Tim Easton – American Fork – Last Chance CD

Nativo dello stato di New York, cresciuto in Ohio ed oggi residente a Nashville, tutto si potrà dire di Tim Easton tranne che non abbia fatto la gavetta. Infatti, ben prima di incidere il suo album di debutto nel 1998, Tim ha girato mezza Europa, da Londra a Parigi finendo nella Repubblica Ceca (e passando anche dall’Italia) facendo il busker, cioè il suonatore ambulante. Una vita dura, che però ha forgiato il suo carattere e lo ha fatto crescere molto dal punto di vista professionale. Tornato in America, Easton ha pubblicato nell’ultimo ventennio una decina di album, otto da solista e due come componente del trio Easton, Stagger & Phillips. Si è sempre mantenuto indipendente (ma ha inciso anche per la New West, e la Blue Rose in Europa per i dischi in trio), e ha portato avanti negli anni con molta coerenza un percorso musicale a base di vero rock cantautorale, con elementi pop, folk, alternative country e blues nel suono, ed influenze decisamente eterogenee (da Elmore James a Doc Watson passando per i Rolling Stones), e, anche se si è sempre mantenuto ad un livello discreto, non ha mai fatto il disco che spiccava sugli altri: album piacevoli sì, in alcuni casi anche più diretti di altri (come Not Cool del 2013), ma forse senza quel quid che lo facesse emergere dalla massa.

American Fork, il suo nuovo CD (il nono da solista) cambia però le carte in tavola, in quanto si dimostra fin dalle prime note un lavoro più riuscito, con un artista decisamente più convinto ed una serie di canzoni più rock del solito e senza grandi sbavature: un disco molto diretto e compatto, solo otto canzoni per poco più di mezz’ora di musica, ma proprio per questo senza momenti di stanca. Tim è accompagnato da pochi ma validi strumentisti, tra i quali spiccano Russ Pahl alla steel (gia con John Hiatt e Ray LaMontagne) e l’eclettico Robbie Crowell che suona dall’organo al piano al sassofono, mentre Tim stesso si occupa di tutte le parti di chitarra e della produzione (insieme a Patrick Damphier), oltre che naturalmente del songwriting. Che la musica sia cambiata lo si capisce subito dall’iniziale Right Before Your Own Eyes, una rock ballad molto classica guidata da chitarre e piano elettrico, con un bel refrain ed il sax a dare più colore al suono: Tim canta con voce chiara e sicura e mette in chiaro che questo disco può essere quello buono. Killing Time è una ballata molto melodica, con un drumming pressante ed una steel che la rende delicatamente country, un brano intenso nobilitato da un buon ritornello che vede la partecipazione di un coro femminile.

Elmore James ha un titolo che fa pensare subito al blues, ma in realtà è più un boogie dal sapore southern, con un motivo fluido ed ottimi interplay tra chitarra e piano, ed un finale in crescendo. Forse è più blues Gatekeeper, anche se strettamente imparentata col rock, un pezzo sporco ed insinuante, dominato da una slide acustica e con un’atmosfera minacciosa, mentre Burning Star è un bellissimo slow crepuscolare con voce, piano, steel e poco altro, servito da una delle migliori melodie del CD, una canzone avvolgente e toccante, che ci mostra la crescita del nostro come autore. La mossa Alaskan Bars, Part 1 è ancora tra rock’n’roll, boogie e blues, un pezzo diretto, chitarristico e, perché no, coinvolgente, mentre Now Vs. Now sposta di nuovo il disco su territori più rarefatti, per un’altra ballata di spessore, dall’arrangiamento classicamente anni settanta, con il piano come strumento guida.Il CD si chiude con la tenue e suggestiva On My Way, un brano costruito intorno a voce e chitarra, appena sfiorato da una steel nel buio e con la sezione ritmica che entra dopo quasi due minuti. Forse Tim Easton non sarà la next big thing, in quanto non è esattamente un esordiente (50 anni già compiuti) e forse il treno lo ha perso già da tempo, ma American Fork è un disco capace di regalare emozioni, e questo basta ed avanza.

Marco Verdi