Anche Quest’Anno Ci Siamo: Il Meglio Del 2019 Secondo Disco Club, Parte II

Ecco le scelte di Marco Verdi.

I Migliori Del 2019.

 the highwomen

Disco Dell’Anno:  The Highwomen – The Highwomen

 janiva magness sings john fogerty

Il Resto Del Podio:  Janiva Magness – Change In The Weather

van morrison three chords & the truth                                 

Van Morrison – Three Chords And The Truth

 

Gli Altri 7 Della Top 10: 

tom russell october in the railraod earth

Tom Russell – October In The Railroad Earth

drew holcomb neighbors 

Drew Holcomb & The Neighbors – Dragons

little steven summer of sorcery

Little Steven & The Disciples Of Soul – Summer Of Sorcery

leonard cohen thanks for the dance

Leonard Cohen – Thanks For The Dance

jack ingram ridin' high...again

Jack Ingram – Ridin’ High…Again

jj cale stay around

 J.J. Cale – Stay Around

*NDB Uno di quelli che non abbiamo recensito, andrebbe recuperato (vero Marco?)

black keys let's rock

The Black Keys – Let’s Rock

 

I “Dischi Caldi”: 

long ryders psychedelic country soul

The Long Ryders – Psychedelic Country Soul

marley's ghost travelin' shoes

Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes

over the rhine love and revelation

Over The Rhine – Love & Revelation

steeleye span est'd 1969

Steeleye Span – Est’d 1969

the who - who cd

The Who – Who

hayes carll what it is

Hayes Carll – What It Is

rory gallagher blues

Rory Gallagher – Blues

https://discoclub.myblog.it/2019/08/24/troppo-bello-per-non-parlarne-diffusamente-il-classico-cofanetto-da-5-stellette-rory-gallagher-blues/

allman betts band down to the river

The Allman Betts Band – Down To The River

marc cohn blind boys of alabama work to do

Marc Cohn & The Blind Boys Of Alabama – Work To Do

old crow medicine show live at the ryman

Old Crow Medicine Show – Live At The Grand Ole Opry

bob dylan rolling thunder revue

Bob Dylan/Rolling Thunder Revue – The 1975 Live Recordings

allman brothers band fillmore west '71 box

The Allman Brothers Band – Fillmore West ’71

los lobos llego navidad

Los Lobos – Llegò Navidad

frankie lee stillwater

Frankie Lee – Stillwater

bruce springsteen western stars

Bruce Springsteen – Western Stars

bruce springsteen memorial coliseum 1985

Bruce Springsteen & The E Street Band – Los Angeles 1985

neil young tuscaloosa

Neil Young & Stray Gators – Tuscaloosa

gov't mule bring on the music 2 cd

Gov’t Mule – Bring On The Music

john coltrane blue world

John Coltrane – Blue World

 woodstock back to the garden

La Ristampa:  VV.AA: Woodstock – Back To The Garden: The Definitive 50th Anniversary Archive

 Altre Ristampe: 

van morrison the healing game

Van Morrison – The Healing Game Deluxe

https://discoclub.myblog.it/2019/03/31/era-gia-un-gran-bel-disco-allepoca-nella-nuova-edizione-deluxe-ritardata-uscita-per-il-20-anniversario-e-ancora-meglio-van-morrison-the-healing-game/

beatles abbey road box 50th anniversary

The Beatles – Abbey Road 50th Anniversary

https://discoclub.myblog.it/2019/09/27/accadeva-50-anni-fa-ieri-su-e-giu-per-le-strisce-pedonali-di-abbey-road-con-i-beatles-ecco-il-cofanetto-per-lanniversario/

pink floyd the later years 

Pink Floyd – The Later Years

 Canzone: 

The Highwomen – Crowded Table, Heaven Is A Honky-Tonk

Marc Cohn & The Blind Boys Of Alabama – Work To Do

Van Morrison – Days Gone By

Tom Russell – Isadore Gonzalez

 Cover: 

The Highwomen – Highwomen (adattamento del brano di Jimmy Webb Highway Men)

Bruce Springsteen – Rhinestone Cowboy

Janiva Magness – Wrote A Song For Everyone

Jack Ingram – Desperados Waiting For A Train

mandolin' brothers 6 

Album Italiano:  Mandolin’ Brothers – 6

https://discoclub.myblog.it/2019/12/01/sono-tornati-piu-che-da-6-almeno-da7-e-%c2%bd-o-8-ottimo-anche-il-concerto-di-milano-con-sorpresa-mandolin-brothers-6/

ian noe between the country

 Album D’Esordio:  Ian Noe – Between The Country

echo in the canyon soundtrack

 Album Tributo: 

Jakob Dylan & Friends – Echo In The Canyon

mike zito a tribute to chuck berry

Mike Zito – Rock’n’Roll Music: A Tribute To Chuck Berry

Film Musicale:  Martin Scorsese – Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story

 Film Non Musicale:  Quentin Tarantino – C’Era Una Volta…A Hollywood

robbie robertson testimony 

Libro Musicale:  Robbie Robertson – Testimony

peter swanson una perfetta bugia

Libro Non Musicale:  Peter Swanson – Una Perfetta Bugia

jeff lynne's elo from out of nowhere

Piacere Proibito:  Jeff Lynne’s ELO – From Out Of Nowhere

 Delusione Dell’Anno: 

robbie robertson sinematic

Robbie Robertson – Sinematic

The Avett Brothers – Closer Than Together

 Neil Young & Crazy Horse – Colorado

rolling stones let it bleed box

“Sòla” Dell’Anno:  The Rolling Stones – Let It Bleed 50th Anniversary Box Set

Rod Stewart With The Royal Philarmonic Orchestra – You’re In My Heart Della serie “veramente falso” con base orchestrale 2019 e parti vocali anni ’70

Dischi Nuovi Che Vorrei Nel 2020:  Bob Dylan – John Fogerty – Bruce Springsteen & The E Street Band

 Ristampe Che Vorrei:  The Beatles – Let It Be 50th Anniversary (session del concerto sul tetto)

Bob Dylan – The Bootleg Series Vol. 16: Sessions 1983-1987 (con la versione “expanded” del VHS Hard To Handle in BluRay)

 CSN&Y – Deja Vu 50th Anniversary (box di 4 o 5 CD con outtakes e brani inediti dal vivo)

 Paul McCartney – London Town & Back To The Egg Super Deluxe

 Marco Verdi

Un Ottimo Debutto Per Questo “Imponente” Giovanotto. Joshua Ray Walker – Wish You Were Here

joshua ray walker wish you were here

Joshua Ray Walker – Wish You Were Here – State Fair CD

Esordio col botto per questo giovane countryman texano, uno dei migliori album di genere da me ascoltati ultimamente. Ma andiamo con ordine: Joshua Ray Walker, originario di Dallas, dimostra molto meno dei suoi 28 anni, anzi direi che a prima vista sembra un ventenne (con discreti problemi di linea, quelli che si definiscono “personcine”), ma invece è uno che si fa il mazzo da circa quindici anni. Joshua ha infatti iniziato ancora adolescente a suonare, e per anni ha girato in lungo e in largo con una band di quasi coetanei, arrivando a suonare anche 200 date all’anno, fino a quando è stato notato dal conterraneo John Pedigo (che di recente ha prodotto il disco natalizio degli Old 97’s) e portato in studio ad incidere il suo album d’esordio. Ed il lavoro in questione, intitolato Wish You Were Here, è un piccolo grande disco, dieci canzoni originali di puro country, che spaziano dalle ballate ai pezzi più mossi, con influenze non solo texane. La strumentazione è classica, chitarre acustiche ed elettriche, piano e steel in quasi tutti i brani (non sto a citare i musicisti, i nomi non vi direbbero nulla), con un approccio moderno e vigoroso ma anche un gusto non comune per la melodia.

Vero country, come oggi in pochi fanno ancora: Joshua non sembra affatto un esordiente, sa scrivere con il piglio del cantautore esperto e possiede la voce giusta per questo tipo di suono. Forse non lo vedremo mai nelle classiche pose da cowboy (anche perché non vorrei essere al posto del suo cavallo), ma dal punto di vista musicale sa il fatto suo eccome. L’album inizia con una ballata, Canyon, lenta e ricca di pathos, con una melodia di quelle che colpiscono subito: l’arrangiamento è essenziale, voce, chitarra acustica ed una bella steel sullo sfondo. Trouble è un delizioso valzerone texano del tipo più classico, davvero gustoso e punteggiato da uno scintillante pianoforte: sostituite idealmente la voce del nostro con quella di Willie Nelson e non troverete grosse differenze nella struttura musicale, e questa credo non sia una cosa da poco. Molto bella anche Working Girl, tersa e solare country song dal ritmo spedito, un motivo irresistibile ed un mood elettrico che profuma di Bakersfield Sound, mentre Pale Hands è un’intensa ballatona dal passo lento ed alla quale l’organo dona un sapore southern, altro brano dalla scrittura decisamente adulta.

Joshua dimostra di avere talento e numeri, e continua a deliziarci con la tenue e cadenzata Lot Lizard, molto melodica e suonata in maniera raffinata, con rimandi alle ballate californiane degli anni settanta da Jackson Browne in giù; Burn It è invece un trascinante boogie elettrico, diretto e chitarristico, perfetto da ascoltare in un bar di Austin, mentre  Keep è un’altra fulgida country ballad di stampo classico, con un ottimo motivo di fondo e la solita steel a dare un tono malinconico. Strepitosa Love Songs, una canzone in puro stile tex-mex con tanto di fisarmonica e fiati mariachi, un tipo di brano che solo un texano e Tom Russell (e anche i Mavericks) sono in grado di scrivere, splendida e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=y6me6pkgN64 . Il CD termina con l’ennesimo ottimo pezzo, la fluida Fondly, dall’accompagnamento elettroacustico e banjo in evidenza, e con la saltellante Last Call, puro country nuovamente impreziosito da una melodia di prim’ordine ed un refrain decisamente accattivante.

Gran bel debutto: ora dopo tanta gavetta (e, ne sono certo, tante battutine più o meno cattive a proposito della sua stazza) auguro a Joshua Ray Walker di raccogliere quanto seminato.

Marco Verdi

Altro Grande Disco, Ormai E’ Una Garanzia! Tom Russell – October In The Railroad Earth

tom russell october in the railraod earth

 Tom Russell – October In The Railroad Earth – Frontera/Proper CD

Tom Russell è oggi, almeno a mio parere, uno dei maggiori songwriters americani, la cui crescita come autore è avvenuta progressivamente negli anni, disco dopo disco. Tom fa infatti parte di quella ristretta categoria di artisti che non sbaglia un colpo e che, con le sole possibili esclusioni di Hotwalker e Aztec Jazz, non ha mai deluso. Nel 2015 ha pubblicato il suo capolavoro assoluto, il magnifico The Rose Of Roscrae https://discoclub.myblog.it/2015/04/29/epica-saga-del-west-lunga-quarantanni-tom-russell-the-rose-of-roscrae-ballad-of-the-west/ , ma la sua carriera è piena di album degni di nota, pubblicati tra l’altro con cadenza abbastanza regolare: titoli come The Rose Of San Joaquin, The Man From God Knows Where, Borderland (disco dell’anno 2001 per il sottoscritto), Indian Cowboys Horses Dogs, Mesabi, solo per citare i miei preferiti. Ho sempre sostenuto che Russell, originario della California, sia in realtà un texano mancato, in quanto le sue canzoni parlano spesso di storie di confine, e spesso e volentieri vengono rivestite di sonorità country e tex-mex; ma Tom è un artista a tutto tondo, in quanto si diletta anche nella pittura (le copertine dei suoi album sono opera sua, e tiene anche diverse mostre in varie gallerie d’arte), ed in più i suoi testi hanno quasi sempre riferimenti letterari che denotano una notevole cultura.

Il suo nuovissimo album October In The Railroad Earth, per esempio, ha parecchi riferimenti alle opere di Jack Kerouac (uno dei padri della Beat Generation) a partire dal titolo che è lo stesso di uno scritto dell’autore del Massachusetts. Ed è proprio a Kerouac che Russell dedica il lavoro, ma anche a Johnny Cash: e pure questa non è una dedica casuale, in quanto October In The Railroad Earth è musicalmente ispirato direttamente dall’Uomo In Nero (i cui dischi, specie quelli tematici dei primi anni sessanta, sono stati indispensabili per la formazione musicale di Tom), e di conseguenza è quello dalle sonorità più country di tutta la carriera del californiano. Ma October In The Railroad Earth è prima di tutto un grande disco, che si pone da subito tra i migliori di Russell, ispiratissimo sia dal punto di vista lirico (ed è un vero peccato che nei suoi CD raramente Tom includa i testi) sia da quello musicale, ed in più suonato alla grande da una super band guidata dalla chitarra elettrica di Bill Kirchen, storico band leader dei Lost Planet Airmen di Commander Cody, e completata dalla sezione ritmica di David Carroll (basso) e Rick Richards (batteria) e dalla bella steel guitar di Marty Muse, mentre la quota tex-mex è rappresentata dal bajo sexto e fisarmonica di Max e Josh Baca dei Los Texmaniacs.

Ed il CD parte subito alla grande con la title track, in cui il vocione profondo di Tom introduce una strepitosa country song, quasi come se Cash fosse ancora tra noi: melodia accattivante, ritmo acceso ed una bellissima steel a punteggiare, oltre ad un breve ma ficcante assolo di Kirchen. Small Engine Repair è una cadenzata ballatona contraddistinta da uno splendido refrain, un pezzo ancora sfiorato dal country che dimostra lo status di grande cantautore ormai raggiunto dal nostro; T-Bone Steak And Spanish Wine sposta l’album su territori folk, e vede Tom accompagnarsi solo all’acustica, per un intenso racconto tipico dei suoi, cantato con la solita voce espressiva, mentre Isadore Gonzalez è assolutamente strepitosa, un valzerone tex-mex dominato dalla fisa di Josh Baca, servito da un testo profondamente evocativo e da un motivo irresistibile: una delle migliori composizioni di Tom, e non solo su questo disco. Red Oak Texas è ancora un’ottima ballata, nella quale Russell alterna cantato e talkin’ con estrema disinvoltura, un accompagnamento avvolgente da parte della band ed un altro ritornello vincente.

Back Streets Of Love vede di nuovo Tom in perfetta solitudine alle prese con uno slow intenso e toccante, con l’aggiunta della seconda voce di Eliza Gilkyson che fa la differenza, un brano in contrasto con la bellissima Hand-Raised Wolverines, una rock song elettrica e potente, suonata alla grande e melodicamente sempre ad alto livello. Highway 46 è un limpido e terso country tune, più texano che mai, dal delizioso chorus ed ancora con la Gilkyson ad impreziosire il tutto con la sua voce cristallina; con Pass Me The Gun, Billy siamo in pieno territorio western, un racconto decisamente emozionante tra talkin’, melodia, canzone e poesia. Chiusura con When The Road Gets Rough, movimentato pezzo elettrico tra country e rock (tra i più riusciti del CD) e con una fantastica ripresa di Wreck Of The Old 97, brano popolare reso famoso proprio da Cash: gran ritmo e Kirchen che arrota da par suo, il miglior omaggio possibile al Man In Black. Altro gran bell’album da parte di Mr.Tom Russell: October In The Railroad Earth ce lo ritroveremo tra le mani anche a fine anno, quando sarà tempo di classifiche.

Marco Verdi

Dopo Vent’Anni E’ Un Disco Ancora Attualissimo! Calexico – The Black Light 20th Anniversary Edition

calexico black light 20th anniversary

Calexico – The Black Light 20th Anniversary – City Slang/Quarterstick 2CD

Sono già passati due decenni dall’uscita di The Black Light, il disco più famoso (e con tutta probabilità anche il più bello) dei Calexico, band originaria di Tucson e nata nel 1995 da una costola dei Giant Sand. Infatti il gruppo, o forse è meglio dire il duo, ebbe origine quando la sezione ritmica del combo guidato da Howe Gelb, vale a dire Joey Burns (basso) e John Convertino (batteria), decise di intraprendere un discorso musicale distinto da quello della loro band principale, prima con il nome di Spoke e dal 1997 con il moniker definitivo di Calexico, come la città che sorge sul confine tra California e Messico (dalla parte americana, che si contrappone alla Mexicali che si trova subito aldilà della frontiera). The Black Light, uscito nel 1998, fu il primo disco dei due (in realtà ne avevano pubblicato già uno come Spoke tre anni prima), ed è ancora oggi considerato uno dei lavori più influenti ed innovativi degli anni novanta, un album che diede il via ad una vera e propria carriera per Burns e Convertino, al punto da costringerli ad abbandonare i Giant Sand di lì a qualche anno.

E The Black Light, una sorta di concept con canzoni ambientate nel deserto dell’Arizona, è ancora oggi un grandissimo disco, un lavoro innovativo e con un suono che non ha perso un grammo della sua attualità. La musica del duo (che suona la maggior parte degli strumenti, ed è aiutato da pochi ma validi amici, tra cui lo stesso Gelb al piano ed organo, Nick Luca alla chitarra flamenco, Bridget Keating al violino e Neil Harry alla steel) è una creativa e stimolante miscela di rock, tex-mex, surf, musica western alla Ennio Morricone, latin rock e jazz, un genere molto cinematografico e di difficile catalogazione, ma di grande fascino. Alcuni hanno definito le canzoni dei Calexico come “desert noir”, altri come colonna sonora del western che Quantin Tarantino non ha mai girato, fatto sta che The Black Light è un album che ancora oggi non ha grandi termini di paragone: in alcuni momenti sembra di sentire i Los Lobos, ma quelli meno immediati, in altri momenti ci sono sonorità alla Tom Russell, anche se il cowboy californiano è decisamente più country (e comunque nel 2009 il buon Tom vorrà proprio i Calexico come backing band per il suo Blood And Candle Smoke). Di certo la musica dei due ex Giant Sand è davvero adatta per una ipotetica soundtrack, dato che sui 17 brani dell’album originale solo sei sono cantati.

E sono proprio gli strumentali la parte più interessante del disco, a partire dalla splendida Gypsy’s Curse, che apre alla grande il lavoro con un tex-mex-rock dal chiaro feeling morriconiano, una chitarra twang a dominare, subito affiancata dalla fisarmonica e da un “guitarron”, il tutto al servizio di una melodia decisamente evocativa. Degne di nota sono anche la misteriosa Fake Fur, con un bel gioco di percussioni in primo piano ed una chitarra in lontananza (qui vedo i Los Lobos più sperimentali, o meglio la band “dopolavorista” di Hidaldo e Perez, i Latin Playboys), la sognante Where Water Flows, per chitarra acustica, marimba ed un suggestivo violoncello, la cadenzata e messicaneggiante Sideshow, molto godibile, e la complessa Chach, tra rock, jazz e sonorità hard boiled (ancora i Lupi, ma quelli di Kiko). Strepitosa poi Minas De Cobre, pura fiesta mexicana, splendida sotto ogni punto di vista, mentre l’intensa e toccante Over Your Shoulder è una slow ballad che sfiora il country; Old Man Waltz è un vero e proprio valzer dal sapore tradizionale, che si contrappone al bellissimo rock di confine Frontera, surf music degna degli Shadows di Hank Marvin.

E poi ci sono i sei brani cantati (da Burns): la deliziosa western ballad The Ride (Pt. II), con un sapore d’altri tempi, la sussurrata title track, cupa ma affascinante, la lunga e soffusa Missing, percorsa da una bella chitarra e da appropriati rintocchi di pianoforte (oltre che da una languida steel), la squisita Trigger, ballatona ancora dal mood western, la mossa Stray, tra rock e Messico, e la quasi sonnolenta Bloodflow. La nuova riedizione di The Black Light, oltre ad un libretto potenziato con nuove liner notes di Burns e Convertino, offre l’album originale opportunamente rimasterizzato sul primo CD ed un secondo dischetto con undici brani usciti all’epoca come b-sides o su EP (di cui solo uno cantato). Alcuni di questi pezzi aggiunti sono chiaramente dei riempitivi (Man Goes Where Water Flows, Rollbar, Drape), ma altri non avrebbero sfigurato sul disco originale, come El Morro, un brano guidato da una splendida slide acustica degna di Ry Cooder, l’intensa e quasi ipnotica Glowing Heart Of The World, che dopo due minuti attendisti si trasforma in un surf-rock strepitoso, la fluida rock ballad in stile western Lacquer e la breve e struggente Bag Of Death. Infine abbiamo tre missaggi differenti della splendida Minas De Cobre, che probabilmente è da considerarsi il capolavoro del disco uscito nel 1998. Un disco, ripeto, ancora talmente bello ed attuale da sembrare il risultato di una session (rigorosamente notturna) di pochi mesi fa.

Marco Verdi

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P.S: avendo nominato nel corso della recensione Tom Russell, volevo segnalare un interessante CD che il cantautore di Los Angeles ha pubblicato solo sul suo sito, cioè Old Songs Yet To Sing, in cui Tom rivisita in acustico (e con l’aiuto esclusivamente di Andrew Hardin alla seconda chitarra acustica) una serie di classici del suo songbook, con esiti eccellenti dato che stiamo parlando di brani che rispondono ai titoli di Gallo Del Cielo, Tonight We Ride, Veteran’s Day, The Sky Above, The Mud Below, Angel Of Lyon, Haley’s Comet, Rose Of The San Joaquin, Navajo Rug, Throwing Horseshoes At The Moon ed altre 11 splendide canzoni. Un gustoso antipasto in attesa del nuovo album “elettrico” di Russell, October In The Railroad Earth, in uscita a metà Marzo.

Un Vero Cantastorie Della Musica “Americana”. Tom Russell – Folk Hotel

tom russell folk hotel

Tom Russell – Folk Hotel – Frontera Records/Proper Deluxe Edition

Tom Russell, nella sua lunga carriera, ha sfornato diversi “concept album” di sicuro interesse, uno dedicato alle “western songs” Indians Cowboys Horses Dogs (04), e soprattutto la bellissima, e in parte innovativa, “trilogia” iniziata con The Man From God Knows Where (una saga familiare che narra la storia della famiglia Russell (99), proseguita con Hotwalker (un viaggio a ritroso nella memoria e nella storia dell’America (05), e conclusa (per ora) con l’affascinante The Rose Of Roscrae (una saga popolare che parte dall’Irlanda e raggiunge il Canada (15) http://discoclub.myblog.it/2015/04/29/epica-saga-del-west-lunga-quarantanni-tom-russell-the-rose-of-roscrae-ballad-of-the-west/ . Alcuni puntualmente recensiti su queste pagine: fino ora ad arrivare a questo nuovo lavoro Folk Hotel, un intrigante album, ricco di argomenti su personaggi e storie della provincia americana, raccontate al Chelsea Hotel di New York (raffigurato sulla cover del disco, dipinta dallo stesso Russell), tanto caro al grandissimo Leonard Cohen (di cui sentiamo la mancanza), e ad altri artisti di quel periodo. Folk Hotel come consuetudine è stato registrato ad Austin in Texas presso lo studio Congress House, e il buon Tom (che suona anche parte degli strumenti), è aiutato dalla presenza di illustri musicisti della scena “roots” americana, come il mitico e amico fisarmonicista Joel Guzman (Joe Ely e Los Lobos fra i tanti suoi “clienti”), Mark Hallman alle percussioni e bouzouki, Redd Volkaert alle chitarre, Augie Meyers al pianoforte e voce, Hansruedi Jordi alla tromba, e come graditi ospiti i nostri Max De Bernardi e Veronica Sbergia rispettivamente alla chitarra e washboard e armonie vocali, nonché con Joe Ely e la brava Eliza Gilkyson a duettare con lui, il tutto prodotto dallo stesso Russell con Mark Hallman.

La canzone d’apertura Up In The Old Hotel (si riferisce al famoso libro di Joseph Mitchell) è una dolce ballata con l’intro della tromba di Jordi e dove si sente subito l’impronta di Guzman, per poi passare subito alle atmosfere “messicane” di una spumeggiante Leaving El Paso, cantata in duetto con Eliza Gilkyson,  a seguire le trame acustiche di una accorata e soave I’ll Never Leave These Old Horses (dedicata al leggendario Ian Tyson), e poi ancora un duetto con la Gilkyson nell’elegia musicale The Sparrow Of Swansea (scritta con Katy Moffatt e dedicata al poeta inglese Dylan Thomas), con una bella melodia che ricorda vagamente Streets Of London di Ralph McTell.  Le narrazioni “antiche” di Tom continuano con l’intro recitativo di All On A Belfast Morning (da una poesia del poeta di Belfast James Cousins), a cui fanno seguito il moderno bluegrass” di una “agreste” Rise Again, Handsome Johnny, dove fa una bella figura il duo italiano Max De Bernardi e Veronica Sbergia. Ci inchiniamo davanti alla bellezza di Harlan Clancy, dettata dalle note del pianoforte di Augie Meyers e dell’armonica di Tom, mentre The Last Time I Saw Hank è la classica ballata texana, che tanti presunti nuovi “fenomeni” probabilmente non saranno mai in grado di scrivere. Con The Light Beyond The Coyote Fence e The Dram House Down In Gutter Lane, Russell propone la parte più acustica del lavoro (brani perfetti da suonare sotto le stelle del Texas), a cui fa seguito il secondo recitativo di un’altra poesia totale come The Day They Dredged The Liftey / The Banks Of Montauk / The Road To Santa Fe-O, per poi volare col cuore in Danimarca per una struggente e triste The Rooftops Of Copenhagen (dedicata al navigatore danese Ove Joensen).

L’edizione deluxe è ampliata da una riscrittura di Just Like Tom Thumb’s Blues (del premio Nobel Bob Dylan  *NDB Nella stessa pagina del Blog oggi trovate anche l’anticipazione del nuovo cofanetto di Bob, il vol. 13 delle Bootleg Series Trouble No More, un fil rouge perfetto), che Tom canta in duetto con Joe Ely, accompagnati  entrambi dalla magica fisarmonica di Guzman, e dal blues acustico di Scars On His Ankles, un commovente incontro immaginario tra lo scrittore Grover Lewis e il grande cantante e chitarrista blues Lightnin’ Hopkins, due canzoni piuttosto lunghe, una di sei e una di nove minuti, quindi non dei riempitivi, anzi. Come nei dischi citati inizialmente, questo ultimo Folk Hotel come sempre è un gesto di grande affetto verso storie e personaggi che Tom Russell (romanziere, criminologo, oltre che artista e cantautore) ha certamente amato, dando vita a questa bella raccolta di canzoni, che ci confermano un cantautore ancora in piena forma (e anche prolifico visto il recente omaggio con Play One More: The Songs Of Ian & Sylvia http://discoclub.myblog.it/2017/05/29/un-sentito-omaggio-da-parte-di-un-grande-musicista-ad-un-grande-duo-tom-russell-play-one-more-the-songs-of-ian-sylvia/ ), ed in grado di emozionare con ballate dirette che hanno la forza e la capacità di raccontare la sua America, ma soprattutto di scavare nella nostalgia della gente.

Tino Montanari

Un Sentito Omaggio Da Parte Di Un Grande Musicista Ad Un Grande Duo. Tom Russell – Play One More: The Songs Of Ian & Sylvia

Tom Russell Play One More

Tom Russell – Play One More: The Songs Of Ian & Sylvia – True North/Ird CD

Tom Russell è ormai diventato uno dei miei cantautori preferiti. Californiano di Los Angeles, ma con uno stile ed un suono decisamente texano, Tom è uno di quelli che in quasi quarant’anni non ha mai deluso, e soprattutto dagli anni novanta in poi ha sfornato un disco più bello dell’altro, album che rispondono ai titoli, solo per citare quelli che amo di più, di The Rose Of San Joaquin, The Long Way Around, The Man From God Knows Where (splendido), Borderland (ancora meglio), Indian Cowboys Horses Dogs e Mesabi  http://discoclub.myblog.it/2011/09/06/ma-allora-escono-ancora-dischi-belli-tom-russell-mesabi/ (solo un paio di lavori non mi avevano convinto più di tanto, il frammentario Hotwalker, quasi uno spoken word album, e l’esperimento con orchestra non pienamente riuscito Aztec Jazz). Dischi pieni di bellissime canzoni, di racconti sospesi tra folk, country, tex-mex (il confine col Messico è sempre stato molto presente in Russell) e cowboy songs, un artista talmente bravo che perfino le sue due antologie uscite quasi in contemporanea nel 2014 (Tonight We Ride e The Western Years) http://discoclub.myblog.it/2014/10/12/cowboys-tantissime-belle-canzoni-tom-russell-the-western-years/erano così belle da sembrare quasi due dischi nuovi. Quando sembrava che, dopo decenni di onorata carriera, Russell avesse già dato il suo meglio, ecco due anni fa l’uscita del suo capolavoro, The Rose Of Roscrae, un album formidabile, un disco straordinario che raccontava in due CD un’epopea western di grande intensità, un concept pieno di grandi canzoni e con una lista di ospiti da far tremare le gambe (Joe Ely, Jimmie Dale Gilmore, Augie Meyers, Jimmy LaFave, Ramblin’ Jack Elliott, John Trudell, Dan Penn, Ian Tyson e Guy Clark) http://discoclub.myblog.it/2015/04/29/epica-saga-del-west-lunga-quarantanni-tom-russell-the-rose-of-roscrae-ballad-of-the-west/ .

Oggi Tom ritorna con un lavoro diametralmente opposto, registrato quasi in perfetta solitudine, con l’ausilio unicamente di Grant Siemens alle chitarre acustiche ed elettriche e di Cindy Church alle armonie vocali: Play One More: The Songs Of Ian & Sylvia è, come recita il titolo, un omaggio da parte del nostro alle canzoni di Ian Tyson e Sylvia Fricker Tyson, duo folk canadese tra i più popolari negli anni sessanta, e da sempre tra le maggiori fonti di ispirazione di Tom. Ex marito e moglie nella vita, sia Tyson che la Fricker sono ancora tra noi, anzi Ian è ancora attivo musicalmente (Carnero Vaquero, il suo ultimo album uscito due anni fa, è molto bello http://discoclub.myblog.it/2015/07/10/vero-cowboy-canadese-ian-tyson-carnero-vaquero/ ), ma nel periodo di maggior successo hanno scritto davvero tante splendide canzoni, alcune delle quali sono state scelte da Tom per questo disco. E Russell ha fatto una scelta personale, omettendo i brani più noti, principalmente la leggendaria Four Strong Winds ma anche You Were On My Mind (sì, proprio la Io Ho In Mente Te dell’Equipe 84, non tutti sanno che è opera di Sylvia * NDB Grandissima la versione di Barry McGuire), ed optando per pagine più oscure del songbook dei due canadesi, ma non per questo meno interessanti (ci sono anche un paio di pezzi di cui Tom è co-autore, dato che conosce i due da anni), scegliendo di preservare la purezza delle melodie e non appesantirle con una strumentazione corposa: solo due chitarre e due voci, proprio come nei pezzi originali del duo.

Ed il disco, pur lontano dall’essere un’opera sul livello magnifico di The Rose Of Roscrae, funziona a meraviglia. Tom, oltre che un grande autore, si rivela un ottimo interprete, e l’idea di farsi doppiare in alcuni pezzi da una voce femminile, così da ricreare l’atmosfera originale, è vincente: in più, gli arrangiamenti scarni esaltano la purezza delle melodie, anche se forse qua e là una bella fisarmonica l’avrei inserita. L’album è decisamente unitario e compatto, e per questo non necessita a mio parere della solita disamina brano per brano, dato che le dodici canzoni presenti sono tutte allo stesso livello, siano esse delle ballate lente ed intense dal profumo di West (Wild Geese, Rio Grande, The Night The Chinese Restaurant Burned Down, splendida, la limpida cowboy song Old Cheyenne, o la cristallina Short Grass, dal pathos notevole, o ancora The Renegade, che sembra uscire dalla penna di Tom), oppure brani più vivaci, nei quali viene usata anche la chitarra elettrica (Thrown To The Wolves, Play One More, bellissima anche questa, o il quasi bluegrass Red Velvet). Per finire con la straordinaria When the Wolves No Longer Sing, forse la più bella di tutte le canzoni presenti, che non a caso è scritta insieme da Tyson e Russell. Come bonus finale, Tom ci regala due demo inediti di Ian & Sylvia, Grey Morning e la più nota The French Girl, nelle quali gli allora moglie e marito si dividono rispettivamente i compiti di voce solista.

Tom Russell proprio non ce la fa a fare dischi brutti e, anche se dopo il gran lavoro fatto con The Rose Of Roscrae si è preso una pausa dal songwriting, in Play One More abbiamo comunque il Tom performer, che non è di certo inferiore.

Marco Verdi

Il Vero Erede Di Chris LeDoux? Aaron Watson – Vaquero

aaron watson vaquero

Aaron Watson – Vaquero – Big Label Records/Thirty Tigers CD

Quella di Aaron Watson, countryman texano sulla scena da diversi anni, è una bella storia. Musicista vero, con le influenze giuste (Waylon Jennings, Willie Nelson ma anche Chris LeDoux per il suo approccio da singin’ cowboy), ha inciso dal 1999 al 2010 una decina di dischi di qualità, tra studio e live, creandosi un certo seguito, ma collezionando più complimenti che vendite vere e proprie. Real Good Time del 2012 è riuscito ad entrare nella Top Ten country, ma il botto vero Aaron lo ha fatto con The Underdog del 2015, che è arrivato dritto al numero uno ed addirittura nella Top 15 generale di Billboard, un successo in parte inatteso, anche perché per raggiungerlo il nostro non ha modificato una virgola del suo suono (un rockin’ country vigoroso, tipicamente texano) e soprattutto ce l’ha fatta senza il supporto di una major. Vaquero è il suo nuovissimo album, che conferma l’eccellente momento di Watson, in quanto è un disco di puro Texas country, in questo caso con molte canzoni ispirate dal confine con il Messico, quasi come se fosse un concept alla Tom Russell (e molti brani ricordano molto da vicino lo stile del cantautore californiano ma texano d’adozione, anche se Aaron è più country ed obiettivamente un gradino sotto come autore), suonato come sempre in maniera forte e senza fronzoli da un manipolo di ottimi musicisti (non ho i nomi in quanto sono in possesso di un pre-release CD, ma dovrebbero essere i musicisti della sua band, quindi nomi non noti, ma come detto di qualità) e cantato dal nostro con il consueto piglio fiero.

Il CD, prodotto con mano sicura da Marshall Altman (Brad Paisley, Frankie Ballard) è anche abbastanza lungo, sedici canzoni per più di un’ora di durata, anche se gli episodi leggermente sottotono non sono più di due-tre. Texas Lullaby fa partire il disco con il piede giusto, una bella ballata da vero cowboy, con un refrain decisamente accattivante, subito seguita dalla spedita Take You Home Tonight, puro country suonato con gli strumenti giusti e con un ottimo senso del ritmo, e poi Aaron ha anche una bella voce. These Old Boots Have Roots è un rockin’ country con il ritmo che quasi simula una galoppata in prateria, un pezzo trascinante e suonato alla grande (splendido assolo di violino, molto Charlie Daniels), la lenta Be My Girl calma un po’ le acque, senza l’utilizzo di zucchero in eccesso, mentre They Don’t Make ‘Em Like They Used To è una western ballad classica e nostalgica, con strumentazione acustica e ritmo veloce ma leggero. La deliziosa title track è una tex-mex ballad decisamente russelliana (non mi sarei stupito di trovare il nome di Tom tra gli autori), fluida e limpida, precede Outta Style, primo singolo e gran bel pezzo country-rock, mosso ed orecchiabile, anche se un filino più rotondo nei suoni (ma non più di tanto).

Run Wild Horses è più pop ed è anche la meno interessante finora, ma è un peccato veniale, anche perché il disco si riprende subito con la suggestiva Mariano’s Dream, ancora tra Texas e Messico, uno struggente slow strumentale costruito intorno ad una chitarra flamenco, un brano che poi confluisce nella notevole Clear Isabel, country & western texano al 100%, suonato come Dio comanda e con pathos da vendere, tra le più belle del CD. Già così ci sarebbe di che accontentarsi, ma ci sono ancora sei canzoni, tra le quali meritano senz’altro una segnalazione lo splendido honky-tonk One Two Step At A Time, con un arrangiamento deliziosamente retrò, la potente e ritmata Amen Amigo, la roccata Rolling Stone (d’altronde, con quel titolo…), un ottimo potenziale secondo singolo, e la conclusiva Diamonds & Daughters, tenue e bucolica. Non sappiamo se Vaquero bisserà il successo di The Underdog: se così fosse, avremmo la conferma inaspettata che nelle classifiche USA c’è spazio anche per il country di qualità. Esce oggi 24 febbraio.

Marco Verdi

L’Integrale Di Uno Dei (Pochi) Grandi Musicisti Italiani! Francesco De Gregori – Backpack Seconda Parte

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Ed eccoci alla seconda ed ultima parte dell’articolo.

Canzoni D’Amore (1992): il disco preferito dal sottoscritto, un lavoro ispirato, prodotto e suonato alla grande, dal suono ancora più rock di Miramare, e con un De Gregori in forma strepitosa e più arrabbiato che mai. Infatti il titolo è volutamente fuorviante, in quanto, a parte la tenera Bellamore, le canzoni parlano di attualità, con, per la prima volta, riferimenti precisi a personalità politiche (La Ballata Dell’Uomo Ragno, con la sua strofa in cui fa a pezzi Bettino Craxi) e non (la stupenda Vecchi Amici – la sua Positively 4th Street – in cui letteralmente distrugge qualcuno, alcuni dicono Venditti anche se Francesco non ha mai confermato). Sangue Su Sangue è un rock’n’roll con le contropalle, Adelante! Adelante! è una sontuosa ballata elettrica, la fluida Viaggi e Miraggi ha un testo bellissimo. E poi c’è la straordinaria Povero Me, una rock ballad superba, con un lungo ed ispirato assolo chitarristico finale.

Il Bandito E Il Campione (1993): forse il miglior disco dal vivo di De Gregori, nel quale il nostro rockeggia (Sangue Su Sangue, Vecchi Amici) e dylaneggia (Rimmel, Buonanotte Fiorellino) alla grande, supportato da una band coi fiocchi (Lucio Bardi e Vincenzo Mancuso alle chitarre fanno sfracelli). La title track, unica incisa in studio, è un ruspante country & western scritto dal fratello di Francesco, Luigi Grechi, anche se somiglia un po’ troppo a Billy The Kid di Charlie Daniels. In conclusione, una sorprendente live version di Vita Spericolata di Vasco Rossi, chiaramente migliore dell’originale.

Bootleg (1994): a meno di un anno da Il Bandito E Il Campione De Gregori pubblica un altro live, totalmente senza aggiustamenti o correzioni e con il minimo sindacale di missaggio. Un disco quindi ancora più roccato e diretto del precedente, con il quale ha qualche pezzo in comune, ed una sontuosa Viva L’Italia, oltre all’inedita Mannaggia Alla Musica, un pezzo scritto in origine per Ron.

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Prendere E Lasciare (1996): un album controverso, con una produzione troppo pop e radiofonica, poco adatta al nostro (ad opera di Corrado Rustici), che in parte rovina diversi brani che avrebbero figurato meglio senza troppi orpelli (e le future rese dal vivo di alcuni di essi lo confermeranno). La canzone di punta, L’Agnello Di Dio, ha un arrangiamento che la fa sembrare un pezzo di Zucchero, e buone cose come Rosa Rosae e Stelutis Alpinis, oltre alla splendida Un Guanto (la migliore del lavoro) avrebbero richiesto una mano più leggera. Gli unici due brani che vanno bene così sono la folkeggiante Fine Di Un Killer (con Francesco al banjo) ed una Battere E Levare voce e chitarra inserita come ghost track. Il disco è l’unico del nostro ad essere stato completamente inciso all’estero, per la precisione a Berkeley, sobborgo universitario di San Francisco popolarissimo durante la Summer Of Love.

La Valigia Dell’Attore (1997): doppio CD dal vivo, che ha qua e là delle sonorità un po’ rotonde e mainstream, risentendo in parte dei problemi di Prendere E Lasciare, anche se le canzoni incluse sono talmente belle che dopo un po’ non ci si fa caso. Ci sono anche tre inediti in studio: la maestosa title track, la roccata Dammi Da Mangiare (un brano minore), e soprattutto la splendida Non Dirle Che Non E’ Così, fedele e riuscita traduzione di If You See Her, Say Hello di Bob Dylan.

Amore Nel Pomeriggio (2001): De Gregori inaugura il nuovo millennio con un grande album (è nella mia Top 3 con Canzoni D’Amore e Rimmel), dai suoni stavolta “giusti” e con un mood roots-rock che è un piacere per le orecchie. Non mancano ovviamente le belle canzoni, come l’affascinante Caldo E Scuro, la gustosa country ballad Cartello Alla Porta, l’intensissima ballata pianistica Sempre E Per Sempre, il commosso omaggio a De Andrè con la riproposizione di Canzone Per L’Estate (scritta a quattro mani dai due ed incisa dal cantautore genovese negli anni settanta). Ed i due brani migliori: la fluida ballata rock Condannato A Morte (ispirata a Salman Rushdie) e la discussa, e per qualcuno revisionista, Il Cuoco Di Salò, dalla struttura melodica strepitosa e con la produzione di Franco Battiato.

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Fuoco Amico (2002): altro live, e forse il più bello insieme a Il Bandito E Il Campione. Di sicuro il più rock, con vere e proprie rivisitazioni chitarristiche del repertorio del nostro (solo Generale è voce e chitarra, ma la chitarra è elettrica); Bambini Venite Parvulos è quasi irriconoscibile, Un Guanto è una meraviglia, Condannato A Morte è anche meglio che in studio, c’è perfino l’inatteso recupero di La Casa Di Hilde, in puro stile Americana. Ma potrei citarle tutte.

Il Fischio Del Vapore (2003): sorprendente album in duo con la folksinger Giovanna Marini, nel quale il nostro ripesca vecchi brani della tradizione popolare (molti sono canti di lavoro) e li ripropone a volte con una veste elettrica, altre in maniera forse fin troppo filologica (e un po’ pesantina): canzoni come Sacco E Vanzetti, Il Feroce Monarchico Bava, Nina Ti Te Ricordi, Saluteremo Il Signor Padrone, Bella Ciao (nella versione originale delle mondine). Un’operazione che sarà anche meritoria e lodevole, ma a me questo disco non piace.

Pezzi (2005): Francesco torna a fare ciò che sa fare meglio, e pubblica uno dei suoi album più rock e dal suono più americano. Pezzi contiene una bella serie di canzoni, ancora una volta ispirate dall’attualità, come il singolo portante, la potente e frenetica Vai In Africa, Celestino! Ma c’è anche un rock-blues purissimo (Numeri Da Scaricare), una ballata di rara intensità (Gambadilegno A Parigi), un rock’n’roll trascinante (Tempo Reale), oltre alla splendida Il Panorama Di Betlemme, forse la migliore del lotto.

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Calypsos (2006): a meno di un anno di distanza da Pezzi, ecco a sorpresa un altro album di studio, un disco forse minore ma non privo di motivi di interesse, con un suono molto diverso dal predecessore, e canzoni più melodiche e meditate (l’unico vero rock è la rootsy Mayday), come la pianistica e dolcissima (nonostante il titolo) Cardiologia, l’eterea L’Angelo, la potente ballata anni sessanta La Linea Della Vita (con una struttura ed un botta e risposta voce-coro femminile che a me ricorda non poco certe cose di Leonard Cohen) e la conclusiva e saltellante Tre Stelle, forse in assoluto il brano più disimpegnato dell’intera carriera del nostro.

Left & Right (2007): ennesimo disco dal vivo, ed anche questo va inserito di diritto tra i più godibili di De Gregori, che ormai ha alle spalle una vera e propria rock band, tra le migliori in circolazione in Italia. Il suono è ancora ruspante e vigoroso, e la scaletta predilige gli episodi più recenti, con una strepitosa Numeri Da Scaricare posta in apertura (più di sei minuti di tostissimo blues elettrico), una Mayday decisamente dylaniana, la sempre bellissima Un Guanto, qui in versione country ballad, una Caldo E Scuro che è pura Americana, ed una rilettura quasi hard rock di L’Agnello Di Dio. Gli unici classici sono una rigorosa La Leva Calcistica Della Classe ’68, La Donna Cannone solo voce e piano, ed un arrangiamento di Buonanotte Fiorellino che la trasforma in un saltellante rock-blues.

Per Brevità Chiamato Artista (2008): altro ottimo disco, meno rock e più da songwriter, ma sempre con sonorità molto “americane”: la poetica ed ironica title track ha un arrangiamento ancora degno di Cohen, Finestre Rotte è un blues ricco di swing, le belle Ogni Giorno Di Pioggia Che Dio Manda In Terra e L’Angelo Di Lyon (traduzione fatta dal fratello Luigi di The Angel Of Lyon di Tom Russell) sono puro folk. E poi c’è il brano che fa più discutere, Celebrazione (nel quale il nostro prende decisamente le distanze dal ’68 e dai suoi significati, proprio nel quarantennale), proposto con una scintillante veste folk-rock byrdsiana.

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Pubs & Clubs (2012): ancora un live, ad oggi l’ultimo (ma il 3 Febbraio, tra pochi giorni dunque, uscirà Sotto Il Vulcano, un doppio CD registrato lo scorso Agosto a Taormina), inciso al The Place, un locale di Roma di appena cento posti. La scaletta è un mix equilibrato tra classici e brani più recenti, e le cose migliori sono una roboante e splendida Il Panorama Di Betlemme, Alice che diventa una deliziosa ballata folk, Battere E Levare trasformato in un trascinante bluegrass elettrico, e per la prima volta in un disco dal vivo la toccante Bellamore. Le chicche sono una rilettura in chiave blues elettrico di A Chi (grande successo di Fausto Leali) ed una Buonanotte Fiorellino suonata con la stessa base di Rainy Day Women # 12 & 35 di Bob Dylan.

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Sulla Strada (2012): ad oggi l’ultimo album di Francesco composto da brani inediti, ed a mio parere un passo indietro rispetto agli ultimi lavori, anche se comunque stiamo parlando di un buon disco. Di rock ce n’è poco (la title track, che non è certo tra le sue cose migliori, e la potente La Guerra, con un suggestivo ritornello corale) e si torna ad atmosfere più “italiane” ed anni settanta (Omero Al Cantagiro, Belle Epoque), ma con l’ispirazione abbastanza in calo. Il pezzo migliore è posto alla fine, la fluida ed avvolgente ballata Falso Movimento. (* NDB Nel 2013 è uscita una nuova limited edition, con diversa copertina e due brani in più. un libro fotografico, oltre a un DVD del backstage).

Vivavoce (2014): De Gregori fa un disco di cover di sé stesso, reincidendo 28 brani (è un doppio CD) più o meno famosi, ma attualizzando il suono ed il più delle volte cambiando gli arrangiamenti, come è solito fare dal vivo: i classici ci sono tutti (tranne Rimmel), ma anche diverse chicche. Ed il disco è splendido, con molti highlights: una toccante Alice eseguita in coppia con Ligabue, due voci e due chitarre, la potente Un Guanto nella sua miglior versione di sempre, Finestre Rotte che diventa un irresistibile rock’n’roll, una Natale ricca di swing, Niente Da Capire con il riff fischiettato (da un’idea di Lucio Dalla), una Vai In Africa, Celestino! che da rock song si trasforma in una sorprendente ballata, ed una Viva L’Italia molto più folk, con un arrangiamento che avrebbe dovuto essere quello originale. Non ci sono brani nuovi, ma trova posto una stupenda Il Futuro, traduzione ad opera del nostro dell’apocalittica The Future di Leonard Cohen.

De Gregori Canta Bob Dylan – Amore E Furto (2015): storia recente, il Principe che rifà il Menestrello (non avevo ancora usato nessun cliché…), anche se Francesco non sceglie la via più facile ed evita i superclassici, preferendo una selezione più personale. Ma per questo CD vi rimando alla mia recensione dell’epoca http://discoclub.myblog.it/2015/11/02/secondo-me-approverebbe-anche-bob-francesco-de-gregori-amore-furto-de-gregori-canta-dylan/

E’ chiaro che se avete già tutti gli album di Francesco De Gregori questo Backpack per voi è superfluo (anche perché, come ho già detto, non ve lo regalano), in caso contrario l’acquisto è quasi d’obbligo, in quanto verreste in possesso in un colpo solo di uno dei songbook migliori in circolazione, e non soltanto in Italia: l’unica pecca grave, visto di chi si sta parlando, è la totale assenza di testi all’interno della confezione.

Marco Verdi

Si Era Solo Preso Una Breve Pausa! Dub Miller – The Midnight Ambassador

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Dub Miller – The Midnight Ambassador – Smith Entertainment CD

Alzi la mano chi si ricorda di Dub Miller? Texano, esordì nel 2001 con l’ottimo American Troubadour, subito bissato l’anno successivo con l’altrettanto valido Post Country, entrando nel novero dei nomi più brillanti di quel movimento nato a cavallo tra Oklahoma e Texas e chiamato Red Dirt. Poi silenzio assoluto fino ad oggi (solo un live nel 2015, ma con registrazioni del 2002), un lunghissimo periodo durante il quale il nostro ha tentato prima di laurearsi in giurisprudenza (ma abbandonando di fatto i corsi al secondo anno) e poi di intraprendere la carriera di promoter ed organizzatore di concerti, anche qui con poco successo. Dub deve poi aver capito che il meglio è in grado di darlo soprattutto come cantautore, dato che ha finalmente deciso di tornare a fare musica, e pubblicando il suo primo album di brani originali in 14 anni, intitolandolo The Midnight Ambassador: quasi tre lustri lontano dalle scene è un periodo che sarebbe lunghissimo anche per una star affermata, figuriamoci per uno che non aveva neppure raggiunto lo status di artista di culto. Roba da stroncare sul nascere una carriera, specie in tempi come quelli odierni dove tutto viaggia velocissimo e non c’è il tempo di aspettare chi rimane indietro: ma Miller non si è spaventato, ha inciso le sue canzoni con calma e nel modo in cui voleva lui, e le ha pubblicate solo quando se lo sentiva, ed il risultato finale è decisamente riuscito, in quanto The Midnight Ambassador è un signor disco di puro songwriting country texano, una collezione di canzoni (undici) che ci restituisce un musicista che nonostante l’assenza dalle scene non ha perso lo smalto, come se questo nuovo lavoro fosse stato registrato un anno dopo Post Country.

Dub alterna brani country-rock diretti e fruibili a ballate profonde, ed è proprio in queste ultime che eccelle, in quanto è uno che sa scrivere, ha feeling, senso della musica, ed in più la vita non è che  gli abbia dato grandi soddisfazioni: i suoi colleghi però non si sono dimenticati di lui, dato che nell’album suonano personaggi come Cody Braun (uno dei due fratelli leader dei Reckless Kelly), il grande Lloyd Maines (il più grande produttore texano, che però qua si “limita” a suonare la steel guitar), il noto songwriter e musicista di Nashville Scott Davis, mentre il produttore è Adam Odor, uno che in carriera ha collaborato con Ben Harper, Jason Boland e Cody Canada. Il disco è stato registrato in parte in Texas, a Wimberley, ed in parte agli Abbey Road Studios di Londra. L’album non parte col botto, ma in maniera molto intensa con Things I Love About You, una sinuosa e toccante ballata, impreziosita dall’interpretazione ricca di pathos da parte di Dub e dagli ottimi interventi di steel (Maines) e violino (Braun). La mossa Broken Crown mi ricorda parecchio (anche il timbro vocale è simile) un brano alla Tom Russell, quel misto tra rock, western e Messico tipico del cowboy di Los Angeles: la splendida melodia ed il ritmo sostenuto rendono la canzone ancor più coinvolgente; The Day Jesus Left Odessa (bel titolo) è uno slow dal motivo decisamente emozionante, che ci mostra che il nostro è un autore forse non prolifico ma decisamente dotato di talento: uno dei pezzi più belli che ho ascoltato ultimamente (e non solo country). Mandi Jean ha curiosamente un refrain springsteeniano, anche se l’accompagnamento non ha nulla a che vedere col Boss (però con quel titolo!).

Charlie Goodnight, che inizia per voce, chitarra e violino (ma poi entra anche il resto della band, anche se in punta di piedi), ci conferma che il nostro si trova particolarmente a suo agio con le ballate: brano fluido e disteso, anch’esso tra i più riusciti; Comfortably Blue è invece un country-folk diretto e saltellante, che si apprezza fin dalle prime note: il bello di questo disco, oltre alle canzoni, sono gli arrangiamenti puliti ed essenziali, come se Dub avesse capito che a volte il meglio lo si ottiene per sottrazione. La cadenzata The Last Church Bell è caratterizzata da un gustoso botta e risposta voce-coro, mentre Taking Our Sunshine Away è il pezzo più elettrico del disco, un rockabilly texano al 100%, seguito senza soluzione di continuità da Big Chief Tablet, uno scintillante country-rock e dotato ancora di gran ritmo. Il CD termina con Ain’t No Cowboy, una western song dal tono epico, cantata con il giusto grado di drammaticità e suonata con grande perizia, e con la title track, un finale dai colori crepuscolari, ancora dominato da violino e steel.

Quattordici anni di assenza è un periodo lunghissimo, ma sembra che Dub Miller sia tornato più bravo di prima: speriamo soltanto che stavolta rimanga.

Marco Verdi