Cofanetti Autunno-Inverno 16. Ed Anche Space Oddity Compie 50 Anni, Ma Viene Celebrato “In Incognito”! David Bowie – Conversation Piece

david bowie conversation piece

David Bowie – Conversation Piece – Parlophone/Warner 5CD Box Set

Quest’anno gli estimatori di David Bowie non hanno avuto il solito volume dei box sets riepilogativi della carriera del musicista scomparso nel Gennaio del 2016 (una serie comunque più interessante per i neofiti che per i fans, dato la scarsità di materiale inedito), ma sono stati gratificati di un’operazione per loro ancora più stuzzicante. Facciamo un passo indietro di qualche mese, e cioè a quando la Parlophone ha pubblicato tre cofanetti esclusivamente in vinile intitolati rispettivamente Spying Through A Keyhole, Clareville Grove Demos e The “Mercury” Demos, in cui venivano pubblicate delle sessions in gran parte inedite del biennio 1968-1969 inerenti all’allora imminente “vero” debutto discografico del futuro Duca Bianco (l’album David Bowie, uscito per la Deram nel 1967 e pochissimo rappresentativo dello stile che il nostro avrà in seguito, è sempre stato trattato alla stregua di una falsa partenza). Anche il disco del 1969 si intitolerà David Bowie, quasi a voler rimarcare che quello sarà il vero debutto (negli Stati Uniti verrà invece ribattezzato in maniera secondo me un po’ idiota, Man Of Words, Man Of Music), ma oggi con quel nome il disco lo conoscono in tre, dato che dal 1972 ogni ristampa lo identificherà come Space Oddity, dal titolo della splendida ballata che apre il lavoro, uno dei brani più leggendari di Bowie che diede il via ad una lunga serie di canzoni a tema “spaziale” (e che venne pubblicata come singolo solo cinque giorni prima della missione Apollo 11 sulla Luna).

Oggi Space Oddity viene celebrato in maniera sontuosa ancorché un po’ strana, con un box che non mette in evidenza il nome dell’album ma lo nasconde preferendo recare il titolo Conversation Piece: cinque CD in cui troviamo i contenuti delle tre pubblicazioni in vinile citate in precedenza (che avevano un costo esageratamente alto) ulteriormente arricchite di altri 12 inediti, più due versioni corredate da bonus tracks dell’album originale del 1969, uno con il mix dell’epoca ed uno rifatto apposta per questo box (quest’ultimo disponibile anche separatamente), che occupano rispettivamente il quarto e quinto CD del box. Il cofanetto tra l’altro è splendido dal punto di vista “fisico”, uno dei più belli tra quelli usciti ultimamente: un librone dalla copertina dura pieno di foto rare, note brano per brano, crediti e vari scritti e testimoianze (tra cui quella di Tony Visconti, produttore dell’album e futuro partner artistico inseparabile per David), con i cinque CD infilati in  pratiche “tasche” poste all’inizio ed alla fine del libro. Risentiamo dunque con grande piacere Space Oddity (la versione remix del 2019 è incisa tra l’altro in maniera spettacolare), un lavoro che presentava diversi musicisti di gran nome, tra cui il futuro Yes Rick Wakeman alle tastiere, il batterista dei Pentangle Terry Cox, il chitarrista Tim Renwick, il bassista Herbie Flowers e l’arrangiatore Paul Buckmaster, mentre l’altro bassista John Lodge è solo omonimo di quello dei Moody Blues.

La title track rimane un capolavoro assoluto, ma anche i restanti brani mostrano il talento di un artista che di lì a poco diventerà uno dei più popolari al mondo: non manca qualche ingenuità (la pur bella Cygnet Committee è tirata un po’ troppo per le lunghe, Memory Of A Free Festival, con Marc Bolan ai cori, è pretenziosa), ma non mancano nemmeno ottime canzoni come l’energica e roccata Unwashed And Somewhat Slightly Dazed, l’orecchiabile Janine, il pop etereo della gentile An Occasional Dream, la folkeggiante God Knows I’m Good; troviamo anche per la prima volta all’interno della tracklist il bel brano che dà il titolo al box, originariamente omesso per problemi di durata e riciclato come lato B di un singolo. Come bonus nei due dischetti finali del cofanetto ci sono missaggi alternativi di tre brani dell’album, la versione rifatta di Wild Eyed Boy From Freecloud per un lato B, e la rilettura in italiano di Space Oddity intitolata Ragazzo Solo, Ragazza Sola, con parole di Mogol ma anche con il significato originale del testo completamente stravolto (e poi la pronuncia italiana di Bowie non è proprio impeccabile). Ma come ho già accennato prima le vere chicche del box sono contenute nei primi tre dischetti, dei quali vado a fare una veloce disamina.

CD 1. Le prime dodici tracce sono tutti home demos del 1968 in cui Bowie suona tutto da solo, in alcuni casi aggiungendo anche cori sempre con la propria voce: a parte un primo frammento di Space Oddity e la leggerina London Bye Ta-Ta sono tutti brani abbastanza oscuri, con titoli come April’s Tooth Of Gold, The Reverend Raymond Brown, When I’m Five, Angel Angel Grubby Face eccetera, pezzi che in alcuni casi avrebbero dovuto formare un ipotetico secondo album per la Deram. Tra pop, folk, reminiscenze beatlesiane ed un leggero tocco di psichedelia ci troviamo di fronte ad un documento di alto valore storico più che artistico, dato che le canzoni presenti non sono certo indimenticabili (anche se alcune di esse avrei voluto risentirle in una veste più consona, come In The Heat Of The Morning, Goodbye 3D (Threepenny) Joe e Love All Around). Gli otto pezzi che seguono risalgono all’inizio del 1969 e vedono David accompagnato alla chitarra e voce da John “Hutch” Hutchinson: tra i brani presenti troviamo altri tre tentativi di Space Oddity, che presenta già la struttura nota ma che lo stylophone suonato da Bowie riveste di sonorità sperimentali, una prima versione di An Occasional Dream, la vivace e bucolica Ching-A-Ling ed una cover di Life Is A Circus, oscura canzone dei misconosciuti Djinn. Il CD termina con due incisioni in solitaria di David (Conversation Piece e la dylaniana Jerusalem) ed alla prima versione pubbicata ufficialmente di Hole In The Ground (con George Underwood), uno tra gli inediti più mitizzati del nostro.

CD 2. Il sottotitolo di questo dischetto è The “Mercury” Demos, in quanto la fonte è un master tape in mono con la tracklist scritta a mano dall’A&R della Mercury Calvin Mark Lee. Dieci pezzi incisi nel ’69 ancora con Hutchinson, tra i quali spiccano finalmente titoli che poi finiranno su Space Oddity, come la title track, Janine (con il ritornello che scimmiotta scherzosamente quello di Hey Jude), An Occasional Dream, Conversation Piece, I’m Not Quite (che diventerà Letter To Hermione) e Lover To The Dawn, che si evolverà nel tour de force di Cygnet Committee. Ci sono però anche altre cose, come le già ascoltate in veste diversa Ching-A-Ling, Life Is A Circus e When I’m Five, oltre ad una cover molto intima di Love Song di Leslie Duncan, che l’anno seguente Elton John renderà popolare incidendola per l’album Tumbleweed Connection. Un bel CD, con Bowie rilassato ma perfettamente “dentro” alle canzoni ed autore di una serie di performance impeccabili. CD 3. Il terzo dischetto è una miscellanea che comprende versioni mono incise per la Decca di In The Heat Of The Morning e London Bye Ta-Ta, una take elettrica di Ching-A-Ling, molto interessante, una Space Oddity full band alternata ma sempre bellissima, un paio di missaggi in mono di pezzi noti e due diverse BBC Sessions, con solo due canzoni che finiranno su Space Oddity (Janine e Unwashed And Somewhat Slightly Dazed) ed altre che rimarranno rare o inedite, come Let Me Sleep Beside You, Karma Man e Silly Boy Blue.

Vedremo il prossimo anno se questo (ottimo) cofanetto sarà un episodio isolato, tendente a celebrare un album comunque importante in quanto diede il via ad una delle più luminose carriere della storia del rock, o se invece sarà solo la prima di versioni “super deluxe” di tutti gli album della discografia di David Bowie. In questo secondo caso, iniziate fin d’ora a risparmiare ed a fare spazio sui vostri scaffali.

 Marco Verdi

Un Inatteso E Sorprendente Ritorno A Livelli Di Eccellenza. Ralph McTell – Hill Of Beans

ralph mctell hill of beans

Ralph McTell – Hill Of Beans – Leola Music

Toh, guarda chi si rivede e si risente! Ralph McTell, da Farmsborough, Kent, dove è nato quasi 75 anni fa, ma da sempre cittadino di Londra, anzi del sobborgo di Croydon, città alla quale ha dedicato il suo brano più celebre, Streets Of London, con 212 versioni cantate in giro per il mondo, non escluse ben sei (o forse sette) dello stesso Ralph, l’ultima delle quali, incisa nel 2017 insieme a Annie Lennox  per raccogliere fondi per una associazione che si occupa dei senzatetto, per la prima volta ha raggiunto il primo posto delle classifiche inglesi (prima non c’era mai riuscito, arrivando al massimo al n°2). Ma è stato anche uno dei migliori e più prolifici rappresentanti del filone del folk britannico, con oltre 50 album pubblicati, in una carriera iniziata nel lontano 1968 con un album Eight Frames A Second, prodotto da Gus Dudgeon e arrangiato da Tony Visconti (che torna a riunirsi proprio con McTell, producendo questo Hill Of Beans). Il nostro amico diciamo che pur essendo un eccellente chitarrista (solo nell’ultima decade ha rilasciato una serie di sei album dal vivo, Songs For Six Strings), è da ascrivere più al filone dei cantautori, fatte le dovute proporzioni e diverse attitudini, quello che ha prodotto Donovan, Cat Stevens, John Martyn, Nick Drake, i Fairport Convention, insieme ai quali ha spesso partecipato al loro leggendario Festival di Cropredy, ma pure Wizz Jones, altro importante musicista folk inglese col quale ha inciso diversi dischi, due anche di recente.

Hill Of Beans (che si può tradurre come montagna di fagioli, ma non ne ho mai viste, oppure come un fico secco o cosa di poco conto) è il primo album di canzoni originali di McTell dal 2010, anno in cui uscì Somewhere Down To Road, e come detto riunisce Ralph con il suo vecchio amico Tony Visconti, che già gli produsse Not Till Tomorrow del 1972: per l’occasione Visconti si porta dietro anche la ex moglie Mary Hopkin e la figlia Jessica Lee Morgan, oltre al grande contrabbassista Danny Thompson. Il CD contiene 11 canzoni, per la maggior parte scritte negli ultimi anni, ma anche una composta nel 1978 e una nel 1988, esce per la sua etichetta personale la Leola Music, e come è consuetudine dei dischi di McTell tratta dei temi più disparati, a conferma dello stile eclettico, ricco di spunti letterari, artistici e anche musicali, delle sue canzoni: la voce, nonostante lo scorrere del tempo, è ancora profonda e risonante, immediatamente riconoscibile, come certifica subito la bella Oxbow Lakes, una canzone dove le questioni amorose si intrecciano con metafore geografiche e il fingerpickinng di Ralph si immette su un arrangiamento semplice ma amabile realizzato da Visconti, che suona anche il recorder nel brano https://www.youtube.com/watch?v=FGti92mx2qs , Brighton Belle per certi versi è una affettuosa storia della propria famiglia durante la II guerra mondiale, raccontata attraverso un brano che ha l’afflato e la profondità delle più belle canzoni di Christy Moore, con il quale il nostro ha più di una affinità sia a livello di timbro vocale che per la facilità con cui sa costruire belle melodie di grande fascino, in questo caso solo con l’acustica di McTell e il contrabbasso di Thompson a scandirne i tempi.

Clear Water era già apparsa su Myths And Heroes il disco del 2015 dei Fairport Convention, qui in una versione più intima e raccolta, anche se gli archi e il coro celestiale aggiunti da Visconti gli conferiscono un livello quasi spirituale non lontano dai fasti del passato, Gertrude And Alice, è un accorato racconto che narra dell’amore tra Alice Toklas e Gertrude Stein nella Parigi degli anni ’20, attraverso un arrangiamento incentrato sul raffinato uso di fisarmonica, cello ed archi. Gammel Dansk ha una atmosfera tra cabaret mitteleuropeo, chansonnier francesi e tocchi klezmer, cantata quasi alla Leonard Cohen, molto bella, Shed Of Song è uno dei brani dalla melodia più “splendente”, tra cello, archi, piano e il solito recorder, suono molto avvolgente e classico. Close Shave è uno dei brani più tradizionali, tra blues e ragtime acustico, mentre When They Were Young,  una canzone sui fremiti del primo amore, evidenzia ancora una volta l’uso della fisarmonica e degli archi, con una melodia  incantevole e Sometimes I Wish I Could Pray, a tempo di valzer, è quasi una country song con uso di organo e steel guitar, ma con un coro gospel aggiunto, con la Hopkin e la figlia, https://www.youtube.com/watch?v=urdpp0_ViBo . In chiusura Hill Of Beans che prende in prestito le atmosfere romantiche del film Casablanca, incrociate con le esperienze parigine giovanili di McTell come busker, con tanto di citazione testuale finale “You played it for her, play it for me. Play it. Play it Sam.”. E per non farsi mancare nulla c’è anche un sentito omaggio finale al giovane Bob Dylan, quello dell’amore per Suze Rotolo, tra sbuffi di armonica e chitarra arpeggiata, West 4th Street And Jones registrata dal vivo, è un delizioso tuffo nel passato, che mette il sigillo ad un album sorprendentemente bello https://www.youtube.com/watch?v=C88NrWUENoE .

Bruno Conti

Il Primo Disco “Importante” del 2016…Ma Non E’ Per Tutti! – David Bowie – Blackstar

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David Bowie – Blackstar – ISO/RCA CD – LP – 08-01-2016

Quando poco meno di tre anni or sono David Bowie tornò a sorpresa dopo dieci anni di silenzio assoluto con l’album The Next Day http://discoclub.myblog.it/2013/03/12/ancora-tu-ma-non-dovevamo-vederci-piu-david-bowie-the-next-t/ , fece quello che non molto spesso ha fatto nella sua carriera, ovvero dare al suo pubblico esattamente ciò che si aspettava, cioè un disco di puro e classico Bowie-sound, mossa abbastanza comprensibile in quanto, dopo un periodo di assenza così prolungato, era vitale per lui affermare al mondo di essere ancora in perfetta forma ed in grado di intrattenere come, con alti e bassi, aveva sempre fatto.

Con Blackstar (che esce, altrettanto a sorpresa, l’8 di questo mese, in coincidenza del suo sessantanovesimo compleanno) il discorso è diverso, in quanto David, essendo tornato tra noi in tutto e per tutto (anche se di concerti non se ne parla), si sente in pieno diritto di fare la musica che vuole e con chi vuole. E, nel caso di Blackstar, in una maniera che non accontenterà proprio tutti. Le prime recensioni online, tutte ugualmente entusiastiche (ma ormai Bowie è entrato a far parte della categoria degli intoccabili), parlano di un disco sperimentale e modernista, senza strizzate d’occhio pop al grande pubblico: tutto vero, anche se il musicista inglese ci ha spesso abituato a mosse spiazzanti (la trilogia berlinese degli anni settanta, le distorsioni hard dei Tin Machine, l’hip-hop presente su alcuni brani di Black Tie, White Noise, per non parlare dei due famigerati dischi di musica industrial e drum’n’bass Outside e Earthling), ma siccome io sono come San Tommaso volevo sapere se, a monte di tutto, il disco è bello o no.

Beh, sicuramente strano lo è, ed in certi punti anche parecchio, ma devo dire che al primo ascolto, benché piuttosto ostico in molti momenti, non mi è dispiaciuto affatto, anche se confido in futuri ascolti per migliorare ulteriormente il giudizio: certamente Blackstar non è un disco per tutti (e forse nemmeno per tutti i fan di Bowie), non è musica da mettere in sottofondo o da ascoltare in macchina, ma è prodotto benissimo (da David col fedele Tony Visconti), suonato alla grande ed il tanto temuto modernismo è quasi sempre tenuto a bada e dosato con gusto e misura. L’album (che non ha versioni deluxe particolari, ma non si sa mai dato che The Next Day era uscito di nuovo dopo pochi mesi con un intero CD in più, per la gioia di chi se lo era comprato subito) vede la presenza, insieme a Bowie che suona la chitarra acustica, di una sezione ritmica composta da Tim Lefebvre al basso e Mark Guiliana alla batteria, e di vari musicisti di estrazione jazz, un genere dal quale David ha sempre amato essere contaminato (l’ottimo Donny McCaslin, grande protagonista del disco con il suo sassofono, Ben Monder alla chitarra, con uno stile decisamente à la Robert Fripp, Jason Lindner alle tastiere), oltre al tanto temuto (da me) James Murphy, ovvero il DJ dietro il progetto elettronico LCD Soundsystem, che per fortuna limita il suo intervento alle percussioni in un paio di pezzi.

Blackstar, solo sette canzoni, si apre con la lunga title track (quasi dieci minuti), una mini-suite preceduta in rete da un video che definire inquietante è dir poco: una partenza obliqua, con una melodia ipnotica, le tanto temute sonorità “moderne”, una ritmica complessa ed il sax che è l’unica cosa suonata in maniera normale, anche se il tutto non fa certo pensare ad un singolo radiofonico. Poi al quarto minuto l’atmosfera si fa tetra, il ritmo cessa, arriva un coro che sembra provenire dall’aldilà, mentre David intona un motivo quasi normale (almeno per i suoi standard), anche se le stranezze non mancano, ed un finale straniante in cui spunta anche un flauto (anch’esso suonato da McCaslin). Un brano tutto sommato affascinante, anche se di difficile assimilazione. ‘Tis A Pity She Was A Whore non è del tutto sconosciuta (era sul lato B del singolo Sue (Or In A Season Or Crime uscito nel 2014), anche se per Blackstar è stata reincisa da capo a piedi: inizia con una batteria secca ed un sax che sembra cercare l’accordo giusto, poi Bowie comincia a cantare una melodia tipica delle sue (cioè non convenzionale), il ritmo si fa pressante ed il brano, nonostante qualche voluta dissonanza, non risulta affatto spiacevole, anche se non è esattamente la canzone da mettere ad un appuntamento galante.

Lazarus è il singolo corrente in radio in questi giorni (* NDB. Ed è anche la title-track del nuovo musical di Broadway scritto da Bowie https://www.youtube.com/watch?v=B_3mEWx2e_8): introdotta da basso e batteria, è più lenta della precedente brano, l’uso dei fiati e la melodia abbastanza lineare la rendono la canzone più fruibile finora, anche se i riff quasi distorti di chitarra tendono volutamente a rompere gli equilibri. Molto bello l’assolo di sax ed il lungo finale strumentale (ripeto, piaccia o non piaccia il genere, qui ci sono dei musicisti con le contropalle). Ed ecco proprio Sue (Or In A Season Of Crime), anch’essa in versione diversa da quella apparsa sull’antologia Nothing Has Changed: quella di due anni fa mi piaceva poco, e anche se questa rilettura più elettrica e “rock” (termine da prendere con le molle in questo disco) migliora le cose, io continuo a considerarlo un brano minore; Girl Loves Me inizia come una filastrocca allucinata, con la ritmica sghemba ed un synth sullo sfondo, siamo di nuovo sul versante “strano”, ma se finora tutto è stato abbastanza coeso e con un’idea di progetto, questo mi sembra fra tutti il pezzo più fine a sé stesso. Dollar Days è invece una sorprendente ballata pianistica dall’andamento canonico, con un sax soffuso, la chitarra acustica che finalmente si sente e la voce che tesse una melodia decisamente classica (e pure riuscita), finalmente il Bowie meno ostico, che ci regala una boccata d’aria fresca; I Can’t Give Everything Away, che chiude l’album a 41 minuti, torna solo parzialmente alle atmosfere del resto del disco, nel senso che la base è moderna (pur senza esagerare), ma il motivo risulta abbastanza orecchiabile, seppur nei canoni bowiani.

Quindi un lavoro volutamente spiazzante, nel quale però Bowie non arriva a punte di modernismo esasperato stile Earthling: non mi sento comunque di consigliarlo a chiunque, anche se, come ho già detto, ripetuti ascolti potrebbero far aprire qualche porta in più.

Marco Verdi