Un Ringo In Versione “Mini”, Ma Con Più Sostanza Del Solito! Ringo Starr – Zoom In

ringo starr zoom in

Ringo Starr – Zoom In – Universal CD EP

Inutile ribadire che la carriera solista di Ringo Starr ha rispettato in pieno le aspettative che i fans dei Beatles avevano dopo lo scioglimento del loro gruppo preferito: una lunga serie di album di piacevole ascolto, alcuni più riusciti di altri, ma con pochi titoli veramente imprescindibili (a mio parere si contano sulle dita di una mano: il countreggiante Beaucoup Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973, il suo seguito Goodnight Vienna, il comeback album del 1992 Time Takes Time e, forse, Vertical Man del 1998). In particolare, gli otto lavori pubblicati dal cantante-batterista di Liverpool tra il 2003 ed il 2019 sono tutti all’insegna di un pop-rock di facile assimilazione ma con poche vere zampate che li distinguano l’uno dall’altro, diciamo un livello medio di tre stellette https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/sappiamo-cosa-aspettarci-e-sempre-lui-lex-beatle-ringo-starr-whats-my-name/ . Lo scorso anno Ringo si è trovato come tutti a fare i conti con la pandemia, e durante il lockdown ha messo insieme una manciata di canzoni nuove e le ha registrate come d’abitudine “with a little help from his friends”.

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Il risultato è Zoom In, il primo EP della carriera del nostro, cinque canzoni per la durata complessiva di 19 minuti che mostrano un Ringo ispirato ed in ottima forma: forse il fatto di concentrarsi su soli cinque pezzi ha reso il progetto più solido e compatto e senza i soliti riempitivi presenti nei vari album dell’ex Beatle, ma è un fatto che Zoom In, pur non essendo un capolavoro, è la cosa migliore messa su disco dal barbuto drummer dai tempi di Ringo Rama (2003). Cinque brani che toccano vari generi, tutti affrontati da Ringo con la consueta verve e l’innata simpatia che lo contraddistingue da sempre, e prodotti da lui stesso insieme a Bruce Sugar. L’iniziale Here’s To The Nights (rilasciata sul finire del 2020) è il brano portante dell’EP, una bellissima ed emozionante ballata tra le migliori di Ringo negli ultimi trent’anni https://www.youtube.com/watch?v=S6oqrbFzLaU , nonostante una melodia ed un arrangiamento un po’ ruffiani tipici dell’autrice del pezzo (cioè la nota hit-maker Diane Warren): Ringo è accompagnato da Steve Lukather dei Toto alla chitarra, Nathan East al basso e Benmont Tench al pianoforte, ma il meglio lo troviamo nel coro “alla We Are The World” con la partecipazione tra gli altri di Paul McCartney, Joe Walsh, Lenny Kravitz, Sheryl Crow, Yola, Chris Stapleton, Ben Harper e Dave Grohl.

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Ascoltate questa canzone almeno un paio di volte e farete fatica a togliervela dalle orecchie. Zoom In Zoom Out mostra il lato rock di Ringo, un brano cadenzato che vede ancora Tench al piano ed addirittura l’ex Doors Robby Krieger alla solista: la base è leggermente blues, ma poi Mr. Starkey intona una delle sue tipiche melodie saltellanti ben supportato dalle backing vocalist femminili, ed il risultato è una canzone solida e piacevole al tempo stesso https://www.youtube.com/watch?v=w3XaEPUmsFA . La pimpante Teach Me To Tango fonde mirabilmente una struttura da pop song con ritmi quasi latini, anche se una chitarrina insinuante mantiene alta anche la quota rock (ed il pezzo è, manco a dirlo, gradevolissimo) https://www.youtube.com/watch?v=zWrc9qRxx4Y , mentre Waiting For The Tide To Turn è un’inattesa incursione di Ringo nel reggae, un genere da lui molto amato (almeno così dice), ma che finora non aveva mai sfiorato: eppure il brano è riuscito, solare ed il nostro riesce a risultare credibile anche senza dreadlocks  . Chiude l’EP Not Enough Love In The World, scritta da Lukather insieme all’altro Toto Joseph Williams su misura per Ringo, in quanto si tratta di una deliziosa pop song dal ritmo guizzante ed un sapore decisamente beatlesiano https://www.youtube.com/watch?v=RJINbNKsAtc . Zoom In ci mostra quindi un Ringo Starr come di consueto fresco e piacevole ma, a differenza del solito, senza cali di qualità.

Marco Verdi

E Finalmente E’ Arrivato Il Dessert! Blue Oyster Cult – The Symbol Remains

blue oyster cult the symbol remains

Blue Oyster Cult – The Symbol Remains – Frontiers CD

I Blue Oyster Cult, band americana da sempre tra i gruppi di punta dell’età d’oro del “classic rock” anni 70, fino allo scorso anno erano fermi discograficamente al live del 2002 A Long Day’s Night, ma quest’anno hanno recuperato il tempo perduto con gli interessi. Infatti da gennaio in poi i BOC hanno ristampato per l’etichetta nostrana Frontiers i loro tre ultimi lavori di studio (Cult Classic del 1994, Heaven Forbid del 1998 e Curse Of The Hidden Mirror del 2001) e pubblicato ben quattro live album inediti, il tutto per preparare i fans al piatto forte di questa sorta di menu degustazione che era il tanto atteso nuovo album di inediti, il primo in 19 anni. Fino a qualche anno fa sembrava che ad Eric Bloom e Donald “Buck Dharma” Roeser, cioè gli unici due membri fondatori ancora nel gruppo, non interessasse affatto scrivere ed incidere nuovo materiale, ma negli ultimi tempi i due hanno cambiato opinione decidendo di regalare ai loro estimatori almeno un’ultima testimonianza in studio e hanno cominciato con molta calma (pare nel 2017) a lavorarci.

Il risultato è ora nelle nostre mani, un disco nuovo di zecca intitolato The Symbol Remains (sulla cui copertina campeggia il loro ben noto logo, trasformato in una sorta di devastante “wrecking ball”), un riuscito album che mischia come d’abitudine dei nostri hard rock di elevata potenza a brani più moderati ed orecchiabili e che si rivela come il loro lavoro migliore da molto tempo a questa parte (NDM: penso che ora che è uscito il nuovo CD la prevista ristampa di A Long Day’s Night e l’ennesimo live inedito registrato in Germania nel 2016 slittino a data da destinarsi). Bloom e Roeser sono accompagnati dal chitarrista Richie Castellano, da diversi anni nella band ma all’esordio su un disco in studio, dal bassista Danny Miranda (già coi BOC dal 1995 al 2004 e poi di nuovo dal 2017) e dal batterista Jules Radino, nel gruppo dal 2004. The Symbol Remains è un disco di puro rock fatto alla maniera classica, un lavoro decisamente energico e con le ballate ridotte al minimo, 14 canzoni forse non tutte allo stesso livello e che forse non riprendono la magia delle incisioni dei primi quattro album dei nostri, ma che, Imaginos a parte che era un mezzo capolavoro fuori tempo massimo, vanno a formare il loro album più riuscito almeno da Fire Of Unknown Origin.

E questo nonostante il fatto che The Symbol Remains sia un disco “democratico”, dove cioè per quanto riguarda la composizione Roeser e Bloom lasciano spesso spazio a Castellano (che scrive ben quattro pezzi da solo) e perfino a Tadino, mentre i testi sono in buona percentuale opera dello scrittore sci-fi John Shirley, collaboratore della band da diversi anni; tra i tanti musicisti ospiti del CD c’è anche il loro ex compagno Albert Bouchard, che in That Was Me suona la “mitica” cowbell (se volete sapere perché mitica andate su Google e cercate “Blue Oyster Cult – more cowbell – Saturday Night Live). E proprio con That Was Me inizia l’album, una hard rock song potente e dal riff martellante, un avvio molto energico quasi alla Alice Cooper che ci mostra in maniera prepotente che i nostri non sono dei vecchietti che cercano di rimpolpare la pensione. La tipica voce melodiosa di Roeser (che per tutto il disco si alterna con quella più grintosa di Bloom, e pure Castellano ci fa ascoltare il suono della sua ugola) introduce Box In My Head, sempre con ritmo e chitarre in primo piano ma un motivo più strutturato e fruibile, come è nello stile dei nostri dopotutto. Tainted Blood è una rock ballad un po’ AOR, ma con le chitarre al posto dei synth ed un ritornello corale che sembra preso da un disco dei Toto, il tutto piuttosto ben fatto: questi sono i BOC targati 2020, e tutto sommato visto certo ciarpame che c’è in giro stiamo parlando di musica rock eseguita con classe.

Nightmare Epiphany è saltellante e frenetica, meno incisiva dal punto di vista dello script ma che dal vivo farà la sua figura (e Roeser si dimostra un axeman coi fiocchi con un finale pirotecnico), Edge Of The World è una giusta mediazione tra rock duro e melodia, che è sempre stata la caratteristica del sound dei BOC ma qui sembrano crederci di più rispetto ad altre volte; The Machine è introdotta dallo squillo di un cellulare ma poi entra un riff chitarristico godurioso ed il pezzo si rivela una rock’n’roll song tra le più dirette del CD. Rock’n’roll che continua con la tosta e trascinante Train True (Lenny’s Song), tutta ritmo e chitarre (Buck Dharma è nel suo ambiente naturale), ed il tiro non si abbassa neppure con The Return Of St. Cecilia, che anzi ha un drumming ed una serie di riff quasi punk, stemperati solo dal refrain corale. Stand And Fight ha un intro di basso e chitarra pesantissimo, siamo quasi dalle parti dei Metallica, ma per fortuna la voce è diversa e quindi il brano prende una direzione differente pur confermandosi il più duro del disco; la morbida Florida Man, gradevole e dal sapore più pop (bello questo saltellare tra uno stile e l’altro con disinvoltura) precede la lunga The Alchemist, indicato come uno dei pezzi centrali del progetto, una canzone epica con un testo preso in parte da un’opera di H.P. Lovecraft e che per struttura ed andatura melodica ricorda (volutamente?) la mitica Astronomy, pur non arrivando certo a quel livello (però sentite come arrota Roeser). La ritmata e piacevole Secret Road è una boccata d’aria fresca e prelude alle conclusive There’s A Crime, riffatissima ma non imperdibile, ed all’elegante Fight, ancora leggermente AOR ma di quello giusto.

Non so se nel calendario cinese il 2020 sia “l’anno dell’ostrica”, di sicuro lo è in quello del classic rock d’annata, con ottobre come mese più importante.

Marco Verdi

Usciamo Un Po’ Dal Seminato, Con Una Tripla Dose Di AOR! Journey, Toto E Foreigner.

journey live in japan 2017

Journey – Live In Japan 2017: Escape + Frontiers – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Toto – 40 Tours Around The Sun – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Foreigner – Live At The Rainbow ’78 – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – CD/DVD – CD/BluRay

Prima di cominciare vorrei ringraziare Bruno che ogni tanto mi permette di “svicolare” dagli argomenti trattati abitualmente sul blog per parlare di artisti che rientrano nella categoria “piaceri proibiti” (ogni tanto non significa che a volte pone il veto, ma sono io che cerco di non approfittare del suo buon cuore). Un genere musicale che non disdegno, anche perché quando è fatto bene a mio parere è tutt’altro che disprezzabile, è l’AOR, acronimo di “Adult Oriented Rock”, una definizione perlopiù giornalistica tesa a categorizzare un tipo di musica alla quale negli anni settanta non si riusciva a dare una collocazione precisa, un rock di forte appeal radiofonico caratterizzato da melodie ad ampio respiro, sonorità levigate ed eleganti e con le tastiere ad avere quasi la stessa importanza delle chitarre, un genere più adatto forse ad ascoltatori over 30. Negli anni parecchi gruppi e solisti sono stati associati all’AOR, a volte anche per un solo disco (penso ai Deep Purple di Slaves & Masters), a volte per una fase “commerciale” della carriera (come band dalle origini prog come Kansas, Rush e Styx), ma la cosiddetta “sacra triade” è formata indubbiamente da Journey, Toto e Foreigner (ci sarebbero anche i Boston, che però sono più una creatura di laboratorio di Tom Scholz). Ebbene, sembra che i tre gruppi si siano dati appuntamento, in quanto nel giro di un mese circa ognuno di essi ha pubblicato un disco dal vivo (quello dei Foreigner è però d’archivio), tutti usciti per la Eagle Rock nel solito insieme di combinazioni audio e video. Bando alle ciance dunque, e vediamo in breve (spero) di cosa si tratta.

Journey. Per molti il gruppo cardine del genere AOR, soprattutto da dopo la metamorfosi avvenuta in seguito all’ingresso del cantante Steve Perry (che, piacesse o meno il tipo di musica proposta, all’epoca Steve era una delle più belle voci d’America): Escape e Frontiers sono considerati dai fans la Bibbia dell’AOR, ed oggi quei due album vengono riproposti integralmente in questo Live In Japan 2017, registrato nello storico Budokan di Tokyo. I Journey sono per quattro quinti nella formazione che aveva inciso quei due album nel 1981 e 1983 (Neal Schon alla chitarra solista, Jonathan Cain alle tastiere, Ross Valory al basso e Steve Smith alla batteria): il problema è il cantante, che non è più Perry da anni ma un suo clone, tale Arnel Pineda, un filippino che militava in una cover band asiatica proprio del gruppo di San Francisco, e scritturato da Schon dopo aver visionato dei filmati su YouTube. Però se lasciamo perdere per un attimo l’effetto karaoke questo doppio ha il suo perché, in quanto è inciso benissimo e suonato anche meglio, con una potenza quasi da gruppo hard rock; e poi i Journey hanno a mio parere un repertorio superiore a quello delle due altre band di cui mi occupo in questo post. Il primo CD è occupato quindi da Escape, di gran lunga il miglior disco dei nostri a cominciare dal brano di apertura, la splendida Don’t Stop Believin’, una grande canzone da qualunque punto la si guardi (l’ultima volta che ho controllato deteneva anche il record di brano più scaricato di tutti i tempi).

Dopo un avvio così il concerto è in discesa, ma non mancano altri classici del gruppo come Stone In Love, altro pezzo di grande impatto, Who’s Crying Now, Open Arms e Mother, Father (Escape era un disco che somigliava molto ad un Greatest Hits). E la band suona che è una bellezza, dando risalto anche a brani come la toccante ballata Still They Ride, la potente Lay It Down o il rock’n’roll sotto steroidi di Dead Or Alive. Frontiers non era bello come Escape, ma un album comunque molto compatto al quale mancava però una hit che spaccasse come Don’t Stop Believin’: in questa rilettura live non mancano in ogni caso momenti di rock sontuoso come Separate Ways, Faithfully, Send Her My Love ed Edge Of The Blade. Come bis abbiamo La Raza Del Sol (un lato B dell’epoca di Frontiers), tramutata in una lunga jam di stampo progressive, e la quasi bluesata (peccato per quel synth) Lovin’, Touchin’, Squeezin’: sorprendentemente assenti due classici “da fine concerto” come Wheel In The Sky e Anyway You Want It.

toto 40 tours around the sun

Toto. Lo scorso anno la band di Los Angeles ha celebrato i quarant’anni di carriera con un’antologia ed un lungo tour, dal quale è stato tratto questo 40 Tours Around The Sun, registrato nel Marzo del 2018 allo Ziggo Dome di Amsterdam dalla formazione attuale del gruppo che comprende i membri fondatori Steve Lukather, David Paich e Steve Porcaro ed il cantante Joseph Williams (già con i Toto negli anni ottanta, anche se per molti fans la voce della band rimane Bobby Kimball). La scaletta non è scontata, in quanto a fianco delle prevedibili hits del gruppo (Hold The Line, Rosanna, la sempre coinvolgente Africa, Stop Loving You e Georgy Porgy entrambe acustiche, anche se manca stranamente I Won’t Hold You Back) ci sono parecchie scelte a sorpresa, i cosiddetti “deep cuts”, tra i quali segnalerei la roccata Lovers In The Night, dal ritornello orecchiabile, la bella ed intensa I Will Remember, con un bell’assolo di Lukather (che, va detto, è un chitarrista formidabile), la trascinante English Eyes ed anche una ripresa del Desert Theme dalla colonna sonora di Dune.

Non ci sono pezzi dalla loro ultima fatica di studio, Toto XIV (2015), ma sono presenti due dei tre brani nuovi del Best Of dello scorso anno, la vigorosa e ritmata Alone, che apre il concerto (tastiere un po’ troppo invadenti però) e la gradevole Spanish Sea, rock ballad fruibile ma non banale. Qualcosa avrei evitato, tipo le due cover (Human Nature di Michael Jackson, che però è stata scritta da Steve Porcaro, ed il classico di George Harrison – e dei BeatlesWhile My Guitar Gently Weeps, proposto da Lukather e soci in una versione raffinata ma con poca anima), ma direi che tutto sommato l’ascolto del doppio CD si rivela piacevole nonostante qualche pomposità qua e là.

foreigner live at the rainbow 78

Foreigner. Live At The Rainbow ’78 è la prima pubblicazione ufficiale di questo famoso concerto tenuto dalla band anglo-americana nel noto teatro londinese. All’epoca i nostri non avevano ancora raggiunto la popolarità che arriverà negli anni ottanta, in quanto avevano dato alle stampe un solo album, l’omonimo Foreigner di un anno prima, mentre il successivo Double Vision vedrà la luce dopo pochi mesi da questa serata. Dodici canzoni, tutto il primo album più una doppia anteprima dal secondo (i singoli Hot Blooded e la title track), per un concerto molto rock e poco AOR, dominato dalla chitarra di Mick Jones e dalla voce potente di Lou Gramm. Un gruppo quindi ancora abbastanza distante dalle sonorità patinate di canzoni future come I Want To Know What Love Is e Waiting For A Girl Like You (a parte la gradevole Fool For You Anyway, ballata che mostra i germogli dello stile più pop degli anni a venire). Basti sentire l’iniziale ed aggressiva Long, Long Way From Home o la riffata I Need You, che presenta elementi blues ed un ottimo assolo di Jones, le accattivanti Double Vision e Feels Like The First Time, o cavalcate rock come l’elaborata Starrider e la conclusiva Headknocker, dodici minuti ciascuna.

Quindi se anche a qualcuno di voi non dispiace il genere, accomodatevi pure: se dovessi fare una scelta, io privilegerei il live dei Journey, nonostante il discutibile cantante.

Marco Verdi