Come Un Fulmine A Ciel Sereno! Ben Bedford – The Pilot And The Flying Machine

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Ben Bedford – The Pilot And The Flying Machine – Waterbug Records/CSC Continental Song City/Ird CD

Questo disco in realtà è uscito nella tarda primavera dello scorso anno ma, un po’ perché non ne ha parlato quasi nessuno (almeno dalle nostre parti), un po’ perché da noi è stato distribuito lo scorso autunno, non credo sia troppo tardi se me ne occupo adesso…soprattutto perché è un album che merita davvero! Anzi, già dopo un ascolto il CD ha scatenato in me quello che chiamo “l’effetto Garnet Rogers” (vado a spiegare per chi non ne ha mai sentito parlare, cioè tutti: anni fa avevo comprato All That Is, antologia del cantautore canadese in questione, di cui colpevolmente non avevo mai sentito parlare, e l’ascolto mi aveva entusiasmato a tal punto che avevo subito ordinato sul suo sito la discografia integrale). Per Ben Bedford, cantautore dell’Illinois, mi è capitata quasi la stessa cosa: una volta ultimato l’ascolto di The Pilot And The Flying Machine, mi è venuta la voglia di approfondire il discorso con i suoi primi tre album. Bedford è un songwriter molto classico, dalla marcata vena poetica e con un gusto innato per la melodia, con le influenze giuste (Townes Van Zandt su tutte, ma io direi anche Jackson Browne, anche per il timbro di voce simile, e Gordon Lightfoot, mentre non ho trovato tracce dei pianisti Vladimir Horowitz e Thelonious Monk citati sul suo sito) ed un feeling non comune.

Ma ciò che colpisce di più in questo CD è che Ben non ha scelto la via più facile, cioè accompagnare le sue composizioni con una band canonica e dando loro un sapore roots (soluzione che sarebbe comunque stata ben accetta), bensì le ha avvolte con arrangiamenti classicheggianti, quasi cameristici. Non spaventatevi, in quanto la scelta si è rivelata vincente, e le canzoni, già belle di loro, hanno assunto uno spessore ed un’intensità ancora maggiore, per di più senza rischiare di annoiare l’ascoltatore. Merito, oltre che dell’abilità notevole del nostro come autore e performer, anche del ristretto gruppo di musicisti che lo ha accompagnato: oltre a Ben stesso alla chitarra acustica, troviamo la moglie Kari Bedford alle armonie vocali, Ethan Jodziewicz al contrabbasso e soprattutto il bravissimo Diederik Van Wassenaer, che non è il discendente di qualche gerarca nazista ma un formidabile violinista (e violista, nel senso che suona anche la viola) dall’impostazione classica, il vero tocco in più strumentale delle undici canzoni del disco. Un disco, ripeto, sorprendente, anche se siamo lontanissimi da atmosfere di stampo rock, al massimo io avrei aggiunto un pianoforte ogni tanto.

A me è bastato sentire poche note della title track, posta all’inizio del lavoro, per entrare subito dentro all’album, un suggestivo mix sonoro tra arpeggio chitarristico e lo strepitoso violino di Van Wassenaer, con qualche tocco di basso ogni tanto ed una melodia purissima e toccante, di chiaro stampo cantautorale. Letters From The Earth è semplicemente splendida, e bisogna fare tanto di cappello per il geniale arrangiamento cameristico scelto, dato che sarebbe stato più facile ma anche più scontato utilizzare basso elettrico e batteria: il violino sopperisce alla mancanza di una strumentazione “rock” con una prestazione straordinaria. High And Low è solo voce e chitarra, ma non per questo è meno intensa: Bedford riesce a tenere desta l’attenzione, scrive melodie di grande impatto e le esegue con disarmante semplicità; e che dire della struggente The Fox? Un motivo puro e limpido, di derivazione folk, alla quale la viola dona un sapore antico, per un risultato finale da pelle d’oca. La lunga e distesa The Voyage Of John And Emma sembra provenire direttamente dal songbook degli anni settanta di qualche songwriter blasonato, così come Blood On Missouri (bellissima), che proietta l’album addirittura una decade prima, in pieno folk revival. Grandissima musica in ogni caso. Orrery è un intenso strumentale tra folk e musica classica, gradevole e per nulla ostico, e precede gli ultimi quattro pezzi (tra cui una ripresa leggermente diversa della title track), il migliore dei quali è senz’altro la profonda ed avvolgente Long Blue Hills, che chiude il CD in purezza.

Ben Bedford è uno davvero bravo, e questo disco, se mi crederete, potrà farvi compagnia a lungo.

Marco Verdi

Un Altro “Piccolo” Grande Tributo, Made In Italy! Lowlands And Friends Play Townes Van Zandt’s Last Set

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Lowlands And Friends Play Townes Van Zandt’s Last Set – Route 61 Music

L’arte della cover (praticata soprattutto in alcuni EP) e quella del “tributo” non sono sicuramente sconosciute a Edward Abbiati, il leader dei Lowlands, che già nel 2012, in occasione del Record Store Day di quell’anno, aveva realizzato un album Better World Coming che voleva commemorare il 100° Anniversario della nascita di Woody Guthrie, pubblicato come “Lowlands and Friends” e che riuniva appunto molti amici dell’area di Pavia e dintorni http://discoclub.myblog.it/2012/06/24/proseguono-i-festeggiamenti-better-world-coming-lowlands-fri/ . Questa volta, dopo l’album solista pubblicato da Ed con Chris Cacavas, un paio di collaborazioni con Lucky Strikes e Plastic Pals, la lista dei musicisti impegnati nel nuovo album si è ampliata a raccogliere amici da tutto il mondo: alcuni dall’Italia, ma anche dall’Inghilterra, dalla Svezia, dagli Stati Uniti e dall’Australia. Il disco è stato registrato, con zero budget (come ricorda lo stesso Ed nelle note esaustive del libretto), in salotti, cucine, studi di registrazione e sale prova, con l’apporto gratuito degli “amici” impiegati nell’anno circa che ci è voluto per completare questo progetto.

E il risultato è veramente eccellente: l’idea di base del disco in questo caso non era quello di scegliere le migliori o le più belle canzoni di Townes Van Zandt, ma riproporre la scaletta completa dell’ultimo concerto dell’artista texano, tenuto al Borderline di Londra il 3 dicembre del 1996, poco più di un mese prima della sua morte, avvenuta il 1° gennaio del 1997, lo stesso giorno in cui scompariva, tanti anni prima, anche Hank Williams. A fare da trait d’union e “presentatore” delle singole canzoni la voce narrante di Barry Marshall-Everitt, il tour manager di Van Zandt, nonché all’epoca anche del locale, DJ radiofonico veterano a The House Of Mercy Radio e tra i primi supporters dei Lowlands in terra d’Albione. Detto per inciso, nella stessa data, venti anni dopo, una pattuglia più ristretta, ma agguerrita, di Lowlands & Friends, ha portato anche il progetto sul palco dello Spazio Teatro 89 di Milano (un bellissimo posto per sentire concerti, un po’ di pubblicità gratuita). Ma torniamo all’album e vediamo i vari brani e gli ospiti che si susseguono; trattandosi della riproposizione di un concerto ci sono anche alcuni brani che non portano la firma di Van Zandt: e l’apertura è proprio affidata a una cover di una canzone di Lightning Hopkins, un blues, e considerando che Edward non si ritiene un esperto in materia, ha chiamato per eseguire My Starter Won’t Start Maurizio “Gnola” Glielmo e la sua band, in più anche Kevin Russell dei Gourds (la band da un cui brano prende il nome la band i Pavia).

L’esecuzione è tosta e tirata, Russell canta la sua parte con una voce alla Muddy Waters, lo Gnola lavora con la chitarra di fino e il risultato finale è un solido blues elettrico, dove si apprezza anche l’armonica di Richard Hunter. Che rimane, insieme a Gnola, anche per la successiva Loretta, apparsa in origine pure nel mitico Live At The Old Quarter, e che grazie alla presenza di Stiv Cantarelli e della sua slide, si trasforma in un febbrile country-blues, tra battiti di mani e piedi e tanta energia profusa dai musicisti. Pancho And Lefty è il brano più noto di Townes (Emmylou Harris e Willie Nelson tra i tanti che l’hanno cantata) e forse anche il più bello, qui in una versione solare e corale, con Ed, Matthew Boulter dei Lucky Strikes e Sid Griffin dei Coal Porters (ma un tempo anche dei Long Riders) che si dividono le parti vocali e Michele Gazich che aggiunge il suo magico violino alle operazioni, versione splendida. A conferma che nel disco, ove possibile, si è privilegiato un approccio energico nella interpretazione delle canzoni, chi meglio degli italiani Cheap Wine poteva donare una patina rock alla versione di Dollar Bill Blues, dove le chitarre di Michele Diamantini e Roberto Diana sono veramente sferraglianti, e Ed Abbiati e Marco Diamantini si dividono la linea vocale. Anche Buckskin Stallion mantiene questa verve elettrica, con Antonio Gramentieri dei Sacri Cuori alla solista e Winston Watson e Joe Barreca, la sezione ritmica. Katie Bell Blues è più intima e raccolta, Richard Lindgren alla voce e upright piano e Francesco Bonfiglio alla fisarmonica.

Un gradito ritorno è quello di Will T Massey che duetta con Ed in una raccolta versione di Marie. E ottimo anche l’approccio full band per la splendida Waiting Around To Die (la preferita di Abbiati), con Chris Cacavas, seconda voce, piano e chitarra, di nuovo Gazich, anche i fiati, Villani e Paganin, ancora Gnola, Watson e Lowlands assortiti, compreso “Rigo” Righetti; A Song For con l’australiano Tim Rogers degli YOU AM I, privilegia un approccio più acustico, come pure la successiva Short Haired Woman Blues, l’altro blues di Lightning Hopkins, cantata in duetto con il gallese Ragsy, mentre la cover di Presley (?!) di Ballad Of The Three Shrimps, vede di nuovo lo Gnola, Mike “Slo Mo” Brenner alla lap steel e le voci femminili delle No Good Sisters. Brenner passa allo slide bass per una rauca versione di Sanitarium Blues “recitata” da Ed, Will T Massey, Tim Rogers e Rod Picott, che rimane poi per una eccellente versione di Tecumseh Valley (un altro dei tanti capolavori di Van Zandt), registrata in cucina e che si trasforma lentamente in una dolente Dead Flowers degli Stones, con lap steel e fisarmonica. La chiusura del disco è affidata a Colorado Girl, un altro dei pezzi country di Townes, che qui, grazie all’apporto degli svedesi Plastic Pals, diventa una gioiosa rock song chitarristica con Chris Cacavas all’organo e Jonathan Segel dei Camper Van Beethoven al violino, di nuovo una bellissima versione, come quelle presenti in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=iWG-hXvgmso . Veramente un tributo con i fiocchi.

Bruno Conti

Stanno Per Tornare, E In Buona Compagnia, Concerto A Milano il 3 Dicembre E Nuovo Album. Lowlands And Friends – Play Townes Van Zandt’s Last Set

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Il 3 dicembre del 1996 al Borderline di Londra si teneva quello che sarebbe stato l’ultimo concerto documentato di Townes Van Zandt. Il cantautore texano sarebbe scomparso, da lì a poco, il 1° gennaio del 1997, in quel di Nashville, per una aritmia cardiaca, scatenata dai postumi di una caduta casalinga avvenuta circa una decina di giorni di prima, non curata e causata a sua volta da anni di abusi di sostanze varie ed alcol, in quella che è stata una vita vissuta pericolosamente sempre ai limiti, e spesso oltre, da questo geniale artista che giustamente viene considerato uno degli artisti country più influenti tra coloro che si è soliti definire artisti di culto. Forse non a caso Van Zandt è morto lo stesso giorno, 44 anni dopo, in cui si spegneva la stella di Hank Williams, uno degli artisti da lui più ammirati. Per ricordare quell’evento particolare, parlo del concerto, Edward Abbiati, con i suoi Lowlands, stava lavorando da oltre anno ad un disco–tributo che indirettamente è anche un omaggio alla musica del musicista di Fort Worth, attraverso l’esatta riproposizione della scaletta di quel concerto particolare, quindi non attraverso la scelta dei brani più famosi o più amati di Townes Van Zandt, ma riproponendo pari quello che venne eseguito in quella fatidica serata del 3 dicembre di venti anni fa a Londra.

Essendo Ed quell’artista inventivo e portato alle collaborazioni che è sempre stato, per l’occasione (come era stato anni fa, 2012 per la precisione, per il disco dedicato a commemorare il centenario della nascita di Woody Guthrie, http://discoclub.myblog.it/2012/06/24/proseguono-i-festeggiamenti-better-world-coming-lowlands-fri/, in cui era stato affiancato da amici musicisti della zona pavese) ha scelto di invitare a suonare e cantare con lui questa volta una serie “importante” di amici da tutto il mondo con cui ha condiviso palcoscenici e dischi, fin dall’inizio della sua carriera; per cui in questo nuovo album, che uscirà ufficialmente il 9 dicembre per l’etichetta italiana Route 61 (ma sarà già disponibile anche nella serata di presentazione del disco proprio il prossimo 3 dicembre, allo Spazio Teatro 89 di Milano, come vedete dalla locandina ad inizio Post) troviamo musicisti che arrivano da Stati Uniti, Svezia, Inghilterra, Australia ed Italia. Posso anticiparvi che il disco è molto bello, ma comunque ho intenzione di tornarci con più calma al momento dell’uscita, con una recensione ad hoc, nel frattempo vi riporto la tracklist completa, con gli artisti ospiti, brano per brano:

1.       My Starter Won’t Start – Kevin Russell (Gourds) & the Gnola Blues Band

2.       Loretta – Stiv Cantarelli

3.       Pancho and Lefty  – Lucky Strikes, Michele Gazich & Sid Griffin

4.       Dollar Bill Blues – Cheap wine

5.       Buckskin Stallion – Antonio Gramentieri (Sacri Cuori) & Winston Watson

6.       Katie Belle Blue – Richard Lindgren

7.       Marie  – Will T Massey  

8.       Waiting Around To Die – Chris Cacavas, Antonio Rigo Righetti & Winston Watson

9.       A Song For –  Tim Rogers  (You Am I)

10.   Short Hair Woman Blues – Ragsy

11.   Ballad Of The Three Shrimps with No Good Sisters

12.   Sanitarium Blues  with Will T. Massey, Tim Rogers and Rod Picott

13.   Tecumseh Valley/Dead Flowers (Rolling Stones)  – Rod Picott

14.   Colorado – Plastic Pals, Chris Cacavas  & Jonathan Segel (Camper Van Beethoven)

All’inizio di ogni brano, per aumentarne l’autenticità con una breve presentazione, appare il DJ inglese Barry Marshall Everitt, all’epoca tour manager di Townes Van Zandt, nonché ex gestore del Borderline, il locale in cui si tenne il concerto originale, e anche uno dei primi a passare in radio in Inghilterra i brani dei Lowlands. il gruppo pavese si presenterà alla serata milanese nella classica formazione a cinque: oltre a Ed Abbiati, voce e chitarra, Francesco Bonfiglio, tastiere e fisa, Roberto Diana, chitarre varie, Mattia Martini alla batteria e Manuel Pili, l’ultimo bassista entrato nella line-up. Gli ospiti previsti per il concerto, salvo sorprese, sono Stiv Cantarelli,  Maurizio “Gnola” Glielmo, Chris Cacavas Hawk Soold e Anders Sahlin della band svedese dei Plastic Pals, oltre a Max Paganin alla tromba. Quindi direi di intervenire numerosi alla serata, nel corso della quale verranno eseguiti ovviamente anche molti brani dal repertorio del quintetto pavese: chi già li conosce sa cosa aspettarsi,  ma i brani tratti dal nuovo album saranno una felice sorpresa  anche per i fans più accaniti. Mi ripeto, non anticipo la recensione, ma il disco, sentito in anteprima, è molto valido, e, a differenza di quanto mi aspettavo, cioè un disco intimo e soffuso, molte delle canzoni presenti sono eseguite in versioni full band, grintose ed aggressive quando serve, tenere e ricercate all’occorrenza, tutte con il giusto spirito dell’autore (non solo canzoni di Van Zandt, anche brani blues e Dead Flowers degli Stones posta in coda a Tecumseh Valley). E come chicca la possibilità di ascoltare una rara apparizone su CD di un altro artista di culto come Will T Massey.

Questo brano, che ascoltate qui sopra, venne registrato da Townes Van Zandt il 5 dicembre del 1996 a Austin, Texas, una delle sue ultime registrazioni.

Mi raccomando fatevi un appunto per non mancare al concerto, così volendo potete anche comprarvi l’album in anteprima sull’uscita.

Bruno Conti

Tra Jazz E Musica D’Autore: Due Fulgidi Esempi! Madeleine Peyroux – Secular Hymns/John Scofield – Country For Old Men

madeleine peyroux secular hymns

Madeleine Peyroux – Secular Hymns – Impulse/Verve CD

John Scofield – Country For Old Men – Impulse/Verve CD

Oggi si parla di jazz, genere musicale che conta una lunga schiera di appassionati, ma anche parecchi che non lo possono soffrire, e quindi ho scelto due dischi non proprio di jazz purissimo, ma con caratteristiche tali da renderli fruibili per tutti.

Madeleine Peyroux, raffinata cantante americana di origini francesi, ha esordito esattamente vent’anni fa con il notevole Dreamland, anche se ha poi fatto passare ben otto anni per dargli un seguito, Careless Love, che è comunque diventato un grande successo (sei milioni di copie vendute), anche inatteso dato la natura poco commerciale della musica in esso contenuta. Da quel momento per Madeleine si sono cominciati a fare paragoni illustri, scomodando addirittura sua maestà Billie Holiday, e comunque lei non si è montata la testa ma ha continuato a fare la sua musica, senza inflazionare il mercato, centellinando la sua produzione, con esiti più che egregi e dischi molto belli che rispondono ai titoli di Half The Perfect World (splendido), Bare Bones, Standing On The Rooftop e The Blue Room. Il punto di forza della Peyroux è naturalmente la voce, che intelligentemente è sempre stata accompagnata da strumentazioni parche e suonate in punta di dita, facendo così risaltare il suo affascinante timbro e la sua forte capacità interpretativa: Madeleine scrive anche diverse canzoni, ma secondo me il meglio lo dà quando rilegge i classici (del genere jazz ma anche pop e rock), riuscendo a personalizzarli con la sua classe sopraffina. Secular Hymns, che inaugura il nuovo contratto con la Verve e giunge tra anni dopo The Blue Room, vede la cantante esibirsi solamente in qualità di interprete, e con una serie di arrangiamenti ridotti all’osso come mai aveva fatto prima d’ora, in modo da far brillare ancora di più la sua voce e la bellezza della canzoni. Infatti, accanto alla Peyroux stessa (che si accompagna alla chitarra acustica ed al guilele, penso una sorta di ibrido tra chitarra ed ukulele), in questo Secular Hymns suonano solo altri due musicisti, il chitarrista elettrico John Herington ed il bassista acustico Barak Mori (entrambi anche ai cori, e ho fatto anche la rima…), che ricamano con grande finezza attorno alla leader, con estrema creatività, riempiendo gli spazi nel migliore dei modi, specie Herington (già con gli Steely Dan e con il Donald Fagen solista), che si rivela in possesso di un fraseggio eccellente.

Madeleine in questo disco recupera canzoni recenti e passate, conosciute ed oscure, dandoci un lavoro di grande piacevolezza, senza annoiare mai , un album fatto per il puro piacere di suonare:  a partire dall’iniziale Got You On My Mind, un oscuro brano degli anni cinquanta, che comincia con solo basso e voce, poi entrano le chitarre (splendida per pulizia quella di Herington) e la nostra che ci dà subito un saggio della sua classe, con i tre che coniugano grande perizia tecnica ed immediatezza. Tango Till They’re Sore (di Tom Waits) è quasi cabarettistica, con un uso geniale degli strumenti e la Peyroux che giganteggia con la sua ugola strepitosa, mentre Highway Kind è un pezzo di Townes Van Zandt, e qui siamo abbastanza lontani dallo stile del grande texano, con la fusione di folk, jazz e canzone d’autore ed un’interpretazione da brividi per intensità; la mossa Everything I Do Gonna Be Funky, di Allen Toussaint, dona brio al disco, riuscendo a mantenere l’atmosfera di New Orleans anche in questa veste spoglia, mentre If The Sea Was Whiskey è uno scintillante blues di Willie Dixon, con John strepitoso alla slide (sembra Ry Cooder), e Madeleine che fa la sua bella figura anche come blues woman. Hard Times è la canzone più nota del lavoro, un’antica composizione di Stephen Foster ed uno dei classici assoluti del songbook americano, ma la nostra brava vocalist le dona nuova linfa, con un accompagnamento ancor di più ridotto ai minimi termini: classe pura; Hello Babe (altro brano abbastanza oscuro) è puro jazz, il pezzo fin qui più simili alle capostipiti del genere (non solo Holiday, ma anche Sarah Vaughn e Bessie Smith), con Madeleine che modula la voce a suo piacimento, altro pezzo sofisticato e sublime, mentre More Time  ha un’atmosfera quasi anni anni sessanta. L’album, 33 minuti di puro piacere, si chiude con la deliziosa Shout Sister Shout (di Sister Rosetta Tharpe), tra jazz e gospel, e con Trampin’, un traditional folk-blues che Madeleine ci presenta in perfetta solitudine, voce e chitarra, ennesima perla di un disco quasi perfetto.

john scofield country for old men

John Scofield, chitarrista dell’Ohio, è invece sulla braccia da quasi quarant’anni, ed è in possesso di un pedigree di tutto rispetto, avendo collaborato con gente del calibro di Miles Davis, Charles Mingus, Herbie Hancock e Pat Metheny, tra i tanti, e nel corso della sua carriera ha suonato di tutto, dal jazz puro, al free, al jazz-rock alla fusion, al blues, ma un disco country non lo aveva mai inciso. Intendiamoci, Country For Old Men è tale soprattutto nel titolo e nella scelta delle canzoni, veri e propri classici del genere (con qualche sorpresa), dato che John interpreta i vari brani nel suo ormai assodato stile, ed in compagnia di un ristretto manipolo di colleghi (Larry Goldings al piano ed organo, Steve Swallow al basso e Bill Stewart alla batteria): a differenza quindi del disco della Peyroux, questo Country For Old Men è più strumentato, maggiormente elettrico e più incline a lasciar spazio alle improvvisazioni, allungando spesso anche di molto le durate originali (cosa logica dal momento che non ci sono parti vocali, la vera voce è la chitarra di John, che ricama da par suo), ma ha in comune la classe e la capacità di intrattenere senza annoiare, anzi riuscendo a rendere piacevole un genere musicale che può spesso risultare ostico. A partire da Mr. Fool, un brano di George Jones, con John che mantiene intatta la melodia, ben doppiato da Goldings (vero alter ego del nostro in questo disco), e rendendola soffusa ma nello stesso tempo distesa e rilassata. I’m So Lonesome I Could Cry, grande classico di Hank Williams, è molto più jazzata e “free”, con il motivo originale che ogni tanto spunta, ma con John ed i suoi che fanno di tutto per creare diversi paesaggi sonori e portare il pezzo sulle loro abituali latitudini, mentre con Bartender’s Blues di James Taylor (che certo non era un brano country), John invade anche territori soul, grazie all’organo di Larry.

La classica Wildwood Flower è subito riconoscibile e godibile, anche se l’accompagnamento è decisamente jazz, ma i nostri non perdono mai di vista la melodia, mentre il traditional Wayfaring Stranger diventa un raffinatissimo brano tra afterhours e blues, suonato in punta di dita ed ancora con Goldings strepitoso. Il disco continua così, godibile e rilassante canzone dopo canzone, con alcuni pezzi vicini al mood originale (Jolene di Dolly Parton, anche se poi i quattro partono per la tangente per una bellissima jam di sette minuti e mezzo), altri dove si lascia più spazio all’improvvisazione (Mama Tried di Merle Haggard). Just A Girl I Used To Know, di Jack Clement, è suonata in maniera rigorosa ma splendida, mentre la nota Red River Valley ha un ritmo altissimo e quasi rock, per poi riabbassare i toni con la soffusa ballad You’re Still The One di Shania Twain, che dimostra  che il nostro non ha pregiudizi di sorta verso brani più commerciali.

Due CD davvero ottimi, anche se non amate alla follia il jazz: perfetti per allietare le vostre prossime serate autunnali.

Marco Verdi

Una Intrigante Ed Inconsueta Antologia Di Canzoni Da Funerale. Paul Kelly & Charlie Owen – Death’s Dateless Night

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Paul Kelly & Charlie Owen – Death’s Dateless Night – Cooking Vinyl

E’ indubbio che nell’attuale panorama musicale certi dischi nascono per delle coincidenze strane e questo di cui mi accingo a parlarvi, Death’s Dateless Night, rientra sicuramente in questa casistica. Paul Kelly (di cui abbiamo parlato ampiamente su queste pagine virtuali, l’ultima volta per il disco su Shakespeare http://discoclub.myblog.it/2016/04/30/memoria-william-shakespeare-succedeva-400-anni-fa-paul-kelly-seven-sonnets-song/ ), mentre si dirigeva ad un funerale in auto con un suo amico, appunto il polistrumentista e produttore australiano Charlie Owen, si sia chiesto (come molti di noi) quale canzone vorremmo che suonassero al nostro funerale (il sottoscritto per esempio si è già prenotato per Hallelujah di Leonard Cohen): come conseguenza, a questi due mancati rappresentanti delle pompe funebri, è venuta l’idea di registrare un album di tali canzoni, in parte rispolverate dal repertorio di Kelly, altre da brani tradizionali e piccoli “classici” australiani, e alcune cover d’autore (Cohen, Townes Van Zandt, Beatles, Hank Williams).

Detto fatto i due “compari” si sono messi al lavoro nella casa di Owen (un tipo che nella sua carriera ha fatto parte di gruppi dai nomi poco conosciuti, ma amati da chi segue il rock australiano, quali New Christs, Tex, Beasts Of Bourbon) e con Paul alle chitarre acustiche e Charlie che suona di tutto, dal dobro alla lap-steel, dal pianoforte al sintetizzatore, con l’aggiunta occasionale dei membri della famiglia Kelly, con alle parti vocali le figlie Maddy e Memphis, e la sorella Mary,  hanno registrato 12  canzoni affidatie alla  produzione di “padre” Greg Walker (Herbie Hancock, Kenny G. e altri). I “Salmi”, se così vogliamo chiamarli, iniziano in gloria con la pianistica e delicata Hard Times scritta da Stephen Foster, accompagnata da una seducente armonica, a cui fanno seguito una solare cover di To Live Is To Fly, pescata dal repertorio di Townes Van Zandt; ci fanno poi conoscere uno sconosciuto autore australiano come LJ Hill, con la tenue e dolcissima Pretty Bird Tree, rispolverano un vecchio pezzo tradizionale “ blues Make Me A Pallet On Your Floor, rivisitato in chiave “bluegrass” dove si nota la bravura di Owen, per poi recuperare da Wanted Man (94) di Paul Kelly, una nuova versione di Nukkunya con l’armonica in evidenza.

Dopo un attimo di “raccoglimento” si riparte con una vecchia canzone irlandese The Parting Glass (dei fratelli Clancy e Tommy Makem), cantata in modo meraviglioso da Paul “a cappella”, seguita da un’altra sua composizione Meet Me In The Middle Of The Air (questa era sul suo album “bluegrass” Foggy Highway (05), dove vengono riportate le parole del Salmo 23 (spesso recitate ai funerali), mentre la versione dello “standard” Don’t Fence Me In con l’apporto di Maddy Kelly e il coro di Memphis (con la lap-steel di Charlie), è dolce e gentile. Pochi accordi di chitarra e un pianoforte accompagnano e rendono omaggio a Leonard Cohen, con la sempre dolce melodia di Bird On A Wire, senza dubbio la versione migliore del lavoro, e ancora Good Things a ricordare un loro amico scomparso Maurice Frawley (suonava con Paul in uno dei suoi primi gruppi, i Dots), mentre il coro di Memphis e la figlia Maddy si uniscono a papà Paul e Charlie per una educata cover di Let It Be del duo di autori minori britannici tali Lennon-McCartney, e in chiusura di cerimonia viene rivisitata in forma acustica, solo chitarra (Charlie) e voce (Paul) la nota e triste Angel Of Death di un Hank Williams d’annata.

Con questo Death’s Dateless Night prosegue l’interesse di Kelly nel fare dischi a tema (all’inizio di quest’anno ha pubblicato, come ricordato, un EP dedicato ai sonetti di  William Shakespeare Seven Sonnets & A Song), e anche se il rischio che da questa unione con Owen potesse uscire un lavoro “deprimente” era alta, la scelta delle canzoni, scritte da artisti con cui Paul ha condiviso un percorso personale e musicale, si è dimostrata invece un punto di forza (nonostante la particolare tematica del disco), e il risultato finale è quello di un lavoro ben fatto, suonato e cantato bene, con una forte risonanza emotiva, per quanto minore e “carbonaro”.

Gira voce che i due “becchini”, entusiasti del risultato, stiano pensando di fare un sequel. Amen!

Tino Montanari

Se Ne Aggiunge Un Altro Alla Lunga Lista. E’ Scomparso Anche Guy Clark, Uno Dei Grandi Della Country Music, Aveva 74 Anni

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Nel mese di marzo, scrivendo un post per commemorare la scomparsa di Steve Young http://discoclub.myblog.it/2016/03/20/se-ne-andato-silenziosamente-era-vissuto/, avevo ricordato un “piccolo film” Heartworn Highways, da cui aveva preso il via la vicenda di molti dei protagonisti della country music dell’altro lato di Nashville, quello dei grandi autori di musica, dei folksingers e anche di alcune future stelle (come John Hiatt, Steve Earle Rodney Crowell). Ma in quella casa di Nashville, in cui si svolge parte della narrazione del documentario, due dei protagonisti principali erano i padroni di casa, Susanna Guy Clark. Il secondo uno delle grandi iconi della country music texana, ma Made in Nashville, dove ha vissuto negli ultimi 40 anni. Clark era malato di tumore da tempo, e non si era mai ripreso del tutto dalla morte della moglie, avvenuta sempre per un cancro nel 2012, e alla quale aveva dedicato nel 2013 il suo quattordicesimo ultimo splendido lavoro My Favourite Picture Of You, vincitore del Grammy l’anno successivo come miglior album folk. Ma partiamo proprio da quel mitico documentario…

Dei musicisti presenti in quel film non ci sono più Townes Van Zandt, Steve Young, Larry Jon Wilson e ora anche Guy Clark, ma loro importanza riverbera ancora oggi in quella che viene chiamata roots music, “Americana”, o più semplicemente country music. Clark è stato un autore, all’inizio per Jeffy Jeff Walker che registrò due delle sue canzoni più belle L.A. Freeway, sulla sua sfortunata avventura californiana e Desperados Waiting for a Train, uno dei capolavori assoluti del genere, entrambe presenti nel suo disco d’esordio Old No. 1, che comprendeva anche She Ain’t Going Nowhere That Old Time Feeling. C’è gente che ammazzerebbe per averne una di quel livello in un album e lui ne aveva inserite quattro e anche le altre sei non erano male, per usare un eufemismo https://www.youtube.com/playlist?list=PL8a8cutYP7foNfzsRn8piq4-PfElph3Cy. Ma Guy aveva continuato a produrre ottimi dischi, Texas Cookin’ nel 1976, a completamento della accoppiata per la RCA, e poi l’omonimo Guy Clark, The South Coast Of Texas Better Days, a completare, nel 1983, il terzetto pubblicato per la Warner.

Poi, dopo una pausa di cinque anni, tornerà nel 1988 con Old Friends pubblicato con la Sugar Hill, la prima svolta “indipendente” della sua carriera. Ancora un paio di album con una major, la Asylum, negli anni ’90, poi il ritorno alla Sugar Hill e infine gli ultimi album pubblicati per la Dualtone, tra cui il citato My Favourite Picture Of You, voce leggermente “spezzata” dall’età, ma ancora ricca di fascino e canzoni sempre dai testi affascinanti e letterari https://www.youtube.com/watch?v=USAlhxdqnMg . A Guy Clark è stato dedicato anche uno dei più bei tributi di sempre, sotto la forma del doppio This One’s For Him, di cui leggete qui http://discoclub.myblog.it/2011/12/16/u/. Il grande cantautore texano ha collaborato anche con molti colleghi nel corso degli anni, la sua ultima fatica, recentissima, è stata pubblicata nuovo disco degli Hard Working Americans Rest In Chaos, uscito in questi giorni, in cui il gruppo esegue The High Price of Inspiration, con Clark presente nella registrazione

Ricordiamolo con questa bellissima versione della sua canzone più bella Desperadoes Waiting For A Train, registrata per la trasmissione Austin City Limits nel 1990. La musica parla per lui. Riposa In Pace Guy!

Bruno Conti

Un Altro “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk” One-Man-Band? Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling

lincoln durham revelations of a mind

Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling – Droog Records

Come saprà chi legge le mie recensioni, chi scrive è un seguace dell’assunto di San Tommaso, ossia per credere devo vedere, o meglio ascoltare, anzi, io mi aggancerei addirittura al detto “provare per credere” della scuola filosofica Aiazzone/Guido Angeli. Quindi quando mi capita di leggere, in qualità anche di appassionato non onnisciente, di qualche nuovo nome, presentato come la salvezza del rock (o del blues, o di qualsivoglia genere musicale), ove possibile mi piace comunque verificare se questi incredibili giudizi, spesso estrapolati da cartelle stampa mirabolanti, o dai giudizi di qualche musicista amico, spesso citando fuori contesto qualche sua asserzione, sono rispondenti, almeno in parte alla verità. E sempre ricordando che, per fare un’altra citazione colta, “de gustibus non disputandum est”, ovvero ognuno nella musica ci sente quello che vuole. Per cui quando ho sentito parlare delle mirabolanti proprietà di Lincoln Durham, presentato come un “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk One-Man-Band”, secondo le sue parole, oppure in quelle di Ray Wylie Hubbard (che ha peraltro co-prodotto il suo primo EP e il secondo album) che lo presenta come un incrocio tra Son House e Townes Van Zandt, mentre altri, probabilmente credo senza averlo mai sentito, tirano in ballo Tom Waits, John Lee Hooker, Sleepy John Estes, Ray LaMontagne e Paul Rodgers; a questo punto potrei aggiungere Maradona, Frank Sinatra e anche un Robert Plant, che non ci sta mai male. Se citiamo anche il canto gregoriano e quello delle mondine, abbiamo forti probabilità di azzeccare lo stile esatto.

Mister Durham viene dal Texas, tra Whitney e Itasca, secondo la leggenda suona il violino dall’età di quattro anni (ma checché ne dicano altri recensori, nel disco nuovo, non ne ho trovato traccia, come neppure di mandolini e armonica, che però suona dal vivo), oltre che un one man band è anche un “self made man”, almeno a livello musicale, prima come adepto della chitarra elettrica e di Hendrix e Stevie Ray Vaughan, poi scoprendo il blues e il folk, ma di quelli molto “alternativi”, misti a rasoiate punk, ritmiche primitive, citazioni di vecchi autori, il tutto suonato su chitarre sgaruppate, le cosiddette cigar box, spesso in stile slide, con questo risultato, tra il southern primitivo e qualcosa di gotico, che potrebbe avvicinarlo, se dovessi proprio fare un nome, a Scott H. Biram, altro folle che cerca di demitizzare il blues, con iniezioni di hard-rock, punk, voci spesso distorte e ruvide http://discoclub.myblog.it/2014/03/03/tocchi-genio-follia-sonora-scott-h-biram-nothin-but-blood/ , come fa anche Lincoln Durham. Nel disco, rigorosamente senza basso (a parte un brano, il più lungo, Rage, Fire And Brimstone, che è un poderoso boogie-southern-blues, di stampo quasi “normale”, quasi) è presente comunque un batterista in tutti i brani, di solito Conrad Choucroun, con il bravo Bukka Allen che saltuariamente inserisce qualche botta di Moog.

Per il resto 10 brani in tutto, mezzora scarsa di musica, dove Durham ci rivela tutte le perversioni della sua mente, ma anche della sua musica. attraverso una serie di canzoni che attraversano tutti i gradi di un blues deragliante e spesso selvaggio: dal reiterato canto primevo di una Suffer My Name che il blues lo soffre come un uomo posseduto, a Bleed Until You Die, dove la voce qualche parentela vaga con i citati Rodgers e Plant potrebbe anche avercela, e pure la musica, molto più alternativa e senza vincoli sonori o di genere, pur se con una certa “elettricità” nelle evoluzioni minimali della chitarra e della voce, sempre ai limiti. Creeper, con la sua slide guizzante, anche per il titolo, potrebbe ricordare un altro bianco che il blues lo viveva, come Steve Marriott, senza dimenticarsi il boogie di Johnny Winter o di Thorogood; Bones, quasi meditativa, illustra il lato meno selvaggio e più “tranquillo” del nostro Lincoln, con comunque improvvisi squarci di rabbia sonora. Ma Durham tiene anche famiglia e ogni tanto la moglie (?) Alissa aggiunge le sue armonie vocali come nel violento punk-blues di Prophet Incarnate, o nel canto gotico-sudista della conclusiva Bide My Time. Altrove Rusty Knife è un blues di quelli secchi e serrati, con il moog di Allen che cerca di dare profondità sonora alla primitiva Cigar Box Guitar di Lincoln, la cui voce ogni tanto parte per la tangente, mentre i Gods Of Wood And Stone dell’omonima canzone non sono per nulla rassicuranti, tra giri di banjo e ululati alla luna, ancorati dallo stomping thump della batteria di Choucroun. Noose, l’unico episodio dove appare una chitarra acustica, potrebbe essere quell’anello mancante tra Tom Waits e Townes Van Zandt citato, con le sue oscure trame. Mi piace? Boh! Ve lo dirò se trovo il tempo di sentirlo ancora una ventina di volte, di sicuro non è brutto, ma strano sì.

Bruno Conti

Una Coppia Bene Assortita! Ian Siegal & Jimbo Mathus – Wayward Sons

ian siegal jimbo mathus - wayward sons

Ian Siegal & Jimbo Mathus – Wayward Sons – Nugene Records

La Nugene Records è una piccola etichetta che ha nel suo rispettabile roster di artisti alcuni nomi legati al blues contemporaneo, tra i più noti Matt Schofield, che nel frattempo è passato alla Provogue, Simon McBride e soprattutto Ian Siegal. L’artista britannico è un habitué delle collaborazioni: prima con gli Young Sons in The Skinny, un disco prodotto da Luther Dickinson, con la partecipazione di Alvin Youngblood Hart e alcuni componenti delle famiglie Kimbrough e Burnside, poi in Candy Store Kid si aggiungevano anche Cody Dickinson e Lightnin’ Malcolm, diventando i Mississippi Mudbloods http://discoclub.myblog.it/2012/11/13/un-inglese-alle-radici-del-blues-di-nuovo-ian-siegal-the-mis/ , infine nel 2014, per il live The Picnic Sessions, viene coinvolto anche Jimbo Mathus. Nel frattempo Siegal, che non è uno poco prolifico, anzi, ha pubblicato altri due album dal vivo, uno in solitaria Man & Guitar, l’altro One Night In Amsterdam, un live elettrico con band al seguito, veramente potente.

Chi vi scrive lo preferisce nella versione elettrica e tirata, ma devo ammettere che il nostro amico è bravo anche nel formato acustico. Se poi in duo, come nel caso di questo Wayward Sons, ancora meglio. Anche Jimbo Mathus non sta mai fermo, oltre alle saltuarie reunion con gli Squirrel Nut Zippers, la collaborazione con i musicisti prima citati, nella South Memphis String Band,  pubblica molti album solisti, sempre ricchi di ospiti e collaboratori, spesso più di uno all’anno, ma su invito dell’amico Siegal, si è recato, nell’autunno del 2014, nella piccola città olandese di Hoogland, al Café De Noot, per una serata particolare, tra folk, country e blues. Il risultato dei due “Figli Ribelli” è un album dove i brani di entrambi convivono con cover di Townes Van Zandt, molti pezzi tradizionali e qualche blues. Che è la musica principale adottata: ma ci sono anche echi dylaniani, come nella iniziale In The Garden, dove la chitarra di Siegal e il mandolino e l’armonica di Mathus (che nel disco suona anche kazoo e seconda chitarra) si amalgamo alla perfezione, e armonizza, con la sua voce più rauca e vissuta, quasi da country e folk singer, sfoggiata per l’occasione, da Siegal. I due ci regalano aneddoti e presentazioni, tra il colto ed il divertito, prima, dopo e durante, quasi ogni brano. Come nel caso dell’intro alla bellissima Heavenly Houseboat Blues del citato Van Zandt, che già era apparsa a sorpresa nelle Picnic Sessions.

Nel disco non mancano tratti gospel e da songwriters, e il tutto scorre piacevole e coinvolgente, come in una collaborazione tra spiriti affini: Jesse James ha naturalmente accenti country, mentre la classica Mary Don’t You Weep, è un gospel blues, dove di nuovo mandolino, armonica e le voci dei due scorrono piacevolmente. Anche Casey Jones è un brano che tutti conosciamo, è il treno sonoro è proprio quello di un viaggio, discorsivo e intenso come la canzone richiede e pure Crazy Old Soldier ha le stimmate della grande ballata d’autore, con la voce partecipe delle disavventure del protagonista. A tratti si va nel folk puro, ma sempre ricco di tratti blues, come in Old Earl, per poi sfociare nel blues arcano di Ludella, quando Ian Siegal sfodera la sua slide e la sua voce da consumato blues singer. Scorrono anche pezzi celeberrimi come Stack’o’lee, una corale, anche se sono solo in due, Goodnight Irene, l’antico blues di nuovo ricco di spiritualità ( e di slide) I’ll Fly Away e per concludere il tutto, una bella versione di Dirty Old Town, il brano di Ewan MacColl che è ormai diventato una standard della canzone popolare “moderna”. Per chi ama dischi raccolti, ma al tempo stesso espansivi e ricchi di quella difficile arte della collaborazione che solo gli artisti di valore sanno praticare.

Bruno Conti

Un Tedesco “Americano”. Markus Rill & The Troublemakers – Dream Anyway

markus rill dream anyway

Markus Rill & The Troublemakers – Dream Anyway – Blue Rose

Markus Rill è nato a Francoforte, Germania, nel 1970: non il primo posto dove uno può innamorarsi della musica “Americana”. Ma un viaggio di studio ad Austin, per completare gli studi, può sicuramente aiutare, anche a conoscere la musica di Guy Clark e Townes Van Zandt, che, uniti alla passione per l’immancabile Bob Dylan, forgiano i gusti del giovane Markus, che negli anni ’90 inizia a fare musica. E nel 1996 sarà l’opener del concerto di uno dei suoi idoli, Van Zandt, quando il texano passa dalla Germania per un concerto. Nel 1997 Rill pubblica a livello indipendente il suo primo album Gunslinger’s Tales, poi, nel corso degli anni, ne seguiranno parecchi altri, una decina in tutto, perlopiù su Blue Rose, di cui tre registrati a Nashville, con molti musicisti locali, e ristampati in un box quadruplo The Nashville Albums, che contiene anche un quarto album, dove molti colleghi di etichetta re-interpretano le sue canzoni in una sorta di omaggio.

Questo Dream Anyway è’ il secondo disco che registra con i Troublemakers, la sua band tedesca, e segue My Rocket Ship, che aveva avuto giudizi contrastanti, ancorché abbastanza positivi. Sin dalla foto di copertina, che lo vede di fronte ad un microfono vintage con ciuffo d’ordinanza, si capisce perché gente come Tom Waits e Bonnie Raitt ha espresso apprezzamento per il tuo lavoro, come pure Rosanne Cash, Gretchen Peters e Ray Wylie Hubbard, che, con ironia, si è spinto a dire, “se vi piacciono le boy bands probabilmente odierete Markus Rill”, che anche per chi scrive è un grandissimo complimento. I tredici brani del nuovo album hanno, a tratti, un’aria da heartland rock quasi alla Mellencamp o alla Springsteen vecchia scuola, per esempio la bellissima Something Great, che apre le operazioni con una verve ed una grinta che non sempre si riscontrano nei suoi dischi. Walk On Water, con i suoi intrecci di mandolini, bouzouki e chitarre acustiche, è un bel pezzo di folk-rock con una melodia ricorrente che ti rimane in testa, sicuramente aiutata dalla voce calda ed espressiva di Rill, che forse non è un grandissimo cantante, ma se la cava egregiamente, mentre The Pauper’s Daughter, con la voce di supporto della tastierista e suonatrice di fisarmonica Manuela Huber, è più intima e raccolta, ma sempre godibile nella sua semplicità. Caroline’s Confession, con banjo e fisa a fronteggiare le due chitarre elettriche ricorda la musica di certi cantautori irlandesi, ma di scuola americana, come Paul Brady o Luka Bloom, notevole il solo di chitarra di Marco Hohner nella lunga outro del brano.

Molto piacevole il country-folk della deliziosa Poor man’s set of wheels, che ricorda certe cose dei Lowlands dell’amico Ed Abbiati, tra America e Scozia come impronta sonora (qualcuno ha anche detto Waterboys?) In effetti anche Mike Scott potrebbe essere tra le influenze di questo musicista. Losing My Mind è la classica ballata da cantautore consumato, dolce ed avvolgente, grazie all’intreccio tra chitarre acustiche, elettriche e tastiere. Ovviamente avrete capito che il “country” di questo album è quello che arriva dall’Other Side Of Nashville, quello intriso di musica delle radici, che qualcuno chiama “americana” anche se non tutti apprezzano il termine. The Girls On The Polka Dot Dress con il suo riff alla Buddy Holly, torna a “roccare” decisa, con un bel drive di batteria e le armonie vocali di Manuela e Marco, che poi rilascia un breve assolo di slide. Over Long Ago, una storia di abuso sui bambini, si regge sul lavoro del piano, ben sostenuto da contrabbasso e batteria spazzolata, oltre ad una lap steel appena accennata, con Hands Of mercy, dalla costruzione sixties, grazie al jingle-jangle della chitarra, al suono dell’organo farfisa e alle delicate armonie vocali, ha un’aria più scanzonata. E Some Democracy è la folk song sugli inganni della “politica”, la canzone più impegnata del disco, anche se l’arrangiamento con banjo e armonica non ha forse la grinta che ci si aspetta, vagamente alla Cockburn, ma il canadese le fa molto meglio. Better, come dice il titolo, è decisamente meglio, un pezzo rock dall’appeal vagamente pettyano, con un bel apporto da parte delle chitarre elettriche, Roll Along ha un buon lavoro di Rill alla chitarra Resonator, ma non decolla, come altri brani dell’album, e questo è forse il difetto del disco, buono nell’insieme ma senza troppi picchi qualitativi, salvo, per esempio, proprio nella conclusiva Dream Anyway, di nuovo ricca di grinta rock’n’roll, con una bella armonica springsteeniana.

Bruno Conti

Continuano I Lutti In Questo 2016 Maledetto: Ora E’ La Volta Di Merle Haggard, Aveva 79 Anni!

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Sinceramente comincio ad essere un po’ stufo di scrivere necrologi,  non perché non voglia occuparmene, ma insomma i musicisti continuo a preferirli nettamente da vivi. *NDB Anche se è una occasione per parlare diffusamente di musicisti che meritano comunque di essere ricordati!

Oggi devo purtroppo ricordare Merle Ronald Haggard, scomparso ieri per complicazioni dovute ad una brutta polmonite (tra l’altro proprio nello stesso giorno in cui era nato, esattamente 79 anni fa):  uno per il quale il termine “leggenda” non è assolutamente esagerato, dato che nei suoi cinquant’anni di carriera ha collezionato una serie impressionante di successi, ha scritto diverse canzoni diventate poi degli standard della musica country e ha anche contribuito alla creazione di un suono. Oltre ad essersi fumato e “pippato” una quantità impressionante di sostanze non perfettamente legali (nonostante quello che diceva nelle sue canzoni)..

Nato a Bakersfield, California, Haggard ha avuto una gioventù parecchio problematica, un periodo nel quale entra ed esce con regolarità da riformatori e patrie galere (tra cui San Quintino), prima per piccoli furtarelli e poi per vere e proprie rapine a mano armata: nel suo caso si può quindi affermare a ragion veduta che la musica gli ha salvato la vita. Dopo qualche timido tentativo all’inizio degli anni sessanta, è dal 1965 che Merle inizia ad incidere singoli ed album con una certa regolarità, e non ci mette molto a diventare una delle figure di riferimento in ambito country, grazie ad un’abilità innata nel songwriting, un’ottima voce (anche se non eccelsa) ed al fatto che, insieme al compaesano Buck Owens, è uno dei creatori del cosiddetto “Bakersfield Sound”, che ai classici strumenti come steel e violino affiancava il suono delle chitarre elettriche suonate in modalità twang (cioè utilizzando le corde alte), con arrangiamenti diretti e che poco avevano da spartire con le sonorità di Nashville. Gli anni sessanta ed i primi anni settanta sono quelli ricchi di maggior successo per il nostro, con una lunga serie di canzoni andate al primo posto in classifica (a fine carriera i singoli al numero uno saranno addirittura una quarantina), brani epocali come Mama Tried (riproposta più volte dal vivo anche dai Grateful Dead), la splendida Sing Me Back Home, Hungry Eyes, The Legend Of Bonnie And Clyde, I Wonder If They Ever Think Of Me, If We Make It Through December, solo per citare le più note (ma anche gli album del periodo sono notevoli, specie Swinging Doors, Sing Me Back Home, Hag, It’s Not Love (But It’s Not Bad)).

Un caso a parte è rappresentato da Okie From Muskogee, un brano del 1969 (anch’esso un numero uno), in cui Merle, ormai identificato come la voce della working class e dell’americano medio, se la prende con gli hippies ed il loro modo di vivere e di concepire l’amore; un pezzo che gli attira addosso una lunga serie di critiche dall’intellighenzia di sinistra per le sue posizioni largamente conservatrici: non è mai stato molto chiaro se Merle ce l’avesse davvero con gli hippies o se la sua fosse una parodia del classico redneck reazionario (ma io propendo per la prima ipotesi), certo che il suo singolo successivo The Fightin’ Side Of Me, brano farcito di patriottismo e che deride le posizioni anti-guerra in Vietnam, non contribuisce a placare gli animi.

Dalla seconda metà degli anni settanta (durante i quali viene associato al movimento degli Outlaws, anche se non ne farà mai veramente parte) e per tutti gli anni ottanta, complici anche le mode che cambiano, i successi si diradano, anche se in maniera minore rispetto ad altri colleghi (come Johnny Cash): le belle canzoni non mancano di certo, come I Think I’ll Just Stay Here And Drink, Big City, e duetti fortunati come Yesterday’s Wine con George Jones e Pancho And Lefty con Willie Nelson (bello il video, al quale partecipa anche l’autore del brano, Townes Van Zandt), e proprio con Nelson incide negli eighties anche due album, Pancho And Lefty appunto (che vende moltissimo), e Seashores Of Old Mexico (che vende molto poco).

Gli anni novanta sono ancora più avari, solo tre album, che seppur buoni (specie 1994 e 1996, della serie la fantasia al potere…) vengono praticamente ignorati; fortunatamente nel nuovo secolo Merle ricomincia ad incidere dischi con più regolarità e con una qualità mediamente alta, con punte come If I Could Only Fly (2000), Roots, Volume 1 (2001), Haggard Like Never Before (2003) e I Am What I Am (2010), anche se i due successi più grandi li ha ancora con Wille Nelson, prima con l’album in trio assieme anche a Ray Price, Last Of The Breed (2007) e soprattutto con lo splendido Django And Jimmie dello scorso anno, che ci presenta due artisti in forma smagliante e con un’intesa incredibile, un disco che al momento dell’uscita mai avrei immaginato che sarebbe diventato il canto del cigno di Haggard (ed è stato anche il suo primo numero uno dopo una vita) http://discoclub.myblog.it/2015/07/07/due-vispi-giovanotti-willie-nelson-merle-haggard-django-and-jimmie/ .

Se ne va quindi una delle figure centrali della country music, che ha influenzato legioni di musicisti venuti dopo di lui, come Dwight Yoakam, George Strait, Alan Jackson, Brad Paisley e Jamey Johnson, e che ci lascia un songbook che pochi tra i suoi colleghi possono vantare. Ora me lo immagino già formare una superband con Cash, George Jones e Waylon Jennings, quasi una sorta di Highwaymen In Heaven.

E sono sicuro che il più rompiscatole dei quattro sarà proprio lui.

Marco Verdi

P.S: magari sarò smentito, ma sono praticamente certo che la morte di Haggard verrà praticamente ignorata dai media italiani, specie quelli televisivi, dato che la sua figura (ma tutto il country in generale) non è mai stata popolarissima nel nostro paese. Ma forse è meglio così, già tremo al pensiero di ciò che potrebbe dire di lui il mitico Mollicone (uno che ha riassunto la figura di Elvis Presley con “un simpatico mascalzone”).