Anche Per La ELO Sono 40 Anni…E Jeff Lynne Si Fa In Due!

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Jeff Lynne: Long Wave

Jeff Lynne/ELO: Mr. Blue Sky – The Very Best Of Electric Light Orchestra – Frontiers Records CD

Prima precisazione (lo so, non si comincia una recensione con una precisazione, ma il titolare di questo Blog mi ha concesso piena libertà…): sono sempre stato nel dubbio se dire “gli” ELO o “la” ELO, e alla fine ho optato per la seconda, in quanto Orchestra in greco (lingua dalla quale deriva) è una parola femminile (fine della lezione).

Seconda precisazione: gli anni sarebbero 41 (infatti il primo album, l’omonimo Electric Light OrchestraNo Answer in America – è del 1971), ma mi sembra che nell’ultimo periodo artisti e case discografiche con gli anniversari non vadano molto per il sottile.

Come avevo già accennato nella mia recensione dell’ultimo disco di Joe Walsh, Analog Man, ho sempre avuto una predilezione per Jeff Lynne, sicuramente poco condivisa tra i frequentatori abituali di questo Blog (ma chi non ha dei piaceri “proibiti”?): secondo me il fatto di essere stato per anni il leader della ELO, cioè uno dei gruppi di maggior successo commerciale degli anni settanta, gli ha inviso gran parte della critica musicale “colta”, che ha finito per sottovalutare la sua grande abilità come songwriter pop e, soprattutto, come arrangiatore e produttore (il Washington Post lo ha addirittura recentemente messo al quarto posto tra i produttori musicali più importanti di tutti i tempi, mica bruscolini…). Certo, alcuni arrangiamenti di celebri brani della ELO non erano proprio il massimo, ed il flirt con la musica disco (l’album Discovery) non è stata un gran scelta per Jeff (per l’immagine, il suo conto in banca è cresciuto eccome), ma, come ha dimostrato in seguito George Harrison “sdoganandolo” per fargli produrre il suo album Cloud 9, ci trovavamo di fronte ad un fior di musicista. Da quel momento, e per molti anni, Lynne diventò il produttore “da avere”, e fu chiamato da gente non proprio di seconda fascia, tra cui Tom Petty, Roy Orbison, Paul McCartney, Randy Newman, Brian Wilson (uno che non ha bisogno di produttori), i Beatles riuniti e molti altri, oltre a far parte con Harrison, Orbison, Petty e Bob Dylan di quel meraviglioso ensemble dopolavoristico che furono i Traveling Wilburys.

Come solista non ha mai prodotto molto: un album nel 1990 (Armchair Theatre), passato quasi inosservato, ed un disco nel 2001, Zoom, accreditato però alla ELO per motivi puramente di marketing (ma nel disco suonava solo Jeff). Ora, dopo aver scaldato le gomme producendo circa metà del disco di Joe Walsh, Lynne si rifà vivo con ben due progetti in una botta sola: il primo, Mr. Blue Sky, sembra apparentemente la centotreesima antologia della ELO, ma in realtà sono incisioni nuove di zecca fatte da Jeff in perfetta solitudine, suonando tutti gli strumenti, di dodici brani storici più un inedito, mentre il secondo, Long Wave (dalla bellissima copertina) è una serie di rivisitazioni fatte da Lynne di evergreen da lui ascoltati alla radio durante gli anni della giovinezza.

Diciamo una cosa, e cioè che anche il più fedele dei fans, dopo undici anni di silenzio assoluto, avrebbe potuto storcere la bocca vedendosi davanti due dischi con appena una canzone nuova (e l’album di cover che dura mezz’oretta scarsa), ma il buon Jeff ha subito pensato di stoppare le eventuali critiche annunciando di essere già a buon punto su un nuovo album di inediti, in uscita probabilmente già il prossimo anno.

Oggi vorrei parlare principalmente dell’album di covers, in quanto Mr. Blue Sky è una sorta di regalo ai fans della ELO, una serie di brani famosissimi reincisi in quanto, a detta di Jeff, gli originali lo avevano sempre lasciato non del tutto convinto. Ebbene, alcuni di questi brani suonano quasi come copie carbone degli originali, anche se si sente che il suono è notevolmente migliorato (Evil Woman, Mr. Blue Sky, Turn To Stone), mentre in altri si sente eccome il miglioramento, la voce è più centrale, i suoni più nitidi, gli arrangiamenti più asciutti e “rock”: fanno parte di questa seconda categoria brani come Do Ya (che vi piaccia o no, uno dei più bei riff di chitarra della storia), Livin’ Thing (ovvero le radici del Wilbury sound), la splendida ballata Can’t Get It Out Of My Head, l’errebi Showdown (che era uno dei brani preferiti in assoluto da John Lennon). Il meglio viene alla fine, con una versione tosta e vigorosa di 10538 Overture, che apriva in origine il primo disco della ELO (l’unico con Roy Wood in formazione), e la nuova Point Of No Return, un brano rock, decisamente caratterizzato dal tipico Lynne sound, con una melodia estremamente orecchiabile. Un bel disco, anche se fondamentalmente inutile, che delizierà i fans e lascierà indifferenti tutti gli altri.

Ed ora veniamo a Long Wave, che come ho già detto presenta una serie di brani che Jeff ha amato particolarmente durante la sua giovinezza, arrivando come limite temporale fino alla fine degli anni ’50 (ecco dunque spiegata l’assenza di canzoni dei Beatles, vera fonte d’ispirazione in seguito per Lynne): diciamo subito che, a paragone con i dischi analoghi di Rod Stewart e Glenn Frey (che facevano alquanto calare le palpebre, e anche qualcos’altro…), Jeff non ha ripreso alla lettera le sonorità originarie, ma ha intelligentemente usato arrangiamenti più personali e moderni, usufruendo dei suoi abituali trucchi di studio (riverberi, wall of sound di chitarre acustiche, batteria molto pestata, cori in stile Beach Boys); se vogliamo fare però una critica (oltre all’eccessiva brevità del CD), in alcuni casi le interpretazioni suonano un po’ troppo superficiali, quasi che Jeff avesse una sorta di timore referenziale nei confronti dell’originale. Un fatto che, comunque, non rovina la godibilità del dischetto al quale, ripeto, avrei piuttosto aggiunto almeno un altro quarto d’ora di musica.

L’apertura è ottima con la splendida She, un classico assoluto di Charles Aznavour, che Jeff ripropone arrangiandola come un brano ELO al 100% (senza diavolerie elettroniche però), elettrificandola e riuscendo nella non facile impresa di farla sua.

Anche If I Loved You (di Rodgers & Hammerstein, tratta dal musical Carousel) prosegue sulla stessa falsariga: voce in primo piano, suoni semplici (piano, chitarra e batteria), e brano che si ascolta con piacere. In So Sad degli Everly Brothers Jeff canta proprio come Phil e Don, cioè doppiando sé stesso, inventandosi un accompagnamento acustico che ricorda le cose dei Wilburys; Mercy Mercy, un successo di Don Covay, è invece un gustoso errebi dal sapore sixties, che Lynne personalizza con i suoi tipici riverberi. E’ anche il primo singolo, ed è accompagnato da un divertente video nel quale Jeff esegue il brano accompagnato da tre suoi cloni (un’idea già sperimentata da McCartney nel video di Coming Up). (*NDB. La facevano anche gli Stones).

Misurarsi con Roy Orbison è sempre un rischio, ma Running Scared rientra nelle corde di Jeff, e la cover si può dire riuscita, anche se Lynne soffre un po’ il confronto vocale con Roy (ma va?); Bewitched, Bothered And Bewildered (di Rodgers & Hart) è l’unica del disco ad essere un tantino soporifera, mentre la nota Smile di Charlie Chaplin è una gran bella canzone, e Jeff le trasmette un po’ di sapore pop-rock che non guasta. La notissima At Last esce bene dal Jeff Lynne treatment, non differisce molto dall’originale di Etta James (tranne che per la voce, ovvio) e si segnala come una delle più riuscite dell’album; avevo paura prima di ascoltare Love Is A Many Splendoured Thing, il superclassico tratto dall’omonimo film diretto da Henry King, ma Jeff mi ha stupito con un arrangiamento dei suoi, bella voce e performance fluida.

Un po’ di rock’n’roll ci voleva: Let It Rock (Chuck Berry, of course) viene eseguita in maniera trascinante, anche se finisce proprio sul più bello; l’album si chiude con la splendida Beyond The Sea (originariamente La Mer di Charles Trenet, ma diventata un successo internazionale in inglese per mano di Bobby Darin), rifatta da Jeff in maniera molto vigorosa.

(N.D.M: nella versione giapponese del CD, che è quella in mio possesso – anche perché l’uscita mondiale del disco è intorno al 10 Ottobre – si trova un brano in più, e cioè Jody di Del Shannon, in origine sul lato B del singolo Runaway e, in effetti, del valore di un lato B).

Quindi un uno-due gradito (almeno a me) da parte di Lynne, un antipasto nell’attesa dei suoi progetti futuri, sperando che non faccia passare altri undici anni.

Marco Verdi

P.s. *NDB A noi del Blog (e a me che lo faccio) invece Jeff Lynne (non sempre) ci piace e quindi questi dischi, che mi sembrano assai piacevoli, a maggior ragione incontreranno il (mio) nostro favore!

La (Seconda) Migliore Rock And Roll Band Al Mondo! Tom Petty And The Heartbreakers

NDB. Come avrebbero detto ai tempi d’oro di “Tutto Il Calcio Minuto Per Minuto”, la parola ad uno dei nostri radiocronisti, da Lucca, Marco Verdi!

Tom Petty And The Heartbreakers – Lucca, Piazza Napoleone – 29 Giugno 2012

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Eh già, “solo” la seconda, in quanto considero di poco superiori Bruce Springsteen & The E Street Band (con tante scuse ai Rolling Stones, ma il terzo posto è comunque un gran bel risultato), che forse non hanno al loro interno musicisti di grandissima tecnica (esclusi forse Lofgren, Bittan e Weinberg), ma hanno una maggior capacità di coinvolgere il pubblico, merito sicuramente del Boss, un animale da palcoscenico di quelli che ne nascono uno ogni cento anni.

E comunque ribadisco che ho sempre considerato Tom Petty & The Heartbreakers di poco inferiori, avendo avuto modo negli anni di vederli all’opera purtroppo solo in DVD, anche se ho ancora un vago ricordo dell’unica volta che suonarono in Italia, nel lontano 1987, come backing band di Bob Dylan: li vidi a Milano, all’Arena Civica (era il mio primo concerto in assoluto), e già allora mi lasciarono senza fiato anche se non conoscevo assolutamente il loro repertorio, mi piacquero quasi più di Dylan, all’epoca al minimo storico in termini di comunicativa col pubblico. Poi per anni, il buio: poche tournée in Europa (mi ricordo quella del 1992, avevo un bootleg inciso, male, a Basilea), ed il nostro paese regolarmente ignorato, anche se qualche anno fa sembrava che Tom dovesse fare una serata al Forum di Assago (ma poi non successe nulla). Quindi quest’anno, quando ho visto che Petty ed i suoi erano in cartellone al Lucca Summer Festival, non ci ho pensato neppure un minuto e mi sono accaparrato subito i biglietti (per me ed un altro mio amico “carbonaro”), anche se il capoluogo toscano non è proprio dietro l’angolo rispetto a dove abito (tre ore di macchina, ma mi sono preso mezza giornata di ferie, ed il fatto che il 29 Giugno sia un venerdì aiuta parecchio, in quanto mi posso fermare a dormire una notte sul posto). Tom Petty non posso proprio perdermelo, e quando lo ribecco!

Lucca è una bella cittadina, anche se ci sono altre città e borghi in Toscana che preferisco, ma Piazza Napoleone è di gran lunga la miglior location possibile: circondata da palazzi storici, in mezzo al verde, sembra proprio nata per farci degli spettacoli. Incontro altra gente delle mie parti che conosco (noi “carbonari” siamo sempre gli stessi), ed insieme andiamo a mangiare qualcosa per poi dirigerci ai cancelli, che apriranno alle 19.30: fa un caldo terrificante, ancora più che da noi al Nord, con l’aggravante di un’umidità spaventosa, che inciderà non poco sulla tenuta fisica del pubblico e della band stessa. Alle 20.30 sale sul palco Jonathan Wilson con la sua band, un giovane musicista della Carolina del Nord che propone un’interessante miscela di rock californiano in stile CSN&Y e di psichedelia alla Pink Floyd: circa tre quarti d’ora di musica, pochi brani e molto dilatati, di buona qualità, che il pubblico mostra di apprezzare non poco (la piazza è sufficientemente gremita direi).

Ma siamo tutti qui per Tom Petty, il quale sale sul palco, finalmente, solo verso le 22.00, dopo un interminabile instrument check da parte dei roadies: volto sorridente, barba lunga, vestito con un completo gessato (ma si libererà quasi subito della giacca), accompagnato come al solito dai fidi Mike Campbell (treccine lunghe e camicia rossa sgargiante), Benmont Tench, Ron Blair, il colossale Steve Ferrone e Scott Thurston. Tom imbraccia subito la sua Rickenbacker 12 corde (ma tra lui e Campbell cambieranno almeno 15 chitarre a testa nel corso della serata) ed attacca con Listen To Her Heart, uno dei brani più byrdsiani del primo periodo della sua carriera (era sul secondo album, You’re Gonna Get It!): il pubblico è subito caldo (in tutti i sensi) e gli Heartbreakers sembrano stupiti dell’accoglienza.

You Wreck Me è un rock’n’roll che il popolo di Lucca mostra di conoscere bene, una versione bella tirata con Campbell, che sarà il protagonista della serata, che comincia a fare i numeri. I Won’t Back Down è uno dei brani più belli e famosi tra quelli scritti con Jeff Lynne, ed il pubblico la canta parola per parola con Tom, rendendola quasi una celebrazione, come d’altronde la seguente Here Comes My Girl, un vero classico che viene accolto alla grande.Handle With Care è il brano più noto dei Traveling Wilburys, e Tom la ripropone spesso come omaggio all’amico George Harrison: Thurston canta come voce solista la parte che era di Roy Orbison e Campbell rilascia un delizioso assolo di slide. Petty ha già la serata in mano, e con Good Enough (il primo dei due brani tratti dal recente Mojo) iniziano le jam: Campbell si dimostra un mostro di tecnica e feeling, ma anche Tom inizia a far sentire la voce della sua solista (non la suona spessissimo, preferisce la ritmica, ma la stoffa ce l’ha eccome).

Oh Well è un brano dei Fleetwood Mac periodo Peter Green: Tom alla voce e maracas, mentre Mike è il vero protagonista del brano con una serie di assoli strepitosi. Il pubblico è in visibilio, anche se il caldo inizia a mietere le prime vittime (nel senso che si nota una certa staticità), ed anche i ragazzi sul palco hanno un po’ di fiatone. Something Big è un brano poco noto, ma bello, dall’arrangiamento quasi alla John Fogerty, uno swamp-rock molto elettrico e ritmato, mentre Don’t Come Around Here No More è come al solito quasi un pretesto per il finale pirotecnico, nel quale Campbell mette tutti al tappeto con la sua tecnica chitarristica da urlo.Free Fallin’ viene accolta da un boato, ed è un vero e proprio singalong collettivo; la lunga It’s Good To Be King (versione strepitosa di un brano che in studio sembra normale, ma stasera gli assoli di Mike e Tom la rendono monumentale) ed una cover diretta e molto rock’n’roll di Carol di Chuck Berry (nella quale il protagonista è Benmont Tench, pianista coi controfiocchi) ci portano al momento semiacustico del concerto: Learning To Fly è un altro capolavoro pettyano, e questo arrangiamento intimo (già ascoltato sulla Live Anthology) la nobilita, mentre la divertente Yer So Bad non la si sente spesso in un concerto di Tom. La breve ed elettrica I Should Have Known It porta allo strepitoso uno-due finale di Refugee e Runnin’ Down A Dream, due delle più grandi canzoni rock del nostro (specie la prima, un classico assoluto), nelle quali Tom e i suoi non fanno prigionieri, ridando vita anche alla parte di pubblico ammazzato dal caldo.

Una breve pausa, poi i bis: Mary Jane’s Last Dance è una grande canzone rock, e per me questa ascoltata stasera è la versione definitiva: splendida, tesa, chitarristica, con un finale stratosferico nel quale le twin guitars di Tom e Mike si incrociano in una serie di assoli pazzeschi. Alla fine tutti esausti, ma che versione!Il concerto termina del tutto con un brano nuovo presentato in anteprima, dal titolo Two Men Talking (un blues abbastanza canonico, sullo stile di certe cose di Mojo) ed il superclassico American Girl, breve come sempre ma decisamente intensa e piena di feeling.Ora è proprio finita, Tom e i suoi Spezzacuori salutano felici (Petty ha anche promesso che tornerà presto, vedremo…) e sfiancati dal gran caldo (Campbell sta letteralmente boccheggiando), lasciando un pubblico in visibilio. Anch’io fisicamente sono provato, ma sono conscio di avere assistito ad una grande serata di rock, per merito di un gruppo che non ha eguali sulla faccia della terra.Da ricordare questo 2012: Bruce Springsteen e Tom Petty nello stesso mese…e quando mi ricapita?

Marco Verdi

Viaggio Nelle Radici Della Musica. The Mystix – Mighty Tone

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The Mystix – Mighty Tone – Mystix Eyes Records 2012

Non sempre è facile accostarsi ai nomi minori, la tentazione ed il desiderio insieme è quello di voler scoprire a tutti i costi nuovi artisti, e sottoporli al pubblico degli appassionati per farne oggetto di “culto”, oltretutto la difficile reperibilità degli autori di volta in volta scoperti, aumenta la curiosità ed il gioco di complicità che ne scaturisce. Fatta dunque questa onesta precisazione, vi consiglio l’ascolto di tali The Mystix, attempati veterani della scena blues-rock di Boston,un “supergruppo” di  vecchi marpioni che hanno stile, classe, senso del ritmo e tecnica sopraffina, dovuta ad una lunga gavetta come sessionmen di lungo corso per tanti grossi calibri della scena cittadina e non solo.

Acclamati dal New England come miglior Band di  Boston, debuttano con Satisfy You (2006), e il loro secondo lavoro Blue Morning (2008) è un disco caldo, avvolgente, di grandissimo mestiere, con due cover di valore, I’m a Love You un blues di Jimmy Reed e una sorprendente Rattled dei mai dimenticati Traveling Wilburys, trasformata in un pregevole country-rock. Con Down To The Shore (2009), fanno un ulteriore salto di qualità con una dose massiccia di Chicago Blues, e una forte tradizione sudista. Compongono questa formazione di “turnisti”, Jo Lily ex frontman dei Duke and the Drivers, Bobby Keyes bravissimo chitarrista per Mary J.Blige e Jerry Lee Lewis, Marty Richards batterista con J.Geils Band, Gary Burton e Duke Robilard, il tastierista Tom West che accompagna Susan Tedeschi e Peter Wolf e Marty Ballou bassista con Edgar Winter e John Hammond, più altri musicisti dell’area Bostoniana.

Il risultato di Mighty Tone è tutto da sentire, canzoni senza fronzoli, partendo dall’iniziale Blues #4 pescata dal repertorio di Jimmie Rodgers tra gli inventori del country e dello yodel (infatti il brano in origine si chiamava Blue Yodel #4), eseguita con la voce al catrame di Jo Lily, e proseguendo con lo swamp-rock di Wish I Had Answered (firmata da Pop Staples). Mighty Love e Mean Woman Blues sono due torridi brani blues con armonica d’ordinanza. Il brano che dà il titolo alla raccolta Mighty Tone è uno spensierato honky-tonky, mentre il tradizionale Wave My Hand  è un blues da suonare in un locale di New Orleans, come la seguente Jelly Roll, dixie fino al midollo. Bobby Keyes è un chitarrista dal tocco brillantissimo, e lo dimostra ampiamente in Keep On Walkin’, mentre Just To Be With You è una ballata blues che sarebbe piaciuta al compianto Willy Deville. Non poteva mancare un tocco di Messico con I Believe I’ll Run On, mentre Time Brings About A Change è un boogie raffinato che avrebbe fatto la sua bella figura in Modern Times di Dylan (pur con tutti i distinguo e senza scandalizzarvi troppo). Chiude il disco un altro brano tradizionale Too Close, un “bluesaccio”  solo chitarra, armonica e la voce migliore che potessero desiderare di avere i Mystix.

E’ un peccato che questo gruppo di “malviventi” di talento non abbiano il riconoscimento dovuto, anche se è questo il sottile ed egoistico desiderio degli appassionati, ma poco male, Mighty Tone è un disco di blues bianco e non solo, di puro godimento, i compagni ideali per il vostro sabato sera, poi se decidessero di fare un salto dalle nostre parti (in un certo locale di Pavia), sarei ben contento di dividere con loro un buon Jack Daniel’s.

Tino Montanari

Una Misteriosa “Strana Coppia”! Fearing And White

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Fearing and White – Lowden Proud Records

 Se la geografia avesse una sua logica, Stephen Fearing e Andy White non avrebbero mai lontanamente pensato di riuscire a fare questo lavoro. Stephen, canadese di Vancouver, nato e cresciuto a Dublino attualmente residente ad Halifax  e Andy, cantautore e poeta nato a Belfast si è trasferito con moglie e figlio da qualche anno a Melbourne, e per chiudere il cerchio la loro casa discografica è di Alberta in Ontario. I due, entrambi acclamati musicisti nell’ambito di un genere che si può definire “folk – roots – blues”, si sono incontrati una decina di anni fa al Festival di Winnipeg, e da allora è sempre stata una loro aspirazione comporre brani insieme, e dopo vari incontri “semestrali” finalmente si sono trovati in uno studio di registrazione, dividendosi per benino i compiti suonando la chitarra Stephen , il basso Andy, e supportati alla batteria e percussioni dal bravo Ray Ferrugia ( componente dei Lee Harvey Osmond e “turnista” nei dischi della grande Mary Gauthier).

E’ possibile ascoltare un tocco dei fratelli Finn in queste composizioni che non è sorprendente, ma insieme Fearing & White hanno assemblato i loro rispettivi stili e influenze per creare un “sound” onesto rinfrescante e unico. La traccia di apertura del CD Say You Will , ha una atmosfera frivola stile TravelingWilburys che è immediatamente attraente, seguita da una canzone d’amore quale Let love be your direction eseguita alla grande dalla coppia. Si prosegue con il “groove” di Mothership, e da due ballate prettamente acustiche quali What we know now eYou can’t count on anybody any more.

 Con Under the Silver sky si cambia registro, quando il ritmo del brano si alza con la batteria che detta il tempo, per tornare alla ballata confidenziale Dream Maker una delle perle del CD, che si adatta perfettamente al tessuto sonoro del lavoro. Heaven for lonely man mette in risalto le armonie vocali del duo, mentre Faithful Heart cantata prevalentemente dalla voce sognante di Stephen rimanda ai ricordi più dolci dell’infanzia, e a quelli immancabili dell’amore.

October Lies disegna una perfetta giornata autunnale, Heart o’ the morning sembra uscita dai primi e migliori album di Andy White, e il disco si conclude con altre due ballate If I catch you crying e Rockwood dalle cadenze ammalianti. In conclusione un lavoro da centellinare, cercare (perché il CD è uscito solo In Canada e non si trova con facilità) e infine da gustare, ascolto dopo ascolto, scoprendo ognivolta nuove sensazioni, musica non noiosa, mai sopra le righe, in ogni caso significativa, in attesa del nuovo Blackie and The Rodeo Kings!

 Tino Montanari

 

Disco Misterioso? Roy Orbison – The Last Concert

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Roy Orbison – The Last Concert – December 4 1988 – Eagle/Edel

Mistero perché, si chiederà l’attento lettore?

Intanto per le misteriose vie della discografia, perché esce nel 22° anniversario dalla sua scomparsa? Mah!

Negli Stati Uniti era peraltro uscito lo scorso anno e solo per il dowload era disponibile dal 2008 ma di non facile reperibilità: tre uscite, tre incassi, foto di copertina leggermente diverse in ogni edizione e i fans comprano e scuciono.

Anche mettersi d’accordo su luogo dove si è tenuto il concerto? Il Cd dice Cincinnati, altri dicono Akron, Ohio, altri ancora, pare chi c’era afferma che la località fosse Highland Heights, Ohio in un teatro, non oso chiedere il nome per non avere altre sette versioni.

Il concerto è sicuramente di importanza storica in quanto Roy Orbison sarebbe morto solo due giorni dopo all’età di 52 anni. Quindi quelli che ne magnificano la voce (e hanno ragione) ma poi dicono “perfino nei suoi ultimi giorni”, dicono delle fregnacce visto che non era certo un anziano (Paul McCartney, Brian Wilson e perfino Mick Jagger per non parlare di Pinetop Perkins, 97 anni, cosa dovrebbero dire?).

Altro particolare negativo è il tipo di mixaggio, fatto da un rimbambito (soprattutto nei primi brani), con la voce delle coriste in primo piano che spesso copre quella di Orbison, la batteria e le tastiere invadenti. Capisco che questa registrazione non era destinata, probabilmente, ad essere pubblicata, ma si poteva fare meglio con la tecnologia disponibile.

Se dei suoi contemporanei Presley, Cash, Lewis e Perkins si è detto che erano il Million Dollar Quartet, lui, che pure incideva per la Sun records i suoi 250.000 dollari forse non li valeva? Certo che sì!

Una delle più straordinarie voci della storia del Rock’N’Roll, in possesso di una estensione di quattro ottave, ideale per le sue ballate strappalacrime ma in grado anche di cantare pezzi scatenati come pochi altri.

Ai tempi della sua morte stava vivendo una seconda giovinezza, dopo anni di tragedie, prima con i Traveling Wilburys (Dylan, Petty, Harrison e Lynne) e poi con l’album Mistery Girl che conteneva pezzi scritti in collaborazione con U2, Costello e Jeff Lynne che l’aveva fatto conoscere anche alle nuove generazioni.

Ma tutto era (ri)cominciato con quello straordinario concerto e DVD (e CD) chiamato A Black and White Night, dove alcuni dei massimi luminari della musica rock gli rendono omaggio con grande deferenza e partecipazione: ripresi appunto in bianco e nero, ci sono Jackson Browne, T-Bone Burnett, Elvis Costello, Kd Lang, Bonnie Raitt, Jd Souther, Bruce Springsteen, Tom Waits e Jennifer Warnes, disposti a suonare anche il campanello di casa pur di partecipare alla serata.

E questo, nel formato che preferite: CD, Dvd, Bluray, Vhs è il concerto da avere. Se volete una raccolta, la doppia Essential Roy Orbison della Bmg/sony potrebbe andare bene. Oppure se siete più “ricchi”, anche di spirito, il Box Quadruplo The Soul Of Rock and Roll della Legacy Sony con 107 brani non dovrebbe mancare in una discoteca che si rispetti. Questi 3 sono i dischi da 5 stellette, poi ci sono una miriade di altri a partire a ritroso da quelli citati.

E questo? Nella seconda parte, misteriosamente, la qualità sonora migliora nettamente e Roy Orbison sconfigge anche le invadenti coriste in una micidiale versione di Crying, con alcuni acuti incredibili che ne certificano la straordinaria potenza vocale. Ma anche le versioni di Ooby Dooby, il suo primo successo, un R&R reso con una grinta da giovinetto e il gruppo finalmente al suo servizio che gira a mille con chitarrista e pianista che si guadagnano lo stipendio ma anche il batterista. In precedenza in Mean Woman Blues dove il chitarrista rilascia un notevole assolo, sale e scende con la voce dal falsetto al suo famoso marchio di fabbrica, quel minaccioso “Rrrrrrrrrrrrr” che scatena le folle.

A proposito di folle, secondo me anche gli applausi sono fasulli, presi da un altro concerto ed aggiunti ad arte, suonano “strani”, da grande spazio e non da teatro, magari sbaglio. Blue Bayou sarebbe un grande brano, ma le coriste e il pianista, qui alle prese con una tastiera elettronica fanno del loro meglio per rovinarlo, come fanno nell’uno-due iniziale di Only The Lonely, Leah, dove sono veramente insopportabili anche per i problemi tecnici di cui sopra. Non male Candyman, con un’armonica pimpante suonata dallo stesso Orbison e molto buona la  conclusiva Oh, Pretty Woman dove il leggendario Rrrrrrrrrr si scatena di nuovo in tutta la sua potenza.

Ma la seconda parte è comunque tutta all’altezza dellìa sua fama: Go, Go, Go (Down The Line) è ancora dello scatenato Rock and Roll, It’s Over è un’altra della sua melodrammatiche ballate (che tanto hanno influenzato lo Springsteen degli esordi), anche se quella tastiera sarebbe da eliminare in una esplosione termonucleare insieme alla coriste, ma che voce ragazzi!

Ottime anche la breve Working The man e la deliziosa Lana. Secondo chi c’era inspiegabile l’assenza di Running Scared che chiudeva il concerto. Solo per fans e ammiratori (che è più o meno la stessa cosa). Allora diciamo, soprattutto per collezionisti instancabili.

Bruno Conti