Un Ritorno Inatteso Per Una Band Molto Amata, Ed In Ottima Forma: Un Altro Disco Che (Quasi) Non C’è, Solo Vinile E Download Dal 21 Maggio! Counting Crows – Butter Miracle Suite One EP.

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Counting Crows – Butter Miracle Suite One – BMG Rights Management EP Vinile e Download 21-05-2021

Gli anni 90 musicali non hanno fortunatamente prodotto solo grunge e brit-pop, ma anche una bella serie di gruppi che si rifacevano ad un cantautorato rock classico tipico dei seventies, e due tra i migliori esponenti in tal senso erano senza dubbio i Wallflowers ed i Counting Crows. Per un “simple twist of fate” le due band hanno deciso di tornare a pubblicare nuova musica proprio quest’anno, entrambe dopo una lunga assenza dalle scene: se il gruppo di Jakob Dylan ha annunciato di recente un nuovo lavoro in uscita a luglio (Exit Wounds) a ben nove anni da Glad All Over, il combo guidato da Adam Duritz ha deciso un po’ a sorpresa di rifarsi vivo con un EP di quattro canzoni intitolato Butter Miracle Suite One, che segue di sette anni Somewhere Under Wonderland. Sinceramente temevo che l’avventura dei Crows si potesse dichiarare conclusa, dal momento che in questi sette anni l’unico membro attivo musicalmente è stato il multistrumentista David Immergluck, perlopiù coinvolto in progetti per conto terzi (fra i quali vanno ricordate le collaborazioni con John Hiatt e James Maddock), mentre poco si sapeva del resto della combriccola (i chitarristi David Bryson e Dan Vickrey, il tastierista Charlie Gillingham e la sezione ritmica formata da Millard Powers e Jim Bogios).

Duritz sembrava più interessato a condurre il suo podcast radiofonico inaugurato nel 2018 che a comporre nuova musica, ma circa un paio d’anni fa era arrivato l’annuncio che il cantante di Berkeley aveva ripreso a scrivere per una serie di EP con canzoni dal carattere semi-autobiografico, ed ora abbiamo la possibilità di ascoltare il primo prodotto di questa sequenza: Butter Miracle Suite One. E’ chiaro che dopo sette anni di nulla il mio timore sulla forma di Duritz e compagni era più che legittimo, ma è bastato un solo ascolto per spazzare via ogni dubbio: Butter Miracle Suite One è un dischetto davvero bello e riuscito, che ci fa ritrovare un gruppo tra i più creativi delle ultime decadi, e con il suo carismatico leader che non ha perso l’ispirazione. E’ bello ascoltare nuovi pezzi in uno stile familiare, un misto di influenze che vanno da Van Morrison al Bruce Springsteen più classico, con la band che gira a mille: i Counting Crows non hanno mai sbagliato un disco, e anche se forse il successo clamoroso dei primi album e del singolo Mr. Jones non tornerà più, questo EP è un bel modo, anche se un tantino troppo breve (18 minuti totali) per tornare tra noi.

I quattro brani sono uniti come in un medley (da qui il Suite One del titolo), e partono con Tall Grass: una percussione elettronica dà il via, subito doppiata da una chitarra acustica e dalla voce discorsiva di Duritz, che inizialmente sembra che parli più che cantare: poi organo e chitarre elettriche cominciano a farsi largo e lo stesso leader intona una melodia ben definita con un buon pathos (ed anche la batteria entra in azione). Un brano che si apre a poco a poco in un crescendo tipico dei nostri, pur mantenendo un tono intimista di fondo. Elevator Boots è invece una rock ballad potente e decisamente immediata, con un motivo vincente che denota un’indubbia freschezza compositiva ed un bellissimo accompagnamento classico in cui chitarre e piano formano l’ossatura del suono: non a caso è stata scelta come singolo. Con Angel Of 14th il ritmo cresce e si fa molto più sostenuto, le chitarre si mantengono al centro del suono ma la linea melodica, grazie anche ai cori sullo sfondo e ad un notevole wall of sound, fa sì che il brano assuma toni pop-rock diretti e piacevoli (e con un insolito assolo di tromba a metà canzone). La conclusiva Bobby And The Rat Kings è splendida senza mezzi termini: il riff di chitarra doppiato dal pianoforte rimanda direttamente al suono della E Street Band, Duritz intona uno dei refrain in assoluto più coinvolgenti della storia del gruppo, e le similitudini con Springsteen continuano anche nello stile di scrittura. Una canzone magnifica (sentire per credere), che purtroppo interrompe il dischetto sul più bello.

Butter Miracle Suite One è quindi un ottimo lavoro che ci fa ritrovare una band in forma nonostante la lunga assenza: speriamo almeno che il secondo volume di questo EP, disponibile solo in vinile e download arrivi entro fine anno e diventi anche un album completo in tutti i formati.

Marco Verdi

Per Ora Solo Download E Streaming, Il CD Uscirà 14 Maggio! David Gray – Skellig

david gray skellig

David Gray – Skellig – Laugh A Minute Records

Nella seconda parte del 2020 appena concluso c’era stata una fioritura di uscite discografiche, materiale registrato durante la pandemia, sia nel corso dell’estate, come pure nei mesi precedenti, o addirittura appena prima della scoperta del Covid. E quindi le case discografiche si erano affrettate a pubblicarle, pur nella mancanza della possibilità di promuoverli con tour o apparizioni televisive. Questo in attesa che la situazione migliorasse: cosa che come stiamo vedendo non è ancora del tutto avvenuta. Per cui in questi primi mesi del 2021 dischi nuovi ne stanno uscendo abbastanza pochi, e parecchie di queste uscite avvengono prima soprattutto in download e streaming, con la pubblicazione delle versioni in CD e LP previste spesso per mesi dopo. Tra i tanti interessati da questa tendenza c’è anche David Gray, (artista inglese, diventato però quasi irlandese per adozione) che rilascia ora il nuovo Skellig per il dowload e streaming, mentre la versione in CD uscirà solo il 14 maggio: come vedete anche noi ci adattiamo a parlarne nel momento in cui vengono resi disponibili.

Gray ha ormai una discografia consistente, dieci album in studio: per il sottoscritto i migliori rimangono ancora i primi tre, A Century Ends, Flesh e Sell, Sell, Sell, anche se pure White Ladder, quello che ne ha decretato il successo globale, era un ottimo album. Poi nei successivi ha alternato lavori nei quali la componente folk, veniva arricchita, o depauperata, a seconda dei punti di vista, dall’utilizzo dell’elettronica, mai invadente, ma comunque presente. Il precedente Gold In A Brass Age era uno di questi, con Gray e il produttore Ben De Vries alle prese con tastiere e devices vari, che non hanno mai impedito di apprezzare la voce roca, vissuta, appassionata di David, cantautore inserito in quel filone della musica anglo-irlandese che discende da Van The Man, Nick Drake e altri musicisti di area folk e da alcuni cantautori americani, non derivativa (insomma, giusto un pochino) ma ispirata e correlata a queste coordinate sonore. Nel nuovo disco, l’undicesimo, il cui titolo Skellig viene da un piccolo scoglio vicino alle coste irlandesi, Gray è accompagnato da una pattuglia di musicisti irlandesi, Mossy Nolan, il collega David Kitt, Niamh Farrell and Robbie Malone, a piano, chitarre, basso, batteria, tastiere e voci sovrapposte, più la cellista classica britannica Caroline Dale.

Un disco tranquillo e sereno, dove certa rabbia e impeto di precedenti prove di Gray viene accantonato a favore di un approccio a tratti corale, come nell’iniziale title-track dove viene usato un coro di sei voci all’unisono che intonano melodie avvolgenti, sottolineate da una chitarra acustica arpeggiata à la Nick Drake, piano, organo e tastiere minimali, con risultati affascinanti. Dun Laoghaire, con la bella voce di David in primo piano, è un acquarello folk delizioso, solo per voce e chitarra, con gli altri vocalist che entrano nel finale; anche Accumulates privilegia questo ritorno al suono più raccolto dei primi album, con il cello della Dale a sottolineare la parte introduttiva, poi entra una batteria discreta ma incalzante che dà un certo vigore rock alla canzone https://www.youtube.com/watch?v=-Pj5pS-ud1U , e alla voce accorata del nostro. Heart And Soul potrebbe essere il manifesto dei capisaldi della propria musica, tra delicati palpiti e deliziose melodie amorose, mentre Laughing Gas è una bella ballata pianistica, appena “lavorata” a livello di suono, con lo struggente cello della Dale in evidenza.

La tenera False Gods è quasi consolatoria, Deep Water Swim, altra ballata solenne con Morrison, e il primo Springsteen, nel DNA, lascia poi spazio al lento ma inesorabile crescendo della lunga Spiral Arms e della bucolica Dares My Heart Be Free, con squarci quasi mistici delle campagne del Nord, con una voce femminile a contrappuntare quella di Gray. Molto bella anche House With No Walls, con il fingerpicking ad accompagnare la voce di David, che poi si lascia andare alle dolcezze non svenevoli di un’altra ballata pianistica come It Can’t Hurt More Than This, dove la voce di Gray ricorda molto quella del Bono più intimista https://www.youtube.com/watch?v=yt1QHkBExl8  e anche la conclusiva All That We Asked For ha questo empito di serenità conquistata a fatica attraverso una interpretazione struggente https://www.youtube.com/watch?v=nslKfgnv_PY . Un buon disco che dovrebbe piacere agli amanti della musica di un David Gray particolarmente ispirato.

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Il Broadcast “Perso”…E Ritrovato! Bruce Springsteen & The E Street Band – Atlanta, September 30 1978

bruce springsteen fox theater 1978

Bruce Springsteen & The E Street Band – Fox Theatre, Atlanta, GA 9/30/78 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

L’escalation di Bruce Springsteen come performer dal vivo si può riassumere brutalmente come segue: nel 1975 comincia a farsi notare come uno degli acts più coinvolgenti in circolazione, nel 1978 si crea la leggenda, che viene consolidata nel tour 1980-81 (forse il suo migliore di sempre), mentre nel 1984-85 il Boss “passa alla cassa” per riscuotere una popolarità ormai allargata a livello mondiale. E’ indubbio però che l’anno chiave della carriera live di Bruce sia il 1978, quello del tour di Darkness On The Edge Of Town, che vede il nostro e la sua E Street Band letteralmente, come avrebbe detto il grande Gianni Brera, in “erezione agonistica” durante tutto l’anno. La serie mensile di CD e download live del Boss finora ha dato parecchio spazio a questo fantastico tour con ben sette pubblicazioni, alle quali si aggiunge ora lo show del 30 settembre al Fox Theatre di Atlanta, che va anche a completare un’ideale collezione dei broadcast radiofonici usciti all’epoca, cinque in tutto (insieme ai mitici Roxy Theatre di Hollywood, Agora Ballroom di Cleveland e Capitol Theatre di Passaic, ed al leggermente meno noto show al Winterland di San Francisco).

Questa serata nel capoluogo della Georgia è abbastanza particolare, in quanto per anni è stata considerata come “the lost broadcast”, non perché i nastri fossero andati persi ma per uno stranamente scarso utilizzo e diffusione come bootleg, sia in vinile prima che in CD dopo. E’ quindi con particolare piacere che mi occupo oggi di questo show, dal momento che pure essendo meno famoso di quelli a Cleveland e Passaic non ha nulla da invidiare a loro in termini di intensità della performance, coinvolgimento di chi ascolta e perfezione nel suono (ed anche il missaggio, all’epoca affidato per il broadcast al noto produttore Jimmy Iovine, è perfetto). Quasi tre ore di grandissimo rock’n’roll e ballate sontuose quindi, come spesso è capitato in questa benemerita serie i cui responsabili vanno a scegliere i concerti migliori del Boss già negli anni meno “leggendari”, figuriamoci quando tocca al 1978 o 1980-81, che da qualunque parte scegli non sbagli. L’uno-due iniziale, formato da due travolgenti versioni del classico rock’n’roll Good Rockin’ Tonight e di Badlands, ci fa subito capire che la serata è di quelle giuste, ma Bruce mantiene alta la tensione con una vibrante Spirit In The Night di nove minuti e due ottime riletture di Darkness On The Edge Of Town e The Promised Land, inframezzate dall’allora inedita Independence Day in anticipo di due anni su The River ma già profonda e toccante.

A questo punto c’è forse la sequenza migliore della serata, formata da Prove It All Night (dodici minuti fantastici, con la strepitosa introduzione per piano e chitarra esclusiva di questo tour), Racing In The Street, Thunder Road e Jungleland, quattro canzoni magnifiche ulteriormente nobilitate dallo straordinario pianoforte di Roy Bittan, il cui tocco inconfondibile è in grado di innalzare qualsiasi brano e che quella sera è in particolare stato di grazia. Dopo un’inattesa Santa Claus Is Coming To Town (al 30 settembre…) i nostri improvvisano una breve e decisamente swingata, cover di Night Train di James Brown (figlio “adottivo” di Atlanta), qui nell’unica esecuzione della loro carriera; Fire è più sintetica e con meno cazzeggio del solito, Candy’s Room non mi ha mai fatto impazzire (ma è un mio problema), ma Because The Night è proposta in una maniera che definire trascinante è dire poco.

Dopo un’altra anteprima da The River, la drammatica Point Blank, Bruce improvvisa un notevole medley fra Not Fade Away di Buddy Holly, Gloria di Van Morrison e la sua She’s The One, ed a seguire ci delizia con un altro uno-due micidiale formato dalla sempre maestosa Backstreets e da una roboante Rosalita di 16 minuti. I bis di Born To Run e Tenth Avenue Freeze-Out sono preparatori al gran finale, con un Detroit Medley da favola, altri dieci minuti che da soli valgono gran parte del prezzo richiesto per il triplo CD; a chiudere abbiamo Raise Your Hand (Eddie Floyd), suonata quasi in souplesse dal momento che il pubblico non si è ancora ripreso dal medley precedente. Con la prossima uscita faremo un salto in avanti di ben trent’anni, uno Springsteen più maturo e forse appagato, ma sul palco sempre un numero uno.

Marco Verdi

Dal Cuore Dell’Irlanda Una Toccante Serata A Scopo Benefico. Mick Flannery – Alive Cork Opera House 2019

mick flannery alive

Mick Flannery – Alive Cork Opera House 2019 – Rosaleen Records – CD – LP

Sono passati quindici anni da quando Mick Flannery ha pubblicato il suo album di debutto il bellissimo (ma passato quasi inosservato) Evening Train (05), comunque era già chiaro fin da allora che il nativo di Blarney, nei suoi testi e nelle sue melodie era influenzato dai Van Morrison, Leonard Cohen, Tom Waits (tutti grandi di quel periodo passato ma da non dimenticare), con una voce “burberamente” affascinante che completava il suo stile di “songwriter”. Dall’uscita del suo ultimo disco omonimo dello scorso anno https://discoclub.myblog.it/2019/07/11/dalla-contea-di-cork-torna-lultimo-storyteller-mick-flannery-mick-flannery/ , il buon Mick con la sua band, ha eseguito oltre 100 concerti tra Irlanda, Regno Unito, Stati Uniti e Canada, e questo CD che andiamo a recensire è un lavoro completamente indipendente con 17 tracce live registrate lo scorso anno, nel mitico Opera House Theatre di Cork, con la meritevole iniziativa di Flannery di devolvere i proventi delle vendite del disco a tutti i componenti della sua band (compresa anche la troupe), che improvvisamente, causa “Covid-19”, si sono ritrovati senza lavoro nei mesi seguenti. Poteta acquistarlo qui https://mickflannery.bandcamp.com/album/alive-cork-opera-house-2019

Così la sera del 26 Settembre 2019, Flannery voce, chitarra e pianoforte si porta sul palco la sua fidata band composta da Alan Comerford alla chitarra elettrica, Mike O’Connell al basso, Phil Christie alle tastiere, Christian Best alla batteria, Matthew Berrill al sassofono e clarinetto, Karen O’Doherty al violino, e come vocalist sua zia Yvonne Daly, sotto la supervisione dell’ingegnere del suono e produttore John Fitzgerald. Il concerto si apre con uno dei brani più toccanti di Flannery, Wasteland tratta dall’album omonimo dello scorso anno, con un suono rock più potente e che termina con un assolo di chitarra, cosa che si ripete nella “morrisionana” There Must Be More con tanto di sassofono in sottofondo, per poi recuperare dall’album di debutto una sempre commovente Take It On The Chin, a cui segue Get What You Give, riletta con un ricco tessuto sonoro. Con One Of The Good Ones si scopre la parte più rock di Mick, per poi tornare subito alle atmosfere più calde e ovattate di una sofferta I’ll Be Out Here valorizzata dal sassofono di Berrill e dalla soave voce di zia Yvonne, e dopo una presentazione parlata va a recuperare dall’album Red To Blue, un valzer romantico come Boston, solo pianoforte e voce, mentre How High viene presentata con il coinvolgimento di tutta la band.

Dopo una breve conversazione con il pubblico, Flannery recupera da Evening Train un altro dei suoi brani più noti e amati dal pubblico, la sempre commovente In The Gutter, per poi divertire i presenti con il testo spiritoso di una divertente e inedita Christy Skull Hits, ritornare nei suoi panni abituali con l’ariosa melodia di Come Find Me, e meritoriamente portare alla luce da un EP poco conosciuto come Mickmas (18), una potente Star To Star cantata e suonata al meglio con in evidenza il sassofono del bravo Berrill nella parte conclusiva. Dopo la presentazione dei componenti della band, la parte finale del concerto vede Flannery saccheggiare un album importante come Red To Blue con l’omonima title track, con una sezione ritmica più potente, proseguire nel segno del rock con No Way To Live, commuovere il pubblico in sala con le note lamentose del sassofono di una Small Fire dall’intrigante finale “psichedelico”, e andare a chiudere un concerto splendido con I Own You, dove si manifesta ancora una volta la parte meno conosciuta e più “rock” del cantautore Irlandese.

Per il sottoscritto uno dei pericoli degli album dal vivo è mettere fianco a fianco le canzoni dell’ultimo album in studio, con quelle registrate magari quindici anni prima, ma in questo caso specifico il pericolo non sussiste, in quanto c’è sempre stata qualità in tutti i suoi album nel corso degli anni, compreso questo Alive, At Cork Opera House, ulteriore esempio dell’immenso talento di Mick Flannery come cantautore, che lo fa aggiungere a quella lunga lista di piccoli e grandi tesori nascosti nel panorama della musica Irlandese.

Tino Montanari

A Volte, Fortunatamente, Ritornano Come Un Tempo! Ray LaMontagne – Monovision

ray lamontagne monovision

Ray Lamontagne – Monovision – Rca Records

I primi quattro album di Ray LaMontagne, da Trouble del 2004 a God Willin’ & The Creek Don’t Rise del 2010, mi erano piaciuti moltissimo, e non solo a me, perché erano dischi veramente bellissimi e furono anche di grande successo, perché complessivamente avevano venduto quasi 2 milioni di copie solo negli Usa, gli ultimi due arrivando fino al 3° posto delle classifiche, tanto che Ray (dopo una vita in cui aveva girovagato dal nativo New Hampshire, poi nello Utah e nel Maine) si era potuto permettere di comprare una fattoria di 103 acri a Ashfield, Massachusetts, per oltre un milione di dollari, dove vive tuttora e ci ha costruito anche uno studio di registrazione casalingo. Brani in serie televisive, colonne sonore, VH1 Storytellers, un duetto con Lisa Hannigan nel disco Passenger del 2011, Insomma lo volevano tutti: poi nel 2014 esce il disco Supernova, prodotto da Dan Auerbach, un disco dove il suono a tratti vira verso la psichedelia, un suono molto più “lavorato” e con derive pop barocche, non brutto nell’insieme, tanto che molte critiche sono ancora eccellenti e il disco arriva nuovamente al terzo posto delle classifiche di Billboard, alcuni brani ricordano il suo suono classico, ma nel complesso è “diverso”. Nel 2016 ingaggia Jim James dei My Morning Jacket per Ouroboros dove il pedale viene schacciato ulteriormente verso una psichedelia ancora più spinta, chitarre elettriche distorte, rimandi al suono dei Pink Floyd in lunghi brani con improvvisazoni strumentali, voce filtrata o utilizzata in un ardito falsetto, per chi scrive anche un po’ irritante, benché ci siano dei passaggi quasi bucolici e sereni che si lasciano apprezzare, sempre se non avesse fatto i primi quattro album.

Il disco va ancora abbastanza bene, per cui si ritira per la prima volta nel suo studio The Big Room e decide di proseguire con la sua svolta “cosmica” pubblicando nel 2018 Part Of The Light, che però cerca di coniugare lo spirito rock dei dischi precedenti ad altri momenti più intimi e ricercati che rimandano al folk astrale dei primi album, un ritorno alle sonorità più amate della prima decade. Che giungono a compimento in questo nuovo Monovision dove, come ricordo nel titolo, LaMontagne ritorna, per citare altre frasi celebri e modi di dire, sulla diritta via e lo fa tutto da solo (d’altronde “chi fa da sé fa per tre”) suonando tutti gli strumenti, chitarre, tastiere, sezione ritmica e componendo una serie di brani ispirati a sonorità più morbide, rustiche e “campagnole”, l’amato Van Morrison e il suo celtic soul, il primo Cat Stevens, mai passato di moda, la West Coast californiana e il Neil Young degli inizi, il tutto ovviamente rivisto nell’ottica di Ray che prende ispirazione da tutto quanto citato ma poi, quando l’ispirazione lo sorregge, come in questo disco, è in grado di emozionare l’ascoltatore anche con la sua voce particolare ed evocativa.

Prendiamo l’iniziale Roll Me Mama, Roll Me, una chitarra acustica arpeggiata, la voce sussurata che diventa roca e granulosa, un giro di basso palpitante che contrasta con l’atmosfera più intima ed improvvise aperture bluesy, che qualcuno ha voluto accostare, non sbagliando, ai Led Zeppelin più rustici e fok de terzo album. I Was Born To Love You è una di quelle ballate meravigliose in cui il nostro amico eccelle, un incipit acustico alla Cat Stevens che si trasforma all’impronta in una lirica melodia westcoastiana, con fraseggi deliziosi dell’elettrica e il cantato solenne di un ispirato LaMontagne che fa una serenata alla sua amata. Strong Enough è la canzone più mossa e ottimista del disco, un ritmo che prende spunto dalla soul music miscelato con il groove del rock classico dei Creedence, la voce di Ray che si fa “nera”, sfruttando al massimo la sua potenza di emissione.

Summer Clouds torna al suono di una solitaria acustica arpeggiata, alla quale il nostro amico aggiunge una tastiera che riproduce il suono degli archi, un cantato quieto ed avvolgente, uguale e diverso al contempo da quello malinconico di Nick Drake e dei folksingers britannici dei primi anni ’70, ma anche di un Don McLean; We’ll Make It Through, il brano più lungo con i suoi sei minuti, si avvale del suono dolcissimo di una armonica soffiata quasi con pudore, senza volere disturbare, un omaggio al soft rock delle ballate dolci e pacatamente malinconiche dei cantautori californiani dei primi anni ’70.

Misty Morning Rain ci riporta al suono dell’esordio Trouble, quando LaMontagne veniva giustamente presentato come un epigono del Van Morrison più mistico, con il suo celtic soul, dove la forza impetuosa del cantato solenne di Ray e la musica incalzante convergono in un tutt’uno assolutamente radioso ed affascinante, mentre Rocky Mountain Healin’ sembra uscire dai solchi di After The Gold Rush o di Harvest di Neil Young, LaMontagne armato di armonica, questa volta fa la serenata alle Montagne Rocciose, che anche il sottovalutato John Denver aveva cantato in una delle sue composizioni più belle e il nostro amico non è da meno in un altro brano di qualità eccellente. In Weeping Willow LaMontagne si sdoppia alla voce in una canzone che rende omaggio a gruppi vocali come Everly Brothers e Simon And Garfunkel in un adorabile quadretto sonoro demodé, ma ricco di affettuose sfumature. Delicata ed avvolgente anche la bucolica Morning Comes Wearing Diamonds è un piccolo gioiellino acustico di puro folk pastorale con Ray che ci regala ancora squisite armonie vocali di superba fattura. E nella conclusiva Highway To The Sun il buon Ray si avventura anche nelle languide atmosfere country-rock che avremo sentito mille volte ma quando sono suonate e cantate con questa passione e trasporto ti scaldano sempre il cuore. Semplicemente bentornato!

Bruno Conti

Un Altro “Giovanotto” Pubblica Uno Dei Suoi Migliori Album Di Sempre! Dion – Blues With Friends

dion blues with friends

Dion – Blues With Friends – Keeping The Blues Alive CD

Dion DiMucci, conosciuto semplicemente come Dion, fra un mese compierà 81 anni, di cui più di sessanta di carriera musicale: a dirlo uno non ci crede, in quanto il cantante originario del Bronx non dimostra assolutamente le sue primavere e soprattutto non le dimostra la sua voce, che è ancora incredibilmente limpida e giovanile. Dagli esordi negli anni cinquanta a capo dei Belmonts in poi, Dion ha sempre proposto un’ottima miscela di rock’n’roll, doo-wop, pop (il suo famoso album del 1975 Born To Be With You è stata una delle ultime produzioni di Phil Spector) e gospel, fino al ritorno al rock nel 1989 con lo splendido Yo Frankie. Nel nuovo millennio il nostro si è decisamente avvicinato al blues, con una trilogia di album di buona fattura pubblicati tra il 2006 ed il 2011 “interrotti” nel 2016 dal più variegato New York Is My Home https://discoclub.myblog.it/2016/02/18/vecchie-glorie-alla-riscossa-dion-new-york-is-my-homejack-scott-way-to-survive/ . Quest’anno Dion ha deciso di tornare di nuovo al blues, ma questa volta ha alzato il tiro a livelli inimmaginabili, confezionando un disco davvero magnifico, con una serie di ospiti da capogiro ed una produzione nettamente migliore rispetto agli ultimi lavori.

Blues With Friends è quindi una sorta di capolavoro della terza età per Dion, un album strepitoso in cui il nostro si cimenta ancora con la musica del diavolo (ma non solo, c’è anche qualche brano non blues) e lo fa con un parterre de roi incredibile, una serie di musicisti che non appaiono tutti i giorni su un disco solo, e che vedremo tra poco canzone dopo canzone. Ma il protagonista del disco è senza dubbio Dion, con la sua voce ancora splendida e la sua attitudine da bluesman sempre più sicura: se devo essere sincero, quando nel 2006 era uscito Bronx In Blue avevo storto un po’ il naso dato che non ritenevo Dion adatto al blues (ma il disco si era rivelato ben fatto), però negli anni il rocker newyorkese mi ha smentito acquistando sempre più credibilità come bluesman. E non è tutto: in Blues With Friends non ci sono cover di classici del blues, ma tutti i brani sono usciti dalla penna del nostro, alcuni nuovi, altri rifatti, altri ancora tirati fuori da un cassetto (e per il 98% scritti insieme a tale Mike Aquilina). Pare che lo stimolo iniziale per il progetto lo abbia dato Joe Bonamassa (ed infatti il CD esce per la Keeping The Blues Alive Records, etichetta di sua proprietà), ma gli altri grandi della chitarra non hanno tardato a rispondere presente, a parte qualche inevitabile assenza (dov’è Clapton?): e attenzione, questo non è un disco di duetti vocali (ce ne sono solo due su 14 brani totali), ma un album di chitarre al 100%.

La house band, se così si può dire, è formata dallo stesso Dion alla chitarra ritmica e da Wayne Hood (che produce anche il lavoro con Mr. DiMucci, una produzione solida ed asciutta) alla seconda chitarra, basso, tastiere e batteria; dulcis in fundo, Dion stesso accompagna nel libretto ogni canzone con interessanti aneddoti, e la prefazione è stata scritta nientemeno che da Bob Dylan, che ha gratificato il nostro con parole molto sentite e toccanti. L’iniziale Blues Comin’ On vede proprio Bonamassa protagonista, un boogie poderoso dal suono limpido e forte e dominato dalla voce scintillante del leader, con “JoBo” che arrota da par suo piazzando un paio di assoli torcibudella: miglior avvio non poteva esserci. Kickin’ Child era già stata incisa da Dion nei sixties con la produzione di Tom Wilson (era anche il titolo del suo “lost album” uscito nel 2017), ma qui viene rifatta con uno stile rock-blues pimpante ed allegro che ricorda un po’ B.B. King, accompagnato dalla chitarra “swamp” di Joe Menza (un commerciante in chitarre vintage che si cimenta anche con lo strumento); la sei corde piena di swing di Brian Setzer contribuisce fin dalle prime note alla riuscita della bella Uptown Number 7, altro coinvolgente boogie dal ritmo vigoroso con Dion che gorgheggia con la solita naturalezza ed il biondo Brian che lo segue senza perdere un colpo.

Il tintocrinito Jeff Beck è uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi (sicuramente da Top Ten, per qualcuno anche da Top Five) e qui è alle prese con Can’t Start Over Again che è uno slow più country che blues e forse un tantino sdolcinato (e poi quel synth che scimmiotta la sezione d’archi…), ma Jeff accarezza comunque il brano con classe e misura, mentre con My Baby Loves To Boogie torniamo in territori più consoni con un pezzo tutto ritmo e feeling, un jump blues classico nel quale le chitarre soliste sono di Dion e Hood in quanto l’ospite, John Hammond, per l’occasione suona (bene) l’armonica. Forse I Got Nothin’ potrebbe essere considerato un blues abbastanza canonico, ma se poi ci piazzi il grande Joe Louis Walker alla solista e soprattutto Van Morrison alla voce (in duetto con Dion), ti ritrovi con uno dei pezzi migliori del CD, da ascoltare in religioso silenzio; i fratelli Jimmy e Jerry Vivino, rispettivamente alla chitarra e sax, donano spessore, calore ed un tocco di raffinato jazz a Stumbling Blues, mentre Billy Gibbons non ha mezze misure dato che la chitarra se la mangia a colazione, e con la solidissima e cadenzata Bam Bang Boom porta un po’ di Texas nel Bronx. Se Gibbons è un macigno, Sonny Landreth è un fine tessitore di melodie con la sua splendida slide, ma sa dare potenza quando è necessario come accade con I Got The Cure (dove spuntano anche i fiati), fornendo una prestazione strepitosa, ricca di classe e grondante feeling, per uno degli highlights del CD.

Con Song For Sam Cooke (Here In America) Dion mette un attimo da parte il blues per un toccante omaggio al grande soul singer citato nel titolo (i due si conoscevano bene), una splendida ed evocativa ballata di stampo folk impreziosita dal violino di Carl Schmid e soprattutto dalla voce di Paul Simon, che fornisce il secondo duetto del disco. La giovane promessa del blues Samantha Fish si destreggia con brio ed energia nella saltellante e godibile What If I Told You (performance eccellente), e non sono da meno ancora John Hammond (slide) e la brava Rory Block (chitarra, basso e controcanto) nel notevole country-blues elettroacustico Told You Once In August, un pezzo degno di Mississippi John Hurt. Finale all’insegna della E Street Band prima con la roboante e coinvolgente Way Down (I Won’t Cry No More), dove la chitarra solista è di Little Steven che tira fuori un assolo molto sanguigno, e poi con il Boss e signora, quindi Bruce Springsteen (chitarra solista, ma non voce) e Patti Scialfa (armonie vocali) che accompagnano Dion nella bellissima e ricca di pathos (ma non blues) Hymn To Him, remake di un brano già inciso dal nostro nel 1987 e finale perfetto per un disco favoloso.

Credo che dal prossimo album Dion dovrà rivolgersi ad un genere musicale diverso, dato che per quanto riguarda le dodici battute a mio parere ha raggiunto l’apice con questo imperdibile Blues With Friends: disco blues dell’anno?

Marco Verdi

Un Altro Disco “Fantasma”: La Sorpresa Che Non Ti Aspetti. William Topley – Amidst The Alien Cane

william topley amidst the alien cane

William Topley – Amidst The Alien Cane – CD Baby – Download + Streaming

Come promesso qualche giorno fa, oggi parliamo con piacere del cantante inglese William Topley, che ha iniziato come cantante e leader nel gruppo dei Blessing (una meteora con soli due album all’attivo all’inizio degli anni ’90 https://www.youtube.com/watch?v=kesomrqNYn0 ), per poi lasciare la band per intraprendere la carriera solista con l’ottimo Black River (97), a cui farà seguire nell’arco di una decade Spanish Wells (99), Feasting With Panthers (01), Sea Fever (03), All In The Downs (06) per chi scrive il suo disco migliore, Water Taxi (09), South On Velvet Clouds (11), e due lavori usciti nell’assoluto anonimato come Aristocrats Of The South Seas (12) e Halved Moons & Hooded Mountains (16), per poi rispuntare come l’Araba Fenice con questo inaspettato Amidst The Alie Cane, che come al solito è, per usare un eufemismo, di difficile reperibilità.

Dotato di una bella voce scura, profonda e calda ( con i dovuti distinguo, alla Van Morrison per intenderci), il buon Topley è anche un ottimo compositore, che propone una musica molto influenzata dal blues e dal soul (che a dispetto delle sue origini ha ben poco di inglese, e considerando che vive negli Stati Uniti da oltre 20 anni), avvalendosi negli anni di “sessionmen” di qualità e della sua touring band, per una manciata di canzoni dalla durata media sui quattro minuti, di grande “feeling”. L’inizio è sorprendente con il sincopato ritmo di Pisco Sours, con un drumming secco e voce calda, a cui fa seguito The Sea Is My Religion, che inizia con dolci note di pianoforte, per poi trasformarsi in una classica “rock ballad” americana (alla Bruce Hornsby) con la voce potente dell’autore in evidenza, e una Harboured A Hope elettroacustica e malinconica.

Con Worn Out Heart si entra in un territorio caro al Joe Cocker d’annata, ma Topley predilige soprattutto le ballate lente come la malinconica Angels At The Ritz, e la coinvolgente High Lonesome, con la sua voce calda e personale che la domina, per poi arrivare alla bellezza disarmante di una Too Late Grace (qui troviamo molto Van Morrison), dove Topley può tirare fuori il meglio dalle sue corde vocali. Si cambia decisamente passo e ritmo con la versione acida di How Many Love Songs?, per poi passare al suono acustico delle chitarre in una confidenziale e quasi medioevale Somebody’s Heart, e andare a chiudere il viaggio con il bel rock-country di una Listen To The Band, dove sembra di sentire i primi Whiskeytown. Dai tempi dei Blessing e in tutta la sua carriera solista affrontata con tenacia e coerenza, William Topley non ha mai raccolto quanto effettivamente avrebbe meritato, nonostante una grande voce inconfondibile (capace di rendere interessante anche la lettura dell’elenco telefonico), che mischia una musicalità varia con liriche poetiche, con canzoni che parlano di solitudine, di amori spezzati, della vita di tutti i giorni, su melodie profonde e intense che creano forti emozioni nell’ascoltatore.

Non so se nel percorso artistico di William Topley questo Amidst The Alien Cane sia destinato ad essere un nuovo punto di partenza o di un’altra prova che come altre passerà inosservata, ma di una cosa sono sicuro, se ne accorgeranno forse in pochi ma questo ultimo lavoro è il suo disco migliore dai tempi eal citato All In The Downs. In definitiva belle canzoni più una grande voce, cosa volete di più!

Tino Montanari

Cofanetti Autunno-Inverno 18. L’Ultimo Ruggito Di Una Piccola Grande Band. The Pretty Things – The Final Bow

pretty things the final bow

The Pretty Things – The Final Bow – Madfish/Snapper 2CD/2DVD/10” LP Box Set

Ci sono gruppi che hanno attraversato la cosiddetta “golden age of rock’n’roll” da comprimari, conquistandosi al massimo una nota a pié di pagina nelle enciclopedie ed assaporando un successo inversamente proporzionale alla loro bravura: quelle che oggi vengono definite band di culto, per intenderci. Uno dei nomi oggi più dimenticati in tal senso è quello dei Pretty Things, gruppo inglese originario del Kent ,attivo dalla metà degli anni sessanta inizialmente con una miscela di rock ed errebì equiparabile ai primi Moody Blues, agli Animals ma anche ai Them (e soprattutto ai Rolling Stones, in quanto Dick Taylor, insieme a Jagger e Richardsfu il primo chitarrista di una band chiamata Little Boy Blue and the Blue Boys, che con l’ingresso di Brian Jones  sarebbero diventati appunto gli Stones, mentre Taylor insieme a Phil May avrebbe fondato i Pretty Things): PT che che poi inserirono nel loro suono elementi psichedelici, senza tuttavia dimenticare l’amore originario per il blues (il nome è ispirato da una canzone di Bo Diddley, loro grande idolo); i nostri non ebbero mai un grande successo neppure nei sixties, con l’esordio del 1965 unico album ad entrare nella Top Ten (leggermente meglio, ma non troppo, con i singoli), e con il loro capolavoro S.F. Sorrows del 1968 (considerata la prima opera rock di sempre, in anticipo di un anno su Tommy degli Who) che non entrò neanche nella Top 100!

Ma i PT, scioltisi all’inizio degli anni ottanta (dopo avere inciso negli anni ’70 per la Swan Song, l’etichetta dei Led Zeppelin) scioltisi alla fine del vecchio millennio, hanno sempre continuato imperterriti a fare la loro musica, ed il 13 Dicembre del 2018 hanno deciso di dare l’addio alle scene in grande stile, con un magnifico concerto tenutosi al teatro 02 Indigo di Londra, serata documentata in questo splendido cofanetto intitolato The Final Bow che in due CD, altrettanti DVD ed un vinile da dieci pollici (esiste anche una versione in doppio LP, ma con il concerto incompleto) ci offre una eccellente panoramica sul meglio della loro storia. Gli unici due membri originari sono appunto il cantante Phil May ed il chitarrista Dick Taylor (coadiuvati dai più giovani Frank Holland, chitarra, George Woosey, basso e Jack Greenwood, batteria), i quali nonostante l’età e l’apparente fragilità fisica sul palco sono ancora in grado di dire la loro alla grande. The Final Bow è quindi un grande live album, in cui i Pretty Things si autocelebrano con stile ma anche tanta grinta, suonando con una foga degna di un gruppo di ragazzini, ed in più con diverse sorprese ad effetto durante tutto lo show. Tanto rock’n’roll, ma anche parecchio blues e qualche sconfinamento nella psichedelia, specie nel momento dello show dedicato a S.F. Sorrows.

Introdotti dal loro ex batterista ed ora maestro di cerimonie Mark St. John, i nostri iniziano con due energiche versioni dei due singoli più popolari, Honey, I Need e Don’t Bring Me Down, puro rock’n’roll perfetto per riscaldare da subito l’atmosfera (e Taylor fa vedere di essere un chitarrista notevole). La ritmata ed annerita Buzz The Jerk (caspita se suonano) precede il primo di vari omaggi a Diddley con una potente versione di Mama, Keep Your Big Mouth Shut, in uno stile giusto a metà tra errebi e rock. Lo show prosegue in maniera sicura e fluida con trascinanti riletture dell’orecchiabile Get The Picture?, pop song suonata con grinta da garage band, la goduriosa The Same Sun, i nove splendidi minuti del medley Alexander/Defecting Grey, rock-blues tostissimo dal tocco psichedelico e prestazione incredibile di Taylor, una robusta riproposizione del classico di Jimmy Reed Big Boss Man, una vitale Midnight To Six Man, che ha dei punti in comune con il suono dei Them, e la guizzante Mr. Evasion. La seconda parte dello spettacolo vede una selezione di brani proprio da S.F. Sorrows, con May e Taylor che vengono raggiunti sul palco dagli altri tre ex compagni presenti sull’album originale, cioè John Povey, Wally Waller e Skip Allan; ma le sorprese non finiscono qui, in quanto dopo la breve intro di Scene One ed una cristallina S.F. Sorrows Is Born i nostri chiamano sul palco David Gilmour: l’ex Pink Floyd sarà anche invecchiatissimo ma con la chitarra in mano è ancora un portento, e si inserisce alla perfezione all’interno della band per strepitose versioni, tra rock e psichedelia d’annata, di She Says Good Morning, Baron Saturday, Trust e I See You, per poi chiudere il secondo set con i sette minuti di Cries From The Midnight Circus (che però proviene dall’album Parachute del 1970), rock chitarristico della miglior specie.

La terza ed ultima parte inizia a tutto blues con due toniche Can’t Be Satisfied (Muddy Waters) e Come In My Kitchen (Robert Johnson), entrambe in riletture acustiche con Dick bravissimo anche alla slide, due pezzi che preparano all’altra grande sorpresa della serata, cioè l’arrivo di sua maestà Van Morrison, il quale presta la sua inimitabile voce in ben tre brani, il classico deiThem Baby, Please Don’t Go ed altri due omaggi a Bo Diddley con I Can Tell e You Can’t Judge A Book By Its Cover: tre canzoni che da sole valgono gran parte del prezzo richiesto per il box (che tra parentesi non è bassissimo). La serata volge al termine, il tempo per una diretta e roccata Come See Me e per due monumentali riletture di Mona (ancora Diddley) e del medley L.S.D./Old Man Going (di nuovo con Gilmour on stage), ben tredici minuti ciascuna, il modo migliore per i nostri di dire addio al loro pubblico. Ma non è finita, in quanto c’è tempo ancora per due brevi bis con Rosalyn, il loro primo singolo in assoluto, e con la bella e toccante Loneliest Person, che in origine chiudeva S.F. Sorrows e in quella serata invece chiude la carriera concertistica dei Pretty Things. I due DVD offrono la versione video del concerto sia “edited” che “uncut”, oltre che un documentario, mentre il vinile, molto interessante, presenta su un lato cinque brani dello show scelti dalla band e sull’altro gli stessi pezzi nella loro versione originale.

Ormai è tardi per le classifiche dei migliori del 2019, ma questo The Final Bow è “senzadubbiamente” (per dirla con Antonio Albanese) uno dei live più belli dell’anno appena trascorso.

Marco Verdi

Il Disco Della Consacrazione Per Uno Dei “Nuovi” Fenomeni Della Chitarra. Albert Cummings – Believe

albert cummings beleive

Albert Cummings – Believe – Mascot/Provogue – 14-02-2020

Era quasi inevitabile che anche Albert Cummings, uno dei migliori chitarristi americani, prima o poi sarebbe approdato alla Mascot/Provogue: lui stesso ha detto di essere onorato per essere finito nella stessa etichetta di Joe Bonamassa, Walter Trout ed Eric Gales (e aggiungo io, decine di altri virtuosi della chitarra). Il nostro amico viene da Williamstown, Massachusetts e ha inciso finora non molti album (otto, compresi due live), visto che la sua carriera discografica ufficiale è partita solo intorno al 2000, quando aveva superato i 30 anni da tempo. “Scoperto” da Chris Layton e Tommy Shannon, a cui si era poi unito Reese Wynans, fu il primo musicista a registrare un intero album con i Double Trouble del suo idolo Stevie Ray Vaughan, dopo la scomparsa di quest’ultimo, e di cui quest’anno ricorre il 30° Anniversario dalla morte (come passa il tempo!): il disco From The Heart, uscito nel 2003, fu registrato proprio in Texas, con la produzione di Layton e Shannon. Da allora, quasi tutti i dischi successivi, usciti per la Blind Pig Records, sono stati prodotti da Jim Gaines https://discoclub.myblog.it/2012/09/13/un-ulteriore-virtuoso-della-6-corde-albert-cummings-no-regre/ , che torna dietro alla consolle anche per questo Believe, registrato in una delle mecche assolute della musica americana, i FAME Studios a Muscle Shoals, Alabama.

Nello stile di Cummings quindi per l’occasione, insieme all’immancabile blues, troviamo anche forti elementi soul, rock e country ( già presenti in dischi passati e nell’educazione musicale di Albert che nei primi passi fu però occupata dall’utilizzo del banjo e dalla passione per il bluegrass, poi sostituita dalla scoperta di SRV): il disco, in uscita il 14 febbraio, è probabilmente il migliore in assoluto di Cummings, che comunque raramente, se non mai, ha tradito le aspettative dei fan del blues elettrico, con una serie di album notevoli, dove accanto alle indubbie doti tecniche applicate alla sua Fender Stratocaster, si apprezza anche una eccellente vena di autore di canzoni, rendendolo una sorta di “cantautore” del blues-rock. Qualche cover ci scappa sempre, pochissime per la verità, Live esclusi, un B.B. King qui, un Merle Haggard là, e un brano di Muddy Waters, in tutti i suoi album, ma per il nuovo disco ce ne sono ben quattro (anzi  cinque), l’iniziale Hold On (manca I’m Comin’, ma il brano è proprio quello di Sam & Dave, scritto da Isaac Hayes), e per parafrasare potrei azzardare un  “I’m Cummings”, ma temo il linciaggio per la battuta, e quindi mi limito a dire che è una versione molto calda, in un florilegio irresistibile di fiati e voci femminili di supporto, con Albert che si conferma anche cantante di buona caratura , oltre che chitarrista sopraffino, con un assolo ”ispirato” da quel Duane Allman la cui immagine lo guardava dalle pareti degli stessi studi in cui si trovava lui in quel momento.

Già che siamo in tema di cover,  troviamo  pure una delicata e deliziosa Crazy Love di Van Morrison, trasformata in una bellissima deep soul ballad, anche grazie alla presenza del tastierista Clayton Ivey, uno di quelli che suonava ai tempi nei dischi prodotti a Muscle Shoals e proprio in chiusura di CD, una intensa e scoppiettante Me And My Guitar di Freddie King, con un assolo fiammeggiante che è un misto di tecnica raffinata e feeling. Venendo agli altri brani, come negli album precedenti le canzoni a livello di testi toccano i temi del working man (in fondo Cummings ha sempre lavorato in una azienda di costruzioni di famiglia), delle difficoltà economiche, questioni amorose e così via, niente trattati psicologici, ma uno sguardo sul quotidiano, con una attitudine compartecipe, mentre musicalmente il tema R&B e southern soul rimane anche nella ritmata Do What Mama Says, sempre con fiati, coriste e tastiere a profusione, mentre al solito la chitarra lavora di fino anche a livello di riff, con Red Rooster  (anche in questo caso se gli aggiungete Little è  quella di Howlin’ Wolf e Stones) che è un blues di quelli duri e puri, con una solista “cattiva” il giusto che impazza alla grande; Queen Of Mean è di nuovo un torrido “soul got soul” (?!?), il suono tra Stax e Hi records che usciva dai Fame Studios, e ancora oggi dai dischi di Delbert McClinton, Marc Broussard e altri praticanti del genere.

Con Get Out Of Here, che aggiunge elementi country e sudisti, sempre cantati con voce ricca di impeto e passione da Cummings, che comunque rilascia un torrido assolo dei suoi, tagliente, ripetuto e vibrante. Tra le cover in effetti c’è anche quella di My Babe, Willie Dixon via Little Walter, sempre con quello spirito “sudista” e “nero” che caratterizza tutto l’album, come ribadisce una ottima It’s All Good dove gli elementi country e soul sono ancora presenti negli arrangiamenti lussureggianti della produzione di Gaines che sfrutta al meglio i musicisti degli storici studi dell’Alabama, e Albert lavora comunque di fino con le eleganti volute della sua solista, che poi si scatena,  di nuovo con misura e classe, nel blues carnale Going My Way che cita nel testo il titolo dell’album, una visione ottimistica e piena di speranza “You can have anything you want, all you need to do is believe.” Lasciando all’eccellente Call Me Crazy il pezzo più blues, dove Cummings dà libero sfogo alla sua solista in un tour de force di grande intensità, con il wah-wah che impazza nel finale in omaggio al suo “maestro” Stevie Ray Vaughan. Un delle migliori uscite di inizio anno!

Bruno Conti

Anche Quest’Anno Ci Siamo: Il Meglio Del 2019 Secondo Disco Club, Parte IV

numero uno alan ford

Ogni tanto mi rituffo nelle mie vesti virtuali di “Numero Uno” (anche del Blog), in questo caso per la mia classifica di fine anno, molto ampia ed articolata, e vi annuncio sin d’ora che ci sarà anche una appendice corposa, che mi riservo in qualità di Boss, ma soprattutto perché scorrendo le uscite del 2019 mi sono accorto che sarebbero rimasti fuori dalla lista molti titoli meritevoli, già individuati, che però avrebbero reso questo Post quasi un romanzo. Per cui andiamo con il Best Of in versione “normale”, il resto a seguire. Non sono in stretto ordine di preferenza, esclusi i primi sette o otto.

Bruno Conti Il Meglio Del 2019

Top 15

van morrison three chords & the truth

Van Morrison – Three Chords & The Truth

janiva magness sings john fogerty

Janiva Magness – Sings John Fogerty Change In The Weather

christy moore magic nights

Christy Moore – Magic Nights

mavis staples we get by

Mavis Staples – We Get By

gov't mule bring on the music 2 cd

Gov’t Mule – Bring On The Night Live At Capitol Theatre

marc cohn blind boys of alabama work to do

Marc Cohn And Blind Boys Of Alabama – Work To Do

mike zito a tribute to chuck berry

Mike Zito & Friends – Rock ‘n’ Roll – A Tribute To Chuck Berry

reese wynans sweet release

Reese Wynans And Friends – Sweet Release

john mayall nobody told me

John Mayall – Nobdoy Told Me

jack ingram ridin' high...again

Jack Ingram – Ridin’ High Again

chris kinght almost daylight

Chris Knight – Almost Daylight

over the rhine love and revelation

Over The Rhine – Love And Revelation

allison moorer blood

Allison Moorer – Blood

delbert mcclinton tall dark and handsome

Delbert McClinton – Tall, Dark & Handsome

bruce springsteen western starsbruce springsteen western stars songs form the film

Insieme e alla pari, alla faccia di chi ne ha parlato male!

Bruce Springsteen – Western Stars + Western Stars: Songs From The Film

 

Le Migliori Ristampe Nel senso più ampio del termine.

jimi hendrix songs for groovy children front

Jimi Hendrix – Songs For Groovy Children The Fillmore East Concerts

bob dylan rolling thunder revue

Bob Dylan The Rolling Thunder Revue – The 1975 Live Recordings

fleetwood mac before the beginning front

Fleetwood Mac – Before The Beginning

rory gallagher blues

Rory Gallagher – Blues

allman brothers band fillmore west '71 box

Allman Brothers Band – Fillmore West ’71

van morrison the healing game

Van Morrison – The Healing Game 3 CD

the band the band 2 CD

The Band – The Band 50th Anniversary Edition 2 CD

richard thompson across a crowded room live

Richard Thompson – Across A Crowded Room Live At Barrymore’s 1985

steve miller band welcome to the vault

Steve Miller Band – Welcome To The Vault

rolling stones bridges to buenos aires

Rolling Stones – Bridges To Buenos Aires

Jorma Kaukonen & Jack Casady - Bear’s Sonic Journals Before We Were Them

Jorma Kaukonen & Jack Casady – Before We Were Them

E’ uscito all’inizio dell’anno e molti se lo sono dimenticato, ma merita.

bob dylan travelin' thru bootle series vol.15

Bob Dylan – Travelin’ Thru The Bootleg Series Vol. 15 1967-1969

L’altro cofanetto di quest’anno di Bob Dylan (e Johnny Cash).

gregg allman laid back deluxe

Gregg Allman – Laid Back

carole king live at montreux 1973 cd+dvd

Carole King – Live At Montreux 1973 CD/DVD

marvin gaye what's going on live

Marvin Gaye – What’s Going On Live

pretty things the final bow

Pretty Things – The Final Bow CD/DVD/10″

Recensione nei prossimi giorni: ospiti nel concerto Van Morrison David Gilmour.

 

mandolin' brothers 6

Miglior Disco Italiano

Mandolin’ Brothers – 6

 

Il Meglio Del Resto (Una Prima Selezione)

mary black orchestrated

Mary Black – Orchestrated

runrig the last dance

Runrig – The Last Dance

patty griffin patty griffin

tom russell october in the railraod earth

Tom Russell – October In The Railroad Earth

tedeschi trucks band signs

Tedeschi Trucks Band – Signs

drew holcomb neighbors

Drew Holcomb & The Neighbors – Dragons

rodney_crowell-Texas_cover

Rodney Crowell – Texas

https://discoclub.myblog.it/2019/08/22/un-riuscito-omaggio-alle-sue-radici-anche-attraverso-una-serie-di-duetti-rodney-crowell-texas/

robert randolph brighter days

Robert Randolph & The Family Band – Brighter Days

peter frampton band all blues

Peter Frampton Band – All Blues

echo in the canyon soundtrack

Jakob Dylan & Friends – Echo In The Canyon

nick cave ghosteen

Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen

michael mcdermott orphans

Michael McDermott – Orphans

joe henry the gospel according to water

Joe Henry – The Gospel According To Water

session americana north east

Session Americana – North East

doobie brothers live from the beacon theatre

Doobie Brothers – Live From The Beacon Theatre

leonard cohen thanks for the dance

Leonard Cohen – Thanks For The Dance

 

Delusione Dell’Anno 

sturgill simpson sound & fury

Sturgill Simpson – Sound And Fury Ovvero, il disco più brutto dell’anno! Intendiamoci, ce ne sono a decine, a centinaia, di più brutti, ma da “uno dei nostri” non me lo aspettavo.

Per ora è tutto, ma nei prossimi giorni, come promesso all’inizio del Post, una corposa appendice con il Resto Del Meglio.

Bruno Conti