Recuperi (E Sorprese) Di Inizio Anno 4. Due Voci Femminili Da Scoprire: Olivia Chaney & Joan Shelley

Olivia Chaney The Longest Riverjoan shelley over and even

Proseguendo nei recuperi ecco due cantautrici assolutamente da (ri)scoprire, una inglese ed una americana, accomunate da comuni inflessioni folk: della prima Olivia Chaney, vi avevo già parlato brevemente nella rubrica delle anticipazioni discografiche, mentre di Joan Shelley vi avevo fatto un breve accenno nelle varie liste di fine anno delle migliori uscite discografiche del 2015: partiamo proprio con lei.

Joan Shelley – Over And Even – No Quarter

Questo è già il quarto album pubblicato dalla folksinger americana, ma i primi due, pubblicati a livello autogestito, sono praticamente introvabili, mentre il precedente Electric Ursa, leggermente più complesso, pubblicato sempre dall’etichetta No Quarter (quella di Doug Paisley, Bob Carpenter Endless Boogie) nel 2014 è disponibile sul mercato americano, anche se non di facilissima reperibilità. Joan Shelley viene dai pressi di Louisville, Kentucky, dove a gennaio dello scorso anno è stato registrato questo Over And Even, con Daniel Martin Moore, produttore ed ingegnere del suono, il suo collaboratore fisso, l’ottimo Nathan Salsburg alle chitarre, la stessa Joan anche lei chitarre e banjo, ed un manipolo di collaboratori esterni impegnati ad abbellire il sound in alcuni pezzi. Ma fondamentalmente si tratta di un album di folk di vecchio stile, quello classico, il migliore, che oltre alle chitarre del duo gira soprattutto intorno alla bellissima ed espressiva voce della Shelley:un contralto in grado di virare al soprano, una tonalità calda ed accogliente, quasi piana, ma con improvvise impennate che rendono piacevole l’ascolto dell’album. Prendete l’iniziale Brighter Than The Blues, le due chitarre acustiche a fronteggiarsi, un tamburello, suonato da James Elkington, che è il jolly del disco, in questo brano impegnato anche all’harmonium e alla steel, pochi giri di accordi, ma una musica che ti entra subito in circolo.

Nell’affascinante e deliziosa Over And Even, il corregionale Will Oldham (o se preferite Bonnie “Prince” Billy) è la voce duettante in un’intrigante canzone di stampo country-folk, mentre una chitarra elettrica colora il suono sullo sfondo, e la voce della Shelley è quasi mitchelliana nei suoi timbri. La title-track Over And Even aggiunge organo e piano elettrico Fender Rhodes, suonati dal poliedrico Elkington e miscelati alla quasi twangy elettrica di Salsburg (i due, come chitarristi, duettano anche nel recente CD Ambsace, uno dei quattro dischi strumentali a nome di Nathan Salsburg), mentre la voce sale e scende tra accenti sempre tra la Mitchell e certo folk britannico, penso a Linda Thompson. Bellissima anche la ballata pianistica Not Over By Half, dove il piano di Rachel Grimes affianca le immancabili chitarre in fingerpicking e la voce di supporto alle armonie è quella di Glen Dentinger. Nella breve e riflessiva Ariadne’s Gone Dan Dorff, uno dei vari tastieristi impiegati è al pocket piano, mentre la Shelley quasi scandisce i versi di questo suggestivo brano. Più elettrica No More Shelter dove l’organo di Elkington e la chitarra di Salsburg tracciano magiche traiettorie che consentono alla voce di Joan di brillare ancora di più.

Easy Now è una traccia dal sound quasi californiano anni ’70, quelle canzoni che Jackson Browne e James Taylor, ma anche la stessa Joni Mitchell o la misconosciuta Judee Sill, sfornavano ai tempi quasi a getto continuo, e l’intreccio tra piano e chitarre acustiche è sempre piacevolissimo. Lure And Line, brevissima, quasi un intramuscolo, sognante ed eterea, sulle note di una steel spettrale, sempre di Elkington, e della vocalità intima della Shelley, viaggia in territori che possono ricordare il Nick Drake più malinconico (cioè quello di qualsiasi brano), anche grazie al glockenspiel di Dorff, mentre Jenny Come In, di nuovo con la seconda voce di Oldham a rendere più affascinante lo spettro sonoro della canzone, impreziosita dagli interventi al piano di Dorff, è un altro dei migliori episodi di un album che non ha momenti di debolezza. Wine And Honey ritorna alla formula più semplice delle due chitarre più la voce della Shelley, ma si gusta sempre con lo stesso piacere, come pure My Only Trouble, dove la voce provoca brividi di piacere all’ascoltatore, prima di congedarlo con la conclusiva Subtle Love, dove il piano della Grimes e le armonie vocali di Will Oldham sono gli elementi aggiunti, peraltro non indispensabili, benché sempre graditi, ad una tavolozza di colori, semplice ma classica nei suoi risultati finali. Un nome da segnarsi con la matita rossa tra quelli da seguire.

 

Olivia Chaney – The Longest River – Nonesuch

Se i nomi di riferimento che vengono alla mente (almeno a chi scrive) per Joan Shelley, sono Joni MItchell e Linda Thompson, ma non solonel caso di Olivia Chaney, cantante e polistrumentista inglese (ma che incide per una etichetta americana importante come la Nonesuch, casa di Natalie Merchant, tra i tanti), il nome che mi è balenato subito, anche per la costruzione sonora del disco, è quello di Sandy Denny (e in parte anche della sua erede, la appena citata Natalie Merchant), senza dimenticare l’immancabile Joni Mitchell, di cui tutti da anni, intravedono la potenziale erede, un po’ come ai tempi si cercava il nuovo Dylan https://www.youtube.com/watch?v=VipgQCfu824. La Chaney è al suo album di esordio completo, questo The Longest River, ma già nel 2010 aveva pubblicato un EP  e in seguito ha partecipato a un paio di compilations pubblicate dalla Folk Police Records, oltre ai lavori di colleghi inglesi come Alasdair Roberts Seth Lakeman, con cui condivide la passione per gente come Bert Jansch e i Fairport Convention, ma anche Bob Dylan, grazie alla collezione di dischi del padre, dove si trovavano molti altri illustri cantautori che hanno contribuito alla sua formazione musicale. La nostra amica, è solo una curiosità, nasce in Italia, a Firenze, nel 1982 ed è diplomata alla Royal Academy Of Music di Londra, oltre ad essere più che proficiente a piano, chitarra, harmonium e cello, tutti strumenti che padroneggia con abilità e suona nel disco, si disimpegna anche a dobro, organo, synth, glass harmonica, piano elettrico Wurlitzer e ha curato gli arrangiamenti per archi dell’album, e pure la co-produzione con Leo Abrahams, anche chitarrista in questo The Longest River. Quindi un piccolo genio. Se aggiungiamo che ha pure una bellissima voce, era difficile che il risultato non fosse più che soddisfacente, come è stato.

Diciamo che il folk-rock britannico degli anni ’70 è l’elemento guida, su cui si inseriscono tutte le influenze citate. False Bride, per iniziare, è proprio un brano folk tradizionale, come quelli che si incontravano nei dischi degli artisti citati, con la voce cristallina della Chaney accompagnata solo da una chitarra acustica arpeggiata con grande maestria, su cui poi si inserisce un elegante arrangiamento di archi che ci permettono di gustare la voce della titolare, splendido inizio. Imperfections è una bellissima ballata pianistica che ricorda uno sfortunato soggiorno in quel di New York, ancora con la splendida voce di Olivia che ricorda sia Sandy che Joni e la canzone che nel finale si arricchisce ulteriormente con l’arrivo degli archi e dell’harmonium. Waxwing scritta dal talentuoso Alasdair Roberts ci rimanda addirittura ai leggendari dischi di Shirley Dolly Collins (sarà l’harmonium?), con la seconda voce di Jordan Hunt, che è anche l’autore, insieme alla Chaney, dei bellissimi arrangiamenti orchestrali, oltre a suonare il violino. Loose Change è un’altra piccola perla, in questo caso solo la voce, accompagnata da una rintoccante chitarra elettrica e da un piano in sottofondo. Swimming In The Longest River, nuovamente con l’accompagnamento minimale dei un piano, ci rimanda alla Michell di Blue, racconta di amori, anche carnali ed erotici, con una intensità che è difficile riscontrare in molti dischi moderni. Leggiadra addirittura The King’s Horses, sempre quella voce cristallina che si libra sugli arpeggi di una solitaria chitarra acustica, con Too Social, pianistica e più “americana” nella costruzione sonora, grazie anche al lavoro dell’ingegnere del suono Jerry Boys, uno che ha lavorato con i grandi del folk inglese che hanno influenzato la musica della Chaney, e sa come metterne in evidenza la voce, raddoppiandola qui e là, come in questo caso.

La Jardinera, un brano cileno di Violeta Parra, ricorda addirittura certe escursioni di Joan Baez nella musica popolare sudamericana, di nuovo con il multitracking a rendere ancora più magica l’atmosfera e There’s Not A Swaim scomoda il compositore classico Henry Purcell per volare verso virtuosismi vocali che lasciano a bocca aperta anche per la grande naturalezza con cui vengono eseguiti e con un arrangiamento musicale complesso e ricco di improvvisi crescendi. Holiday è una ballata pianistica più formale, dalla struttura avvolgente, con un mood malinconico che rieccheggia certe canzoni bellissime della migliore Sandy Denny, con Blessed Instant che ai apre con uno strumento a corda pizzicato e la voce solitaria della Chaney, poi il violino e gli archi si aprono e il brano scritto da Sidsel Indresen, una cantante norvegese che mi dicono molto brava ma non conosco, diventa più complesso e raffinato, quasi orchestrale, ma sempre in linea con il tessuto sonoro di questo bellissimo album, che si chiude con Cassiopeia, una ulteriore affascinante ballata pianistica che illustra i talenti di questa “esordiente” di lusso!

Se amate il rock e la musica orecchiabile meglio non farvi tentare da questi due album, gli altri potrebbero avere delle piacevoli sorprese.

Bruno Conti